CAP. III. Il primo secolo mondiale.

Quando la prospettiva del tempo ne avrà rilevato le linee, nessun secolo della storia apparirà forse grande come il secolo XIX.

Esso fu il secolo dell’individualità e diventò quindi il più mondiale di tutti, quello che doveva davvero iniziare la grande epoca della storia universale.

Cominciò colla rivoluzione francese che rinnovando l’Europa finì all’avvento del Giappone, meravigliosa, quasi inverosimile improvvisazione di civiltà, nella quale prelude il rinascimento del mondo asiatico. La rivoluzione francese creò nell’elettore il cittadino moderno; negò la monarchia cristiana nella sua trinità, di re, aristocrazia e clero per sostituirvi la sovranità popolare, il governo della borghesia e l’indipendenza della giustizia laica da ogni culto religioso. La sua passione era la libertà, le sue forze quelle dell’industrialismo contro il militarismo, il suo programma l’uguaglianza civile: il suo spirito era classico, il suo temperamento insubordinato. Appena comparsa sulla scena storica, entro le vecchie forme dei parlamenti, le ruppe ed invase rovesciando tutti gli ordini. Incalcolabili dolori, inesauribili speranze lo sospingevano. La monarchia borbonica, rappresentata dal meno cattivo forse dei suoi re, scese al disotto del ridicolo nella propria resistenza trincerandosi dentro la bigotteria ed invocando lo straniero. La plebe ruggì; sessantamila banditi, prodotti dalle fiscalità incredibili dell’ultimo regime, accorsero in bande a Parigi e s’improvvisarono eroi, carnefici, pubblico, sovrano. L’aristocrazia o seguì nel tradimento di un volontario esilio la corte, o si buttò per nativa generosità o per tarda ipocrisia nella rivoluzione, e ovunque fu trucidata. Il clero incredulo e corrotto disparve quasi nella prima lotta per ricomparire più tardi coraggiosamente alla testa di insurrezioni realiste e parricide: la borghesia vincitrice e vittoriosa fu travolta dallo stesso uragano, che la portava a rovesciare tutto davanti a sè, e la successione febbrile delle forme politiche nella rivoluzione superò ogni tragedia sgominando previsioni di sapienti, abilità di pratici, pretensioni di tribuni, combinazioni di partiti, intrepidezze di fanatici, disperazioni di deboli e di forti.

Ma la rivoluzione trionfante a tutte le frontiere contro tutti i re d’Europa non avrebbe potuto nell’impeto e nello squilibrio stesso delle proprie passioni riorganizzare la Francia: quindi la storia le impone la solita antitesi, e la rivoluzione crea l’impero. Dentro questo sopravvivono tutte le sue idee, e la tempesta acquetandosi permette ai superstiti di transigere nella modernità della nuova vita. Ma l’impero è anch’esso una forma del passato necessaria a rendere la rivoluzione universale: così Napoleone, che generale della repubblica viveva in un miraggio imperiale, vorrà regnare sull’Europa gettando in una demenza di volontà e di fantasia il proprio pensiero sull’Africa e sull’Asia. Egli è l’ultima maschera imperatoria sul volto dell’ultima democrazia: l’enormità del suo genio si parifica all’idea segreta, che lo incalza e lo delude: sogna l’impero di Carlomagno, è geloso di Cesare, nemico dell’Inghilterra, avversario del papa: distrugge il sacro romano impero a Vienna, rovescia la monarchia di Federico II, assale l’impero russo fino a Mosca, e vinto è inseguito fino a Parigi. Ma come sotto un incubo egli ha rimescolato tutta la carta d’Europa, i popoli lo hanno invocato e maledetto, i re servito e messo al bando: improvvisatore, tutto è effimero intorno a lui: distruttore, nulla di quanto tocca ritornerà come prima: imperatore, non è vero che nel campo: soldato, ha il genio dell’espediente politico, e l’occhio dell’organizzatore diplomatico, la violenza di un avventuriero: dinasta, tutti i vizi dell’uomo e le debolezze del padre. Nulla rimarrà della sua opera come concetto personale, ma in ogni creazione del secolo XIX qualche cosa del suo spirito dura immortale. Questo despota, che vuol fondare il più grande impero della storia, è invece il messo della democrazia che annuncia la morte di tutti i regni; dinanzi a lui i re non sono che fantasmi; dopo lui, davanti ai popoli, che li hanno risollevati emancipandosi, saranno larve.

