CAP. IV. L’aristocrazia.

Quale apparve e si manterrà nella storia essa è una superiorità dello spirito organizzata dalla volontà nel comando.

In ogni tempo e in ogni gruppo umano l’eccellenza di alcuni individui li alzò dominatori sugli altri, che ubbidendo barattavano istintivamente la libertà in una nuova sicurezza: quindi le prime aristocrazie furono religiose e guerriere per garantire ai deboli una certa pace nell’anima e un aiuto nella lotta per la vita. L’istinto della razza e la necessità della storia creavano così nell’aristocrazia una classe responsabile della vita di tutti e depositaria della sua tradizione; l’aristocrazia doveva pensare e volere per gli altri, costituiva la patria e la religione, vincolava individui e famiglie, organizzava proprietà e lavoro. Col privilegio nobilitava il privilegiato imponendogli azioni che superavano il suo egoismo, preparava la poesia e la politica; in lei i pensieri salivano di un grado e le virtù cominciavano a diventare sociali; era già un governo essendo appena un gruppo, conteneva già un re unificando un popolo.

Questo infatti vedeva nell’aristocrazia se stesso più alto e più lontano, il suo istinto vi diventava pensiero, le sue bramosie volontà; poteva amarla o odiarla secondo la pressione del momento, ma non fame a meno, perchè nel suo nucleo più possentemente organizzato stava la migliore garanzia di tutti per il futuro. Spesso lo scotto di tale difesa ne superava il valore immediato, specialmente se l’aristocrazia impari a se stessa si consumava nelle degradazioni di un comando senza pensiero: ma anche allora da una aristocrazia ne rampollava un’altra o saliva un re; l’unificazione diventava unità, mentre l’ordine allargando i propri limiti cresceva dentro d’intensità.

E questa aristocrazia primordiale somigliava già all’ultima; si costituiva spontaneamente dalla superiorità degli individui in gara sotto l’aculeo di un bisogno o la stretta di un pericolo: accettava tutti i modi di prova, consentiva tutte le contraddizioni risolvendole nel trionfo di una forza vitale e micidiale, che nobilitava l’individuo come il rappresentante epico o tragico di una società incapace di avere fuori di lui una coscienza.

Sarebbe qui inutile schizzare a grandi linee i profili delle antiche aristocrazie, adesso che il problema aristocratico si ripresenta quasi nella primitiva semplicità. Se il sistema rappresentativo, quale funziona in ogni governo, era già in germe dentro tutti quelli del passato formandone la segreta verità e dirigendone la lenta dolorosa evoluzione: se oggi non sapremmo nemmeno più pensare altro governo, così chiara è nella nostra coscienza la sovrana identità dell’elettore e dell’eletto, l’aristocrazia fu e rimarrà invece la prima ed ultima forma d’impero in tutte le società. La sua delegazione può passare per tutte le contraddizioni dell’assenso, ma la sua radice e la sua forza stanno nella differenza fra individuo ed individuo, che impone agli uni il comando e agli altri l’obbedienza, rilegando gli istinti ad un pensiero e costringendo sempre la verità a trionfare in una incarnazione. I miti religiosi non ne sono che la più profonda ed universale delle prove.

Come ogni religione non può fare a meno di una idolatria, e la vita ha bisogno di contemplarsi nello specchio dell’arte per apprendere il proprio secreto, così la società per governarsi e progredire si solleva in una aristocrazia, alla quale trasmette più limpide le forme del passato e dalla quale riceve meno torbide le prime significazioni del futuro. Nell’immenso numero di correnti, che aggirano una moltitudine raggruppandola o diffondendola secondo le oscure necessità della sua massa, ve n’è una più larga e sicura, che attira tutti i più forti, e stringendoli come dentro la spirale di un vortice impedisce loro di rifondersi nella indistinta oscillazione delle onde.

Ogni vera superiorità finisce coll’essere una differenza inconciliabile colla vita degli inferiori: la diversità di pensiero diventa contrasto di linguaggio, le parole stesse vi mutano significato; l’ascensione del sentimento rende insopportabile ciò che prima era gradevole, il pensiero nobilitando la responsabilità della propria opera, altera la solidarietà funzionale fra rappresentante e rappresentato.

