Se i goti avevano commesso l'errore di accettare il principio imperiale, i longobardi lo avevano raddoppiato accettando quello cattolico. I loro due regni, sorti allo scopo di spezzare l'unità romana e bizantina, perchè le originalità latenti della nuova vita politica e sociale potessero prodursi, mutavano però l'Italia di Odoacre così che il nuovo patto fra Carlomagno e il pontefice trasportava la base del diritto da oriente ad occidente.
Tre secoli di rivoluzione avevano finalmente maturato il proprio frutto; l'antico mondo romano era cancellato, le invasioni arrestate, il dominio bizantino soppresso. La grande donazione franca alla chiesa emancipava tutta l'Italia non longobarda colla dominazione del pontefice, che non potrebbe mai regnarvi da principe unitario. Il federalismo liberale, di cui era tribuno e diventava doge, gli impediva il regno colle stesse micidiali contraddizioni che ai goti o ai longobardi, senza preoccuparsi nemmeno se egli per fatalità del proprio principio o del proprio istituto religioso dovesse tendere a una unità ben più grande e compatta che non quella dei re di Pavia. Quindi nella nuova Italia la lotta politica muta ancora terreno e metodo; la nazione divisa in franca e pontificia, giacchè i suoi punti estremi non compresi nel «patto di Carlomagno» non sono ancora politicamente italiani, prosegue la propria rivoluzione voltandosi contro i franchi per eliminarli lentamente dopo averne sfruttata tutta l'efficacia, e contro il pontefice ogni qual volta pretenda nella politica italiana all'assorbente unità della propria politica religiosa e cosmopolita. Le energie locali liberate dall'oppressione longobarda e bizantina, disciplinate dai municipii e dai vescovadi, ancora vivide di tradizioni e non imprigionate in sistema troppo angusto per contunderle, scattano rovesciando gli ultimi ostacoli. L'ideale politico individualizzato in ogni grossa città accetta le forme separatiste feudali contro ogni unità; il mondo sembra in frammenti nell'ora che la sua unità ideale si rinsalda fra Carlomagno e Leone III.
La formula del loro patto è tanto ignota quanto chiara la sua idea. Se l'impero bizantino rappresentava la modificazione indotta nell'impero romano dal cristianesimo, quello di Carlomagno esprimeva la morte dell'impero romano, quantunque la lettera del patto sembrasse invece riconfermarlo. L'impero di Carlomagno non era più che la conquista germanica consacrata dal cattolicismo, Roma la nuova Gerusalemme cattolica e Bisanzio una capitale d'oriente. Ma poichè la storia è sempre un atteggiamento dell'ideale, le due idee dell'unità religiosa e politica riassunte nella chiesa e nell'impero si toccano così in un patto, che deve guarantire la nuova vita spirituale e mondana. Per esso il papa, signore delle coscienze, sottomette all'imperatore tutti i re e tutti i sudditi, e l'imperatore dedica ogni forza propria alla difesa della chiesa contro ogni protervia del mondo. Per un residuo bizantino e per la sua doppia qualità di pontefice e di doge, il papa è soggetto all'imperatore, che solo può nominarlo; ma il papa sarà sempre più forte dell'imperatore, cui può isolare nell'impero con una scomunica.
E questo patto, del quale gli articoli non furono mai trovati, erompe dalla duplice idea del papato e dell'impero, e vivo, flessibile resisterà a molte rivoluzioni, soffocherà molte forme politiche, ne avvolgerà proteggendole molte altre, dilatandosi con esse, resistendo a violenti strappate di papi e d'imperatori prima di rompersi come una inutile bardella nelle mani della storia.
L'influenza romana passa quindi nella dominazione dei franchi, che si costituisce con una federazione di re e si suddivide in tre parti alla morte di Carlomagno. Ma sotto lo sforzo della federazione europea i Carlovingi si logorano e diminuiscono, mentre ad ogni grado della loro decadenza unitaria si scopre sempre la mano dei pontefice intento a stringere la propria chiesa in una costituzione capace di sfidare i secoli. I nuovi Capitolari fissano tutti i riti, la sacra gerarchia si purifica, le varietà monastiche si precisano, i miracoli scorrono a fiotti, e la teologia cattolica, liberata dalla teologia bizantina, attraverso la quale un capriccio dell'imperatore poteva decomporre le formule ed alterare i dogmi, presenta la prima volta al mondo il sublime spettacolo del pensiero abbandonato da ogni forza profana, e superiore a tutte le vicissitudini degli imperi. Il prete, non più suddito e maggiore di ogni altro uomo, inizia quella elevazione religiosa dell'occidente, che dovrà poi formare l'eroismo di qualunque uomo pensante nella sincerità della propria coscienza.