L’impero napoleonico è il preludio delle monarchie costituzionali, che non hanno più re. Ma Napoleone avrà tutto rinnovato: generale, caccia l’Austria dall’Italia, rovescia il papa, cancella principati e repubbliche superstiti, discende in Egitto, minaccia la Siria; imperatore prende Vienna, Berlino, Mosca, ma indarno sogna Costantinopoli e Londra. La Turchia non potrà nè risorgere nè sparire dal secolo XIX, e quindi Napoleone non può entrarvi; l’Inghilterra anticipò di mezzo secolo la propria rivoluzione sulla francese, deve compiere la prima unità commerciale del mondo, e Napoleone anzichè abbattere l’Inghilterra ne sarà abbattuto; la Spagna sopravvive a se stessa fra lo scenario lacerato dell’impero di Carlo V, e Napoleone l’attraversa soltanto sognatore dentro un sogno morto.

Invece la sua opera di distruzione è feconda sull’Italia, sull’Egitto, sulla Germania, sul Belgio, sulla Prussia, sulla Russia; le idee della rivoluzione penetrano dietro gli eserciti imperiali; il suo codice è un nuovo vangelo, la sua improvvisazione rivela il nulla delle monarchie ancora esistenti, la sua riapparizione dei cento giorni ricompensa nei popoli la fede che i re non sono nemmeno uomini, e che il popolo solo è persona.

La rivoluzione francese fu dopo il cristianesimo il maggiore trionfo dell’individualità. Se la Riforma aveva ottenuto la libertà di esame dentro il dogma emancipando a mezzo il pensiero religioso; se la rivoluzione inglese aveva compito l’opera lenta dell’antica rivolta dei comuni contro l’assolutismo regio, e poco dopo quelli degli Stati Uniti fondava nella verginità di un suolo quasi ignoto e nell’oblio di tutto un passato una nuova libertà, la grande Convenzione soltanto lacerò tutti i vecchi vincoli per creare nell’elettore il cittadino moderno. La sua forma usciva dal delirio dialettico del Contratto Sociale, ma doveva trionfare di tutte le esagerazioni e di tutte le negazioni: la sovranità passava così dal pensiero individuale a quello collettivo, dallo spirito di un uomo all’a-nima di un popolo, dalla volontà alla impersonalità. La legge non è più un ordine di qualcuno o una rivelazione dall’alto, ma un segreto che si chiarisce nella coscienza, lampeggia nella discussione, si formula nel voto; l’eletto è il mandatario dell’elettore, però l’uno e l’altro sono egualmente servi della legge. La votazione esprimendo una libera maggioranza significa soltanto la forma momentanea della legge, che la coscienza pubblica potrà sempre perfezionare; dinanzi alla legge individui e classi saranno uguali, perchè l’attrito degli interessi logorerà tutte le differenze; nella delegazione di ogni governo le ultime monarchie ereditarie dipenderanno anch’esse dall’assenso tacito del popolo, tutte le religioni saranno libere e la concorrenza deciderà della loro verità; tutti i diritti potranno manifestarsi maturando nello sforzo stesso della propria manifestazione; al segreto della vecchia politica succederà la pubblicità di ogni atto, nella famiglia l’eredità parificherà i figli, nei tribunali soltanto il giurato identico all’elettore giudicherà sulla morte fisica o civile degli accusati, perchè il giudice togato non è più che un perito, e un uomo non può davvero condannare un altro uomo. Il cittadino elettore e giurato rappresenta invece l’impersonalità del diritto pubblico.

Ma l’individualità del cittadino crea di contraccolpo quella della nazione; Napoleone nella vertigine della propria corsa aveva violato tutti i popoli, il secolo XIX, avanzando sulle sue orme, individuerà ogni popolo capace di uscire dalla minorità storica.

