Nella dedicatoria delle Fantasie il Berchet, come anche accadde al Giannone, si è confessato da sè [160] medesimo in colpa di lesa estetica. Mi son trovato, egli dice, nel conflitto di due sorti di doveri, quelli verso l'arte, quelli verso la patria; e ho creduto fosse onesta cosa la sottomissione dell'amor proprio all'amor della patria. Scuse magre! risponde il critico: se avesse saputo far meglio, certo ch'e' l'avrebbe fatto! Ed è vero. Nè si ha il capolavoro se non quando il poeta e l'uomo si stringano in una sola virtù etica ed estetica insieme. Ma che il Berchet, d'altra parte, fosse nelle sue scuse sincero dimostra almeno una osservazione che quivi aggiunge ad esempio. Ed è che, nel descrivere la battaglia di Legnano, ha fatto parlare a lungo un moribondo, fuor della verisimiglianza. «Lo scoprirmi in fallo per questa parlata sarebbe la cosa del mondo più facile a farsi, se un'altra non ve ne fosse più facile ancora, quella per me di pigliare le cesoie, e tagliar via il corpo del delitto, o d'accorciarlo almeno. E sia lode al vero, due volte ho portate le mani per eseguirlo il taglio, e due volte - lo dirò con una frase tutta di filigrana, rubata al Creso di tali frasi, - due volte caddero le paterne mani. E perchè? Perchè quelle poche ammonizioni contenute nella parlata erano le cose appunto che a me più importava di dire; perchè quelle ammonizioni possono essere come un tocco di campana che svegli altre riflessioni [161] nell'animo de' miei concittadini.» L'Arlecchino dalle cento disgrazie, come sorridendo ei si chiamava, l'uomo che si consolava pensando d'essere stimato almeno un galantuomo, fu dunque galantuomo anche in ciò.
Comunque sia, i difetti dell'arte del Berchet, diseguale spesso nello stile, poco chiaro e poco sottile psicologo ne' Profughi, troppo simmetrico nei sogni delle Fantasie, e via dicendo, son di quelli che appaiono a chiunque legga. E minore artista è nelle sue, del resto utili e opportune, versioni delle Vecchie romanze spagnuole, pubblicate a Bruxelles nel 1837; minore sarebbe riuscito in quel curioso poemetto, rimasto incompiuto, Il Castello di Monforte, donde traspira vivace l'idea anticlericale.
Ma provatevi a leggere ad alta voce, con animo ben disposto, que' versi patriottici, e come vi crescerà via via nella lettura il respiro, come forse vi si veleranno qua e là gli occhi per una lacrima! Tanta è la corrispondenza, e così diretta, tra il sentimento italiano e gli accenti che ne furono inspirati all'esule lombardo. Al quale fu premio il poter dare nell'inno ai moti emiliani e romagnoli del '30 quel saluto alla nostra bandiera che le è rimasto quasi direi consacrato:
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Dall'Alpi allo stretto fratelli siam tutti!
Su i limiti schiusi, su i troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color!
Il verde, la speme tant'anni pasciuta;
Il rosso, la gioia d'averla compiuta;
Il bianco, la fede fraterna d'amor.
Premio maggiore, dopo il lungo pellegrinare in Inghilterra, nel Belgio, in Germania, in Francia, veder sventolare quella sua bandiera dai tre colori, per la guerra del 1848-49, nell'Italia sua; vederla sventolare per opera e merito del Piemonte divenuto asilo degli esuli italiani (ed egli vi fu deputato), e delle speranze di tutta l'Italia che ormai ciascun sentiva non poter tardare ad avverarsi, poi che là a Torino la Rivoluzione raccoglieva tante delle sue forze attorno alla Casa di Savoia.
Chi aveva bollato a fuoco nella Clarina Carlo Alberto, subito che lo vide risoluto ormai a capitanare le forze della rivoluzione e a rischiare tutto pur di redimere l'Italia, non titubò. «L'unità assoluta dell'Italia verrà col tempo.... Intanto qui, nella vallata del Po, da Alpi ad Alpi, noi vogliamo uno Stato (e di' pure un Regno) costituzionale, forte, compatto, di un dodici milioni almeno di abitanti, il quale ci salvi adesso e in futuro da qualunque irruzione straniera, sia ch'ella venga da Germania, sia ch'ella venga da Francia.... Fatto una volta [163] questo muro, da Torino a Venezia, nasca quello che vuol nascere in Europa, l'Italia potrà tenersi tranquilla; e se col tempo questa gran base dell'unità dovrà ingrandirsi ancor più, ci penseranno i figli nostri; chè a noi basta di assicurarci il presente e il prossimo avvenire, e di assicurarlo in modo che non impedisca menomamente i più brillanti destini che possano toccare all'Italia nel futuro.... Dunque è Carlo Alberto che noi vogliamo a Re dell'Italia superiore: e che sia io che predico su questo, tu che sai quello che io mi sia, puoi ben credere che la necessità imperiosa e l'amor disinteressato della mia patria me lo consigliano, e non altro.» Così scriveva nell'aprile del 1848.