La vita ha due supreme necessità, salire e durare, e poichè l’una presuppone l’altra, si vedono spesso nelle società i bisogni della durata soverchiare quelle della ascensione. Quindi nella folla scarsa è l’intelligenza e più scarso ancora il sentimento: un egoismo limita tutte le opere e sconsiglia dai sacrifici, l’amore stesso movendosi sotto l’impulso della voluttà non cede ai figli se non le cure più indispensabili per la loro sopravvivenza; ed è l’istinto di razza che li salva così, mentre i caratteri della paternità e della maternità sono ancora rudimentali. Lo stesso egoismo regola ogni altra azione; tutte le avarizie sono lecite, tutte le ingratitudini consentite, tutti i tradimenti assolti; gli individui della folla non possono sentire che se stessi e non pensano che nel pensiero loro trasmesso dalla tradizione. Una insensibilità conserva in essi integre le poche forze; sono creduli e diffidenti, adorano il forte che li guida e lo immolano alla viltà del primo dubbio. Poi un istinto sembra avvertirli che in essi solamente è lo scopo ultimo della storia, mentre la superiorità delle minoranze aristocratiche non serve collo sforzo dell’ingegno e l’olocausto della vita che a produrre appunto nella moltitudine lo spostamento o l’ascensione di un grado. La sua vita vegetativa e animale oppone quindi una resistenza invincibile alle impazienze dello spirito, che avendo conquistato una verità vorrebbe subito tradurla in atto; una ignobile interpretazione degrada nella folla ogni forma più bella, ogni idea più pura; filosofia e religione, arte e scienza non si diffondono e non vi operano che deformandosi. Se nel popolo vi è un istinto superiore al genio del più alto individuo, e un inconsapevole criterio al quale debbono rettificarsi tutte le concezioni ideali, nella plebe, che è quasi tutto il popolo, la contraddizione fra materia e spirito si esprime sempre nel trionfo della materia. Nessun corpo è impermeabile come l’anima plebea, nessun peso più inerte del suo cuore, nessun moto più lento che nel suo cervello. Ma tale lentezza, che diventa poi la causa di tutte le tragedie negli individui superiori, è la garanzia più sicura per la sopravvivenza della massa, che non può desiderare al di là dei propri appetiti e volere più di quanto pensa.

Così la politica quasi sempre l’inganna e quando una qualche idea è matura all’evento, vita e storia debbono scatenare nella folla tutte le passioni e accendere un miraggio per attirarla nell’azione ed immolarla nel sacrificio del trionfo.

L’antitesi della democrazia e della aristocrazia è dunque più apparente che reale, e significa soltanto l’alzarsi di uno strato sopra un altro, la novità di una forma superiore, perchè l’aristocrazia se per agire politicamente ebbe sempre bisogno di separarsi in classe, dentro la quale l’egoismo degli individui viziò fino a contraddirlo lo scopo della sua funzione, come superiorità naturale è diffuso in tutte le classi e vi forma assiduamente i gruppi ubbidendo alla legge segreta della ascensione. E difficile quindi nella storia sceverare l’opera di una aristocrazia dalle contraddizioni dei suoi interessi, più difficile ancora se la sua idea ebbe carattere universale e un lungo periodo di sviluppo. Nel comando immediato, la volontà preponderando sul pensiero, l’abuso conduce presto alla tirannia; l’ebbrezza dell’ascensione produce in quasi tutti un inganno micidiale, quindi abbassano gli altri invece di alzare se stessi misurandoli proprio orgoglio su tale dislivello. È questa la formola latente di ogni dispotismo che succede ad un despota creatore; fra tutte le forme del comandare a schiavi, fra le illusioni della vanità l’ultima a venire sarà quella di sentirsi più alti quando la gente si curva nella ipocrisia dell’interesse o nella sottomissione della paura.

Ma ogni aristocrazia espresse sempre sè medesima nel carattere dei proprii migliori rappresentanti dentro l’idea, che informava la sua epoca. Così l’eroismo dei tempi epici, rimasto immortale nel verso dei poeti primitivi, non somigliò a quello dei tempi civili, quando la vita più satura di pensiero impose alla virtù più meditati ed impersonali sacrifici; così il martirio animato ancora dalla bravura guerriera nelle religioni selvaggie mutò lentamente sino alla soave pazienza dei martiri cristiani, che fra i tormenti pregavano per i tormentatori; così la devozione alla scienza ebbe più austera semplicità che non quella alla religione, e significò un più alto olocausto perchè l’egoismo non poteva nemmeno sperarvi compensi di oltretomba; così l’errante cavaliere medioevale e la suora francescana superarono il venturiero barbarico e la vestale romana di quanto il cristianesimo sintetizzando in se stesso tutte le civiltà antiche le superava nell’idealità del dogma e della morale.