Sotto la dominazione dei franchi l'Italia offre il nuovo spettacolo di un progresso sociale determinato da una decadenza politica. Nel regno i romani sono definitivamente pareggiati ai longobardi, la nobiltà dei quali conserva tutte le proprie leggi e le proprie ricchezze; i vescovi riuniti in consigli semipolitici e ammessi nell'esercito acquistano la capacità della loro imminente rivoluzione. I vescovadi, forti delle nuove immunità, preservano industria e agricoltura, mentre il conte e il vescovo, rappresentanti il patto di Carlomagno e momentaneamente associati, resistono alla tradizione unitaria e a quella imperiale di Bisanzio. S'aprono le università. Il regno, già ostile al vecchio nome dei longobardi e al nuovo dei franchi, s'intitola dall'Italia squarciando la rete delle città militari stabilite a controsenso delle città romane, e spezzandosi in quattro parti con quattro capitali: Ivrea, Spoleto, Lucca e Verona; Benevento, superstite ducato longobardo col nome superbo di Lombardia minore, viene raggiunto dalla rivoluzione e presto sottomesso da Capua. Imperano dunque tre leggi: romana, longobarda e dei franchi; questi, piuttosto dominii diretti che utili del regno, soccombono ad una centralizzazione governativa confidata a funzionari volanti, a messi regi e a conti di palazzo. E il regno si mantiene immobile.
Il progresso sociale dell'Italia pontificia si mostra invece colla nuova ricchezza di Roma e del pontefice, mentre la decadenza politica condanna questo all'impossibilità di essere vero doge come vorrebbero i romani per imitazione di Napoli e di Venezia. Invece il pontefice, costretto quale capo della sola rivoluzione politico-religiosa ad esigere l'annullamento di Roma nella chiesa ed incapace di ottenerlo senz'armi, umilia sotto la spada del duca di Spoleto la propria città sino a farle rimpiangere l'anarchia bizantina e l'impotenza degli esarchi. Quindi vi scoppiano rivoluzioni contro di lui e contro i franchi.
A rovescio del regno e del papato le repubbliche bizantine, estranee al patto di Carlomagno, raggiungono un progresso politico mediante una decadenza sociale, che riconferma la tirannide del patriziato contro la nuova democrazia dei vescovi: il rigore della reazione vi è tale che si preferisce il dispotismo orientale alla dominazione franca, e vi si osteggiano simultaneamente Roma e il regno per salvare le proprie autonomie. Quindi dogi e nobili difendono l'indipendenza delle repubbliche contro l'opposizione popolare come veri despoti bizantini a Venezia, a Napoli, ad Amalfi invocante i saraceni, e nella Sicilia che accetta i mussulmani.
Ma nel rapido declinare dei Carlovingi il centro dell'occidente si sposta o meglio ancora scompare, permettendo a tutti i popoli oppressi dalla loro conquista di ricostruirsi in nazione. Il loro moto propagandosi all'Italia raduna in Pavia la dieta disusata dei marchesi, che offrono simultaneamente la corona italica a Carlo il Calvo re dei franchi e a Luigi re di Alemagna, pel quale accetta la candidatura il figlio Carlomanno. Papa Giovanni VIII, che deve consacrarli, opta per il primo contro i baroni parteggianti pel secondo, ma il mondo occidentale si allontana sempre più dal proprio centro francese. Carlo il Calvo assalito dal rivale diminuisce così che la sua dominazione sopra le grosse marche italiane, ormai forti quanto un regno, non è più che nominale. Quindi il papa, attaccato dai marchesi come supremo sostenitore dell'impero, rientra violentemente in azione, si reca in Francia, vuole incoronare re il duca di Provenza, convoca un concilio a Roma per deporre Carlomagno, sommove chiesa e regno invocando Bisanzio, sottomettendosi ai saraceni, moltiplicando eccessi e scandali al punto di parere impazzito. Ma la storia, come per dargli ragione, rievoca Carlomagno in Carlo il Grosso che, riassumendo per un istante l'impero, ridiventa re di Germania, d'Italia e di Francia, e si estingue improvvisamente come ultimo razzo di un incendio, onde era stato illuminato tutto il mondo.