Tutte le lettere di lui sono insigne documento del suo acume politico, della drittura dell'animo suo: v'è indicata la opportunità, anzi necessità, per l'Italia nuova di comporsi a monarchia se vuol vivere entro l'Europa monarchica; v'è predicata l'alleanza con gl'Inglesi, utile a noi e a loro; v'è perfino predetta, nel giugno 1848, la cessione della Savoia alla Francia: «Pensa un poco se a far tacere quella maledetta Francia non vi sarebbe un mezzo, quello di cedere a lei la Savoia.» Cercavano metterlo su contro Carlo Alberto? rispondeva: «Non tocca a me di fare il panegirico al Re; ma [164] come galantuomo che adora sopra tutto il vero, ti dico che, lasciato stare il passato, del quale siamo rei tutti, e veduto con occhio scrutatore il solo presente, dal cominciare dell'opposizione sua all'Austria fino adesso, Carlo Alberto si conduce davvero in modo schietto, onesto, lodevolissimo. Avresti mai creduto che io dovessi dire di queste parole? Ma a ciascun secondo l'opere sue.» Cercavano, invece, fargli cantare la palinodia della Clarina? rispondeva essere stato il poeta del dolore, non poteva essere quel dell'amore, ma fare per Carlo Alberto ormai assai più e meglio che lodi in versi; aiutarlo in ogni modo a divenire re d'Italia.
Per ciò parve a molti, anche a Giorgio Pallavicino, o codino o rimbambito!
A Firenze era stato nel 1811, e l'aveva trovata quale la celebra la fama; e tutto qui gli piaceva «se ne levi gli abitanti parolai oltremodo, e in generale poco amici dei forestieri, perchè economi, e pieni di tema che le cortesie debbano costar loro due crazie.» Nell'autunno '47 tornò in Toscana ad aiutare i moti liberali, ma nel tempo stesso a frenarli: egli, il poeta de' tre colori, temeva ora non compromettessero, inalberati a dispetto del Granduca, l'avvenire. I tre colori, diceva, sono un anacronismo, e non rappresentano che un'ipotesi: «Lasciamo all'ipotesi la [165] cura di tradurre sè in atto; e allora troverà essa il suo simbolo che le convenga.» Che se l'ipotesi avverata scelse per simbolo proprio il tricolore, non per ciò, chi giudichi spassionato riferendosi a quella data, aveva tutti i torti il Berchet. Ma i fati trassero presto anche lui ad acclamare la bandiera dell'Italia nuova, dell'Italia unita, e qui a Firenze, il 27 marzo dell'anno dopo, sulla piazza di Palazzo Vecchio, dovè arringare i Toscani che festeggiavano le Cinque giornate della sua Milano, e si rallegrò che al mirabile risorgimento ciascuno de' popoli d'Italia avesse apportata la parte sua: Roma l'amnistia e l'onnipossente parola d'amore, Toscana le riforme, Sicilia e Napoli la costituzione, Piemonte il forte esercito tutelare, Milano l'indipendenza senza della quale nè riforme nè costituzioni possono aver vita intera. «Artefici tutti del pari di questo superbo edificio, spetta a voi, o Toscani, il compierlo e il consolidarlo per sempre. Contenti delle nostre libertà che sono pienissime, se saprete virilmente giovarvene.» Dunque, tutti, popoli e principi, stringetevi (proseguiva) in concordia di istituzioni, di voleri, di sentimenti, e correte in armi ad aiutare Carlo Alberto.
Carlo Alberto aveva ormai spiegata al vento la bandiera del verde, del rosso, del bianco, speranza, [166] gioia, fede fraterna d'amore, come il Berchet l'aveva cantata. E nobilmente perdonato dell'offesa, nobilmente da lui stesso rinnegata, il poeta del '21, dopo aver avuta parte nel governo provvisorio della Lombardia, fu deputato due volte al Parlamento subalpino. Raccomandò sempre la concordia intorno allo Statuto, e che non si diminuisse l'esercito: «I rossi per deliberato proposito, i neri per gretta avarizia lo vorrebbero disfatto.... Del resto poi, purchè lo Statuto duri, bene o male non importa, v'è speranza per tutta l'Italia ancora. Duri lo Statuto, si consolidi, e il tempo, o migliore occasione, farà il resto.» Altrove: «Non parlo dell'Italia: chi non ne vede la intera rovina nella ruina dello Statuto piemontese?»
Morì a Torino, divenuta patria sua, di lui lombardo che nel Piemonte già vedeva tutta l'Italia, libera e indipendente, dell'avvenire, il 23 dicembre 1851.