Ma l’aristocrazia, per ciò solo che contiene una superiorità, deve esprimerla anche nella decadenza e allora la parola succede agli atti, l’eleganza alla forza, il pregio della decorazione al valore della bellezza. In tale modo quasi tutte le aristocrazie tramontarono nelle monarchie, finchè la dissoluzione della stessa forma monarchica le riconfuse col volgo.

L’ultimo tempo della decadenza aristocratica si segnalò coi gentiluomini e colle dame, che non vivevano oramai più che di parata; nè mai più inutile ed amabile artificio fu più lungamente rispettato e lasciò più vivi ricordi, se oggi ancora il superstite patriziato ne fa il proprio titolo migliore, e l’orgoglio di quanti salgono col danaro si esercita nella imitazione di quell’antico e fragile vezzo.

Il patriziato romano invece si putrefece quasi istantaneamente nell’impero senza improvvisare alcuna bellezza: ma forse era stato troppo forte nel comando e troppo povero di genialità artistica per trovare nella propria estrema miseria la grazia dei piccoli e la delicatezza dei deboli. Era un’aristocrazia di re e finì in una corte di schiavi.

L’onore aristocratico fu allora salvato dagli ultimi storici per ricominciare nei primi cristiani.

La vita si atteggia sempre nell’opera dal concetto che l’uomo si fa di se medesimo e del mondo: la sua religione e la sua politica sono quindi la conseguenza della sua filosofia più intima, e il suo carattere morale una necessità di tale coscienza. Per operare efficacemente bisogna sentire quanto si pensa, la potenza dell’atto è quasi sempre pari alla sua potenzialità. Certamente ogni popolo si assimila altre qualità da altri: una sintesi di tradizioni e di originalità circostanti si forma dentro di lui, ma la missione storica gli deriva soltanto dalla individualità e non può andare oltre questa. Il compierla più presto e più largamente è dunque legge suprema: la gerarchia degli ordini non esprime che la graduazione degli individui in tale funzione. La natura li prepara, la vita li elegge.

Non tutti gli eleggibili vengono però eletti; molti anzi che meriterebbero i gradi più alti, rimangono in basso, o perchè un ostacolo esterno sbarrò loro la strada nel migliore momento e furono così sorpassati dal rivale, o perchè un difetto bastò a paralizzare in essi l’accordo delle più grandi qualità, o una più severa virtù li rese inadatti alle inevitabili degradazioni di tutti gli inizi, agli ignobili sottintesi di tutti i compromessi. Ma invisibili nella prospettiva storica essi compiono egualmente la loro funzione aristocratica con una irradiazione spirituale, che illumina e riscalda le anime, confermando l’anonima virtù della massa incapace d’intendere l’insegnamento astratto.

La religione accoglie il maggior numero di questi individui superiori, che non domandano alla vita il prezzo della loro superiorità: l’arte li attira colle seduzioni della bellezza, la scienza li tenta col mistero; tratto tratto una catastrofe li solleva e appaiono nell’eroismo o nel martirio.

La funzione aristocratica è adunque doppia: sviluppare l’idea che forma l’essenza di un popolo, ed in quella atteggiare il proprio carattere. Spesso vi è antagonismo fra virtù politica e virtù morale: a certi momenti l’eroismo dì razza o di nazione deve essere senza pietà verso i vinti destinati a sparire; talvolta la costruzione dello stato non lascia la libertà che in alto, e ogni mestiere discende nella schiavitù; tal’altra invece la frode è più indispensabile della forza, e l’immobilità delle religioni più necessaria del progresso delle scienze. Quasi sempre una rivoluzione morale esige la dissoluzione di un mondo politico nel pieno meriggio della sua civiltà, mentre la rivoluzione sale da turbe abbiette, si annunzia per apostoli, ignari, negando e sognando.