Quindi le guerre del secolo XIX saranno quasi tutte nazionali: la passione più nobile, l’eroismo più tragico, susciteranno nuovi tipi di martiri e di eroi. La Grecia risorge dal sogno della sua gloria e l’Europa intera delira d’entusiasmo all’eco delle sue piccole battaglie mutandole in vittorie, il Belgio fra Olanda e Francia ritrova e rassoda la propria scarsa originalità, l’Italia come la Grecia risuscita dalle ceneri dei suoi monumenti, ma più forte dell’antica madre balza nella modernità avendo pagato l’aiuto dell’Europa coll’offerta della falange mazziniana e garibaldina; la Prussia ne profitta e dall’Austria, che non è più il sacro romano impero, trae il nuovo impero germanico; fra Austria, Russia e Turchia, i Principati danubiani, anella fracassate dell’immenso dragone slavo, si rianimano e si riannodano. Intanto la Russia cova dolorosamente la modernità che Napoleone le cacciò colla spada nel ventre, l’Inghilterra raddoppiando ogni anno il proprio commercio allaccia tutto il mondo, nella Scandinavia la dinastia di un generale napoleonico precipita con la rapidità di una marcia imperiale la nazione all’avvenire, mentre l’America divisa fra Anglosassoni e latini non ha più bisogno dell’Europa, che con tutte le proprie forze stringe ed incalza l’Africa.

Nella lunga incubazione della civiltà mediterranea l’Africa vi partecipò soltanto dalle sponde, che una cintura di città marittime aveva abbellite e fecondate. La loro vita creata dal mare tendeva al mare verso altri lidi, ove altre città rispondevano con una vita più satura di elementi terrestri. Solo il Nilo aveva potuto, accumulando sulle proprie rive molti germi africani, crescervi una civiltà più che marittima, ma questa pure non aveva nemmeno risalito tutto il corso del gran fiume, prigioniera ad occidente ed al sud di paurosi deserti.

L’immensa Africa ignorava la gloria del proprio Egitto.

E quando questa tramontò dopo Cartagine, e il cristianesimo prima, il maomettanesimo poi, tentarono di penetrare nel centro del continente nero, questo rimase nullameno un mistero; ambo le religioni vi si depravarono in una sconcia interpretazione quasi confessando l’impotenza del loro Dio dinanzi ai feticci dei selvaggi cui un clima inesorabile sembrava negare per sempre ogni speranza d’ideale.

Non per tanto Roma e la Mecca come centri religiosi rattenevano sempre l’Africa sul margine della storia universale.

Gl’imperi litoranei, improvvisati dalla conquista saracena sulle sue coste, avevano potuto dilatarvisi alquanto verso l’interno e ubbidivano ancora alla voce di Costantinopoli; le flotte europee, girato il Capo di Buona Speranza, avevano finalmente circoscritto il continente nero fermandosi nei suoi golfi e risalendo i suoi fiumi. Oramai regni e reggenze barbaresche non erano più che una forma consunta dalla feudalità, ridotta a vivere di brigantaggio terrestre e marittimo. Napoleone tagliò l’ultimo nodo, che stringeva l’Egitto a Costantinopoli, per consegnarlo all’Europa, giacchè la breve dinastia macedonica improvvisata al Cairo doveva presto soccombere nella sua unica opera, il taglio dell’istmo di Suez.

Quindi la storia del secolo XIX in Africa è tutta europea: la Francia vi conquista Algeri e Tunisi, l’Inghilterra vi regna in due capitali a nord e a sud, l’Italia tenta indarno l’Abissinia e resta sentinella ferita nell’Eritrea, il Belgio vi compra nel Congo un podere più vasto di qualunque regno, i Boeri vi fondano una repubblica a Pretoria e soccombono poco dopo all’immenso peso dell’impero britannico. Un monile di ferrovie stringe le coste africane, altre ferrovie fischiano fra i deserti, viaggiatori di tutte le nazioni si sono inoltrati nel suo negro mistero, la schiavitù vi è assalita negli ultimi ripari; un gigantesco disegno innonda già il deserto di Sahara per farne un lago, un altro congiunge i corsi dello Zambese e del Congo spezzando il continente in due immense isole. L’Africa fu il supremo sforzo e il massimo risultato della storia europea del secolo XIX: e poi che tutto procede verso l’unità, la storia universale non poteva essere una davvero, se prima i suoi continenti divisi e sconosciuti l’uno all’altro non vi si fondessero nella medesima coscienza movendosi al medesimo ritmo. Quindi il secolo XIX nel doppio trionfo dell’individualità singola e nazionale divenne il secolo più mondiale; tutto mutò, crebbe, salì, si diffuse nel suo tempo.

