CAP. V.L’Aristocrazia moderna.

Ancora sopravvive nelle vecchie forme del rinascimento, ma la sua opera è consunta.

Negli stati monarchici e in quelli, che passarono già alla repubblica, l’aristocrazia pare composta di superstiti; la sua superbia non è più che una vanità e quindi una debolezza, i suoi titoli falsificati quasi tutti attraverso la morte nelle famiglie ricordano glorie ed imprese così lontane e difficili che nemmeno dalla moderna forza più temeraria potrebbero essere ritentate; le sue ricchezze sono d’accatto, mantenute o reintegrate da transazioni degradanti colla nuova borghesia cresciuta rapidamente col danaro e nel danaro. Come classe politica costituisce ancora fra i tedeschi e gli inglesi un senato, che serba privilegi nominali sulle Camere dei Comuni, ma l’impero derivando dall’elettorato ogni vera virtù e la sovranità essendo tutta nell’elettore, i senati patrizi non funzionano che come una decorazione, alla quale l’intangibilità è indispensabile per sopravvivere. Toccati anche lievemente si discioglierebbero come quei cadaveri antichissimi nel primo contatto dell’aria. Qualche volta compiono opera utile arrestando una intempestiva volontà dei parlamenti troppo aperti a tutte le bufere della piazza e facili a scambiare per un ordine della storia le velleità passionate della pubblica opinione: spesso dal loro seno sorgono uomini superiori meravigliosamente atti al comando per la lunga consuetudine spirituale di considerare dall’alto i problemi politici.

Ma nel nobile rigore della parola non vi è più aristocrazia.

La sua classe non ha un interesse così individuato dentro la somma di tutti gli altri da potere sopra di esso foggiare una coscienza: i suoi privilegi medesimi esprimono piuttosto il passato che il presente. Echi di una voce, che non sarebbe più intelligibile, la loro seduzione si esercita sugli spiriti deboli della modernità, le donne che vorrebbero essere dame, gli uomini forti soltanto all’acquisto del danaro e che dal danaro non sanno trarre una potenza di pensiero. Nelle turbe invece dura tuttavia il rispetto dei nomi e dei blasoni, mentre un’invidia quasi di rivincita si accanisce a distruggere la bellezza artistica delle antiche differenze; ma tale rispetto, se contiene ancora qualche atavico residuo della servilità plebea è più spesso un’ironica espressione del disprezzo, che la servitù moderna al danaro provoca nell’anima del popolo contro ai padroni soltanto della ricchezza.

L’aristocrazia già decaduta politicamente non ha più nè dame nè signori. Alla raffinatezza del loro tipo era indispensabile una funzione superiore, la responsabilità di un impero che alla loro coscienza imponesse più alte virtù di vita e di morte. Invece l’ozio nella segregazione del lusso o il lavoro nella sottomissione democratica hanno uguagliato il fondo aristocratico a quello della borghesia; la superficie stessa nella parità della coltura e della ricchezza non si differenzia che per il valore dell’individuo. L’eleganza dei modi e degli atti è soltanto un dono naturale non contristato dalle miserie della vita, ma nessuna aristocrazia decadendo può serbarlo in una povertà che le tolga l’indipendenza. Finchè una aristocrazia dura, l’occasionale povertà dei suoi membri viene coperta coll’assisa di qualche grado: quando invece l’aristocrazia non è più un un potere vivente, la ricchezza diviene la prima necessità della sua appariscenza decorativa.

Indarno qualcuno ha creduto che un patriziato possa ritemprarsi nella forma nuova della classe, che lo ha spodestato, traendone una seconda giovinezza, e molte predicazioni si fecero dappertutto su tale argomento, mentre ogni classe e ogni epoca hanno invece caratteri originali, che solo dalla sincerità delle anime attendono vigore di bellezza e di ascensione. Il patriziato, disceso nella lotta economica a cercarvi i guadagni della ricchezza o l’eleggibilità alle alte funzioni politiche, vi perdette più presto la propria coscienza che non riuscisse a lasciare nella modernità delle altre una qualche impronta; la rivalità lo costringeva ad accettare la bassezza di tutti i mezzi, mentre qualche ripugnanza gli contendeva sempre la vittoria finale; spesso tale adattamento fu una lustra, ed allora affrettò la decadenza della famiglia stessa che vi cercava una risorsa, o fu un atto vero, e nel patriziato mancò un patrizio di più. Non so, e pochi forse affermeranno di saperlo, se avesse potuto accadere altrimenti in un moto concorde di tutta l’aristocrazia, ma ne dubito per quell’ordine supremo, che accorda in ogni tempo il trionfo alla forma più recente ed originale. Per rinnovare la funzione dell’aristocrazia nella vita bisogna prima ricostituirle una coscienza di classe, che nobiliti il carattere e metta nel pensiero 1’autorità del comando. Quelle aristocrazie, che una rivoluzione popolare gittò nella prova della morte, vi soccombettero spiritualmente: dalla Francia fuggirono esuli per tornare parricide, nell’Italia stettero incerte cogli stranieri e coi tiranni contro la patria senza che la contraddizione dei loro migliori individui potesse mutare tale contegno e impedire la condanna della storia. Una aristocrazia o è il corpo più scelto di una nazione o non è nulla: dall’avanguardia irrompono i precursori, nella retroguardia si trascinano i più deboli, nel mezzo la massa oblia la tragedia della marcia nella sua stessa fatica, mentre lo stato maggiore delle guide insegna e punisce, frena ed incita, sostenuto ed estenuato dall’incessante responsabilità.