Ed era questo il caso del cristianesimo davanti a Roma.

Ma ogni aristocrazia saprà sempre affermare la propria idea e rappresentarne la bellezza: vivrà alta nell’orgoglio di un ideale, che le impone altri modi di vita e di morte, combattendo sempre lo stesso avversario nei nemici esterni che le contrastano l’espansione del dominio e nei nemici interni che vorrebbero abbassare il suo grado per attingerlo più facilmente. Nessuna aristocrazia però è tutta eroica se non a grandi intervalli, o impronta sugli eroi la propria fisionomia; non si deve credere che la civiltà sia irradiazione di pochi. Aristocrazia e genio vi sono egualmente necessari ed indifettibili; sospingono e riassumono la massa, sembrano avere nel dramma la parte decisiva, perchè rivelano le figure e vi lasciano il nome. Invece dietro la virtualità dell’aristocrazia e del genio era l’istinto e la potenza anonima della moltitudine: l’aristocrazia è la coscienza di questo istinto, il genio la sua personificazione.

Tutto si elabora in basso e si compie nell’alto, ma l’uomo non può andare oltre l’uomo; la grandezza dei più grandi è fatta dalla forza dei piccoli. Gettate un grand’uomo fuori della corrente storica che lo porta ed avrete la misura esatta del suo valore individuale; Napoleone I dopo Waterloo, Mazzini dopo il trionfo della monarchia di Savoja ne sono due fra gli esempi più appariscenti; si può essere sempre superiore, ma non si appare grandi se una pubblica forza non moltiplica la nostra aggiungendo alla voce di un uomo l’eco di un popolo.

Ecco perchè i precursori passano inosservati o soccombono nel martirio; la loro grandezza si frange nella impossibilità del riconoscimento, e sconta nella lunga asfissia della vita il lontano trionfo della immortalità.

Qualunque sia la forma del governo una aristocrazia ne elaborò sempre le leggi: il dispotismo monarchico scorona, non decapita l’aristocrazia, perchè senza di questa nessuna vitalità sarebbe possibile, e comunque possa apparire un patriziato, di impiegati come in China o di feudatari come in Inghilterra, la sua sovranità spirituale sarà sempre più intensa che non quella dell’imperatore. Invece questo è quasi sempre una figura simbolica, dietro la quale il ministro è un uomo, sotto la quale un ordine di intelligenze e di caratteri forma la base storica dello stato. Al di fuori dell’aristocrazia cresce o scema la vita del popolo, immenso vivaio, donde tutto sale, idee ed individui, e ove tutto discende a discomporsi per risorgere; il suo enigma è così profondo che nessuno seppe ancora risolverlo. Le sue creazioni rimangono tutte anonime; per parlare inventa una lingua, per adorare plasma un Dio. La sua originalità è una linea nell’architettura, un ritmo nella musica, una intuizione nella filosofia, un costume nella politica; quando ha bisogno di un’idea solleva un uomo o innalza un monumento; i suoi legislatori distillano i suoi proverbi; egli è un personaggio nel coro dell’umanità, la quale da millennii leva un inno di dolore e di speranza verso il sole, oltre le stelle scintillanti sulla soglia dell’infinito.

I caratteri dell’aristocrazia antica rivelano l’antagonismo che separa i popoli individuandoli, ma le sue varietà si riassumono tutte nel binomio, o religiosa o guerriera. Soltanto nelle città della Grecia e nei comuni d’Italia la sua fisonomia è più spiccatamente intellettuale, perchè nella piccolezza dello stato l’universalità del principio cristiano o il particolarismo del paganesimo ellenico lasciano una quiete più sicura alla coscienza. Ma nei secoli lontani la schiavitù dividendo gli uomini in due nature dava ad ogni aristocrazia una durezza ed una angustia oggi appena intelligibili. Indarno nelle figurazioni dell’arte noi tentiamo ancora di rappresentarci quelle vecchie società pagane e di farne rivivere gli eroi, giacchè il concetto del mondo fisico e l’idea del mondo morale sono così profondamente mutati nella nostra coscienza, che involontariamente a personaggi d’allora diamo colle parole anche l’anima del nostro tempo.

L’Ifigenia di Goethe, che vi si preparò vivendo nei musei e disegnando statue greche, è forse greca? Le odi e i poemi barbari di Carducci e di Leconte de Lisle sono forse pagani così che Orazio leggendoli potesse crederli di un grande poeta suo contemporaneo?

Religiosa, l’aristocrazia ebbe tutte le grandezze delle religioni; guerriera, tutta la poesia e la potenza della morte: il disprezzo della vita era la sua maggiore virtù, il culto della nobiltà umana la sua prima forza.

Naturalmente più conservatrice che iniziatrice, perchè ogni creazione è inconsapevole e sale dall’istinto popolare, essa elaborava e raffinava; nella politica era la tradizione e l’originalità del popolo, e doveva significarle senza pietà per tutto quanto contrastasse, intrattabile nella superbia della propria fisionomia, capace di qualunque eccesso per sopravvivere. Quindi il genio popolare per ringiovanirle il sangue o l’idea spesso le suscitò contro i proprii maggiori individui, che dovettero perdere nella lotta appunto perchè travalicavano l’orbita del popolo stesso. Quando a Roma l’enorme dilatazione della conquista impose l’uniformità del comando, l’aristocrazia non fu più che di funzionari; nell’India l’irrigidimento delle classi la spezzò come in una scala di vita, che Buddha soltanto con uno sforzo pari a quello posteriore di Gesù mutò in un clivo, sulla vetta del quale ogni anima si perdeva nell’estasi muta della contemplazione; nella Persia, che inizia la storia integrando le differenze umane nella prima unità morale, l’aristocrazia è una paternità che illumina e guida, opera e consola; nell’Egitto, terra della morte, la casta dominatrice è di sacerdoti, che ne sanno soli il secreto, e al suo terrore sottomettono la vita; nella Palestina l’aristocrazia è di guerrieri intorno al Dio creatore, che il genio semitico ha finalmente espresso opponendolo come un nemico a tutto il mondo; la Grecia, invece se ne compone una di artisti e di pensatori, che fanno continuamente oscillare la politica e compromettono gli Stati; Roma ha un senato di re, che sanno alzare tutte le funzioni nelle unità del comando.

Ma dopo il cristianesimo il mondo cangia.

Dall’uguaglianza di tutti gli uomini nella legge divina l’aristocrazia sale spiritualizzandosi così che quando i barbari l’arrestano nella forma della feudalità può ancora creare il cavaliere fra i vincitori e il cittadino fra i vinti: e con questi due eroi rinnova la storia. Il comune riproduce nella propria angustia le antiche civiltà industriali e marinare, intorno al castello ricominciano le geste epiche; poi la barbarie si logora, l’oscurità si rischiara e dal cavaliere esce il gentiluomo, dal cittadino l’elettore. Nella Spagna una aristocrazia, militare arresta la conquista moresca, nella Russia una aristocrazia terriera dilata l’impero sino a dargli l’estensione della luna, nell’Olanda una aristocrazia mercantile evoca dal fondo del mare il suolo della patria e crea la terra di un regno marittimo; nell’Inghilterra una aristocrazia di venturieri stringe sul mondo la prima unità commerciale; negli Stati Uniti una plutocrazia improvvisa una repubblica vasta come l’Europa e più ricca in una modernità senza passato; la Francia terra della monarchia, nella quale il re non fu mai che un pari fra pari, alza col proprio orgoglio aristocratico il primo popolo sovrano: e ovunque l’aristocrazia fu la coscienza e la figura di ogni nazione.

Quindi tutti vi appartennero che la natura aveva eletti alla superiorità, poco importa se la divisione delle classi parve escluderli o il loro urto li schiacciò, perchè nell’inevitabile cooperazione della vita le differenze vere degli individui vi producono una gerarchia, che quella esteriore dei titoli deve subire malgrado tutte le riluttanze della vanità. Così il re, grande come individuo, non era che il capo della aristocrazia: piccolo, ne rimaneva lo schiavo anche sembrandone il tiranno.

Il popolo solo, allora come adesso, era tutta la vita e tutta la storia come un mare battuto da tutte le tempeste, aperto a tutti i vascelli, indifferente a tutti i naufragi, inesauribile, incontenibile, senza altro limite, secondo il grande versetto del poeta biblico, che la parola di Dio.

Vi è ancora un patriziato? Quali sono i suoi caratteri?

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