Le distanze parevano sparire sotto i vapori di terra e di mare, una rete di strade strinse il mondo così che ogni suo moto vi si propagò colla rapidità delle onde nervose, le parole raggiunsero quasi la celerità della luce e più di essa forse penetrarono i corpi e le anime; un’impazienza di creazione sollevò individui e popoli riunendoli anche quando gli antagonismi degli interessi e le contraddizioni dell’ideale sembravano dividerli. Arti, scienze, commercio, industrie si uniformarono sul mercato: nessuna unità di misura nel valore fu più nazionale, il circolo della ricchezza si allargò quanto quello delle idee; il secolo della nazionalità, che ebbe così intensa la passione della patria, sviluppò prodigiosamente tutte le emigrazioni e permise a tutti di rinnovare dovunque la propria vita.

L’orgoglio supremo fu di essere libero, l’ultimo trionfo sentirsi il medesimo uomo dappertutto.

Dopo l’espansione dell’elettorato non vi sono quasi più classi, la democrazia del costume pareggiò gli abiti e il linguaggio; oggi la marsina del gentiluomo è quella medesima del cameriere. Ogni sovrano per regnare sulla piazza deve sollecitarne il favore, qualunque uomo per qualunque opera dipende dal voto degli altri; i giornali sono l’effimero libro di tutti, l’opinione irresistibile del momento con tutti gli errori e le falsità della improvvisazione. Ma ogni avvenimento è mondiale, tutte le mattine tutti vogliono le notizie di tutto il mondo; vi è un pubblico per qualsivoglia impresa, ogni idea trova apostoli, qualunque follia una tribuna, si alza un tribunale da qualunque crocchio. Attraverso le ultime barriere doganali e linguistiche i mestieri irreggimentano i lavoratori; una solidarietà formulata nei vangeli del nuovo partito popolare e confermata dai suoi sinodi internazionali oppone una politica operaia unitaria alla politica differenziale dei governi; vi è ancora la guerra, ma non vi sono più guerrieri. Oggi il soldato è il cittadino, che interrompe il proprio lavoro per difenderne la libertà alle frontiere, non ama il sangue e non sogna più la gloria dei rossi trionfi; la vita invece acquista nella coscienza dei piccoli chiamati alla storia un immenso valore. Essi pretendono già di discutere la necessità del sacrificio per negarla.

Una spiritualità illumina e riscalda ogni opera moderna, che deve essere utile magari essendo brutta, senza più l’antica indipendenza del capriccio; la rapidità della trasmissione e della dissoluzione nella ricchezza costringe quasi tutti al calcolo del proprio valore, poichè la ricchezza non basta nemmeno più a dare un’autorità sui più poveri. La beneficenza della forma lirica della pietà privata assurge a dovere dello stato verso coloro che non possono ancora o non possono più lavorare; il viaggio mentale sui libri e sui giornali non basta più allo spirito, poichè tutti sentono che ad essere uomini è necessaria la conoscenza della nostra terra e una pratica delle sue più diverse società.

Non si riconoscono più capitali della civiltà; le metropoli sono empori del commercio o sedi di governo, ma oggi nessuna idea per prodursi e per crescere ha bisogno di un aiuto artificiale come nell’antichità, che sacrificava cento popoli per formare in uno solo la loro coscienza. Roma non è più che un nome nella poesia come Atene e Benares, Babilonia e la Mecca; il papato soltanto le dà ancora un valore di universalità, ed anch’esso dovette spiritualizzarsi perdendo il minimo regno temporale. Un’atmosfera ideale involge la vita pubblica, le scoperte grandinano ogni giorno, la guerra delle idee è senza tregua, le alleanze degli interessi si stringono e si rinnovano per tradimenti continui, nei quali nessuno ha torto; la dominazione passò dalla feudalità monarchica a quella industriale, ma oscilla nelle ribellioni continue delle classi, operaie, che evocate alla storia vi pretendono già la tirannia. L’unico sovrano è il pubblico impersonale, infallibile nei grandi istinti, inferiore nell’idea, infantile nel carattere: debole e violento, ingenuo e falso, capace di tutte le adorazioni e di tutte le ingratitudini, più effimero dei re nelle proprie generazioni, più spaventevole di ogni tiranno nella propria responsabilità.

Il secolo decimonono, che resterà nella storia il più grande di tutti i secoli, non vi porterà nome di uomo perchè le massime creazioni sono anonime; il genio può riassumere l’incoscienza di un popolo, non dare la propria fisionomia alla sua coscienza.

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