Se l’ultima regalità non avesse logorato l’anima dell’aristocrazia negli ozi delle corti, si sarebbero forse veduti i patrizi superstiti capitanare la vittoria della borghesia dopo il grande rinnovamento della rivoluzione e dell’impero napoleonico. Ma la reazione legittimista succeduta in tutti gli Stati d’Europa provò che l’aristocrazia era anche più morta della regalità. Contro le estreme resistenze dell’una e dell’altra la borghesia nella prima metà del secolo XIX dovette condurre la guerra ideale delle riforme e compiere una rivoluzione forse ancora più grande coll’improvvisazione dell’industrialismo moderno. La ricchezza diventò quindi il primo esponente sociale della forza, e nulla bastò contro di essa; il genio e l’eroismo medesimo le si sottomisero, le idoneità al suo lavoro prevalsero sulle migliori qualità di pensiero e di sentimento: e questa ricchezza, che creava una nuova libertà e una civiltà universale, fu il grande originale segno dell’epoca moderna.

L’aristocrazia italiana nel periodo eroico della rivoluzione si espresse come il popolo soltanto per individui rimanendo come classe ligia al passato: la inettitudine spirituale del lungo decadimento le toglieva di sentire il nuovo soffio tragico, la nullagine della sua educazione le rendeva inaccessibile pressochè ogni idea. La borghesia sola quindi, e di essa un’esigua minoranza, partecipò alle congiure e alle battaglie del nostro risorgimento: la massa popolare vi assistè inerte, il clero era vilmente ma francamente nemico, e così gli aiuti stranieri decisero veramente della vittoria. Dopo, l’aristocrazia accorse; il governo anzichè rivoluzionario si annunziava liberale aprendo a tutti tutte le porte quasi per farsi una clientela: negli stati borbonici e papali invece il patriziato più putrido di ozio e più debole di fibra si chiuse in una muta opposizione. Poi al nord la febbre del lavoro riscaldò anche il sangue delle nobili famiglie, e si videro presto i più antichi nomi apparire sui manifesti delle nuove società industriali; al sud la forma feudale sopravvissuta nel rispetto del popolo e nell’orgoglio delle grandi case mantenne l’aristocrazia quasi straniera al paese. La sua vasta ricchezza territoriale e la distanza dal popolo campagnuolo la riconfermarono nell’assenteismo; le campagne erano quasi selvagge, Napoli e Palermo funzionavano come due capitali del lusso, corti senza re, nelle quali i maggiori cortigiani potevano apparire più alti. L’aristocrazia liberale invece si contentò dei pochi vantaggi regalati alla recente libertà: così ottenne facilmente tutte le sinecure, fu decorativa e servizievole, inferiore alla borghesia che costituiva l’era novella, mal pratica del popolo che si moveva assimilando e migliorando.

Le forze vive infatti crescevano dal popolo e dalla borghesia. L’importanza degli uffici politici dava ai borghesi la precedenza sugli aristocratici, la corte costretta a calcolare sull’assenso in basso rimaneva prona: il suo liberalismo più necessario che meritorio era una fatalità del tempo. Nell’improvvisarsi delle industrie e nel rifiorire delle antiche forze paesane, che fondevano tutte le classi, cresceva all’aristocrazia un bisogno sempre più urgente di ricchezza.

Senza questa non era più possibile ottenere dalla moltitudine il rispetto: le deputazioni e le ambascerie esigevano adesso troppa tenacia di lavoro e pratica d’affari, perchè il patriziato potesse farvi buona prova: nelle provincie e nei comuni la piccola rivalità borghese e artigiana cacciava da ogni seggio i patrizi per farsi largo e salire. L’aristocrazia retrocesse davanti ai tempi nuovi: non aveva nel senato una rocca, dal passato non poteva trarre argomenti di gratitudini patriottiche; forse in lei la superstite delicatezza signorile ripugnava alla volgarità bottegaia e curiale, tribunizia e pedante; la coscienza, che nessuna classe nella rivoluzione aveva fatto veramente il proprio dovere, le diminuiva nell’anima il senso della propria inferiorità; il rapace affannare di quanti lottavano a salire e a comandare le persuadeva nell’astensione una prova di più antica moralità.

