CAP. VI. Trionfo e degradazione industriale.

Quantunque aperto da Napoleone e chiuso dal Mikado con due delle più grandi fra le guerre della storia moderna, il secolo XIX fu essenzialmente industriale nei modi e nei risultati; i suoi eserciti molte volte raggiunsero la cifra spaventevole delle orde primitive e le battaglie una mortalità antica: i suoi popoli a certe ore si sollevarono nell’impeto del più puro eroismo; alcune guerre parvero avere soltanto un motivo di morta poesia come nella prima insurrezione greca, altre come l’impresa di Mosca rinnovarono la gesta di un eroe, altre ancora come negli Stati Uniti ricominciarono dal problema della schiavitù: alcune come nel Belgio salirono da un coro di opera, molte divamparono indarno come in Italia, nella Germania, in Austria dalle fiaccole di un carnevale di piazza per riaccendersi all’orgoglio di una resurrezione nazionale; qualcuna illuminò di effimeri bagliori il cimitero di un popolo come in Polonia: e nell’Africa e nell’Asia le guerre ripeterono fra i miracoli dell’avventura eroica le ferocie più selvagge, i più atavici errori.

Nullameno la guerra nel secolo XIX fu ancora più subordinata che in altre epoche all’immediato trionfo dell’industrialismo; nè mai forse le sue spese e le sue cicatrici più prestamente vennero dimenticate.

Se i più acuti investigatori non seppero ancora sceverare nella vita di una nazione il reciproco prevalere del tipo industriale o militare, così strettamente uniti che nessuna loro funzione essenziale può svilupparsi senza l’aiuto di un’altra apparentemente contradittoria, più difficile sarebbe lo schizzare anche grossolanamente le differenze fra i caratteri guerreschi moderni e quelli antichi: impossibile forse cogliere nella somiglianza delle forme le profonde antitesi, che rendono così diverso il nostro industrialismo nel confronto di ogni epoca.

Gli ultimi scrittori positivisti dietro le orme di Spencer hanno fin troppo marcato le similarità e le dissimiglianze fra la struttura militare o industriale di una civiltà, ingannandosi secondo il solito nel credere la sua fisonomia un risultato di tale differenza, mentre non l’organo e la funzione distinguono tanto il carattere di un popolo quanto l’unità della sua concezione ideale e la personalità della sua coscienza.

Così nel secolo XIX le guerre eroiche della indipendenza arrivano con Garibaldi alla forma di una solidarietà più profonda che non il più cordiale fra i sentimenti sviluppati dalla reciprocità commerciale: e le guerre del più puro motivo industriale come quella di secessione degli Stati Uniti esprimono dal più moderno di tutti i popoli il più ignobile egoismo e la più stupida ferocia.

Che l’industrialismo impossibile senza una relativa libertà dell’individuo, il quale deve trarre dal proprio fondo tutte le iniziative efficaci, sia più favorevole della guerra allo sviluppo della solidarietà umana: che la parità dei diritti e l’uguaglianza delle leggi crescano più rapidamente nelle libere società del lavoro che in quelle dominate dalla ferrea necessità della guerra, è da secoli un luogo comune dell’esperienza e della rettorica, ma la vita e la morte non si differenziano nei proprii momenti che per la differenza stessa, colla quale lo spirito è costretto ad accettarle. Nel segreto d’ogni anima sta il concetto essenziale, che l’individuo ha di sè medesimo dinanzi al doppio mistero della natura e dell’indefinito: e dal come soltanto l’uomo sente e pensa sè medesimo derivano i modi della sua azione quasi sempre inconsapevole.

L’industrialismo moderno supera di tanto l’antico, che pure ebbe floridissime epoche e lasciò nel mondo incancellabili tracce, di quanto la personalità del cittadino moderno sovrasta a tutte le altre della storia.

Divenuto sovrano nell’elettorato, l’individuo sentì di dover creare da solo l’avvenire: la sua forza invece di attendere da altri l’impulso l’aveva in sè stessa, il risvegliarsi quasi famelico di tutti i nuovi bisogni civili eccitava in lui l’energia del lavoro: voleva crescere per non essere inferiore ad alcun altro, pretendeva ovunque e sempre, nelle condizioni sociali più basse e nella più povera inferiorità nativa, di essere pari coi maggiori appunto perchè non vi erano più artifiziali maggiorenti. Virtù di orgoglio e vizio d’invidia lo spronavano del pari. Nell’elettorato la sovranità uguagliata dentro gl’individui si esprimeva per masse: il numero diventava la massima forza e nel numero ricominciava quindi l’illusione della verità. Apparentemente l’elettorato era ridotto all’atomismo e la sua idealità sembrava destinata a soccombere nelle false equazioni dell’elezione, ma i danni temuti non si verificarono che in piccola parte, perchè l’unità dello spirito umano seguitava a dominare sicuramente tutti gli antagonismi delle vanità e degli interessi più ripugnanti.

Il secolo XIX nel suo doppio compito d’individuazione singola e collettiva fù quindi il secolo più umano della storia.

La sua opera e il suo trionfo ebbero nel prologo il massimo splendore d’originalità: nulla e nessuno sfuggì alla sua rinnovazione, e il mutamento fu così rapido, l’ascensione così alta, l’universalità così vera che nell’abbacinamento dei primi risultati sembrò quasi che il passato dileguasse e l’avvenire medesimo non potesse avere altro progresso. Ogni assisa dell’antica società fu sommossa o capovolta, non una classe conservò la propria base, non una coscienza il tradizionale atteggiamento; nello stato le monarchie rimasero soltanto una decorazione, e le aristocrazie un residuo di morte fortune, contro il quale si accanivano le forze dissolventi della vita: nel governo ogni funzione venne delegata, nella legislazione civile la moralità viva dominò il diritto morto e non si riconobbero quasi più stranieri davanti ai codici, dentro la legislazione penale la pena diminuì sino a non essere che una guarantigia, e il delitto sino a una inferiorità dell’individuo. Un diritto internazionale sovrastò alla licenza della guerra e vi prescrisse i modi. La rivoluzione, che dalla Francia sconvolgeva rinnovando l’Europa, irruppe nelle forme letterarie e delirò col romanticismo nel trionfo dell’individualità: penetrò nella storia e l’interpretò con una nuova filosofia, che ne faceva una tragedia, mentre Kant dissolveva nella critica più pura i vecchi sistemi ripetendo più in alto l’opera distruttrice di Napoleone ed ignorandola. Tutte le scienze si levarono quasi in un risveglio improvviso per gettare la natura sotto un esame, dal quale doveva uscire più libera ed insieme più misteriosa. La geologia scoperse la storia del nostro pianeta, e spezzandola in capitoli per ogni specie di viventi riunì in un altro panorama tutti i suoi individui: a torme, a falangi, i poeti dell’avventura s’inoltrarono per i deserti ancora inesplorati dei continenti e nelle oscurità impervie della storia: molti innamorati della morte le dettero la posta ai poli, fra uno scenario di ghiaccio, sotto un sole spento, in una notte di penombra, soli davanti a Dio. Poi dalla