Ma l’uguaglianza dei figli dinanzi all’eredità spezzò nel moltiplicarsi di tutti i bisogni e di tutte le spese l’avvenire della famiglia aristocratica. Il lusso meno appariscente e più costoso rimaneva come l’ultima distinzione possibile nella eleganza personale, quindi il patriziato, inadatto al lavoro e incapace di comando vendette i blasoni per mantenersi ancora nell’apparenza di un primato. Ma la viltà di tale compromesso e la vera forza politica della borghesia costrinsero i più aristocratici saloni ad aprire le porte e le fronti più altere ed abbassarsi.

Nel secolo dell’individualità la miseria si era fatta più intollerabile che in ogni altro tempo perchè livellava tutti in basso, e a dominare in questo primo avvento della ricchezza, l’ingegno stesso non bastava sempre senza le significazioni esteriori della potenza. Soltanto verso la fine del secolo XIX il clericalismo mutò la politica di astensione accettando tacitamente la conquista dell’unità e la caduta del potere temporale: così uno spostamento politico si produsse nell’aristocrazia.

Ma l’Italia non ne ha più una nella vita moderna. I grandi nomi adesso non figurano che nelle cronache del carnevale e dello sport: lusso senza personalità, passione decorativa soltanto. Poi la enormità delle spese ridusse già lo sport ad un’industria, la signorilità manca persino nelle intenzioni, e gli esercizi vengono quasi sempre compiti da servi pagati meglio di più illustri professori. Se l’aristocrazia avesse ancora avuto una forza vi avrebbe trovato sfogo nelle campagne, poichè i patrimoni aristocratici sono quasi tutti territoriali: invece le affittanze resero più costante l’assenteismo, mentre il trasformarsi dell’agricoltura in industria e il suo crescente bisogno di scienza rendevano sempre più inadatto il tipo del vecchio padrone. Nell’esercizio dei campi solamente l’aristocrazia avrebbe potuto rimodernarsi costituendo fra il popolo delle campagne ancora integro un partito robustamente conservatore e nobilmente liberale: invece nella decadenza patrimoniale avviò i figli alle professioni universitarie gettandoli alla concorrenza più aspra e più bassa: l’esercito nella miseria di tutte le sue lente carriere non era più un rifugio, il valore dei nomi storici vaniva, mentre la vivacità della nuova vita respingeva istintivamente gli avanzi della vecchia società sbertando la loro decorazione piena di muffe e di strappi.

Nell’ozio povero o mal ricco dame e signori finirono di pervertirsi; la bigotteria aveva già ucciso il coraggio del duello, l’astensione politica spense ogni capacità, lo sport non rianimò che i più bassi istinti. Nel mercato dei blasoni la galanteria si degradò, e l’adulterio pagato anticipatamente nel contratto di nozze divenne uno degli affari più facili nel secolo più facile agli affari; il lusso senza fasto non ebbe arte, non si fabbricarono più palazzi, nei vecchi le botteghe spezzarono i muri e le insegne commerciali si allargarono come ulceri su per gli stipiti e pei cornicioni. Nella uniformità degli abiti anche le livree diminuirono sin quasi a divenire irriconoscibili; il padrone non sentiva di valere più del servitore, mentre gl’impiegati d’amministrazione nella sua casa patrizia valevano più di lui. I viaggi, una volta nobile privilegio, adesso erano diventati un mestiere commerciale: i giornali, dispensarii della celebrità, s’imponevano al patriziato, che voleva note le proprie feste e più note le beneficenze.

Quando un servo è elettore, il padrone non può superarlo più che come uomo: quando una casa patrizia non ha una vita più nobile delle altre, il suo primato è una illusione senza illusi, della quale si ride anche accettandola.

L’aristocrazia è dunque morta.

Il suo ultimo compito storico era stato nel dominio sul popolo contro il dispotismo del re; poi l’aristocrazia aveva tiranneggiato essa medesima mutando la propria funzione di tutela in ostacolo al progresso popolare, e la monarchia schiacciò, assorbì, l’aristocrazia. Senza più comando allora brillò nei gentiluomini e nelle dame tra fioriture di lusso e preziosità sentimentali, o ricusandosi alla degradazione cortigiana si rifugiò nelle provincie a dominarvi colla elettezza dei modi e la signorilità della vita. Era troppo poco: nullameno vi è sempre una poesia nella luce crepuscolare dei tramonti.

Adesso si vedono ancora dei blasoni, ma non vi sono più nè grandi dame nè grandi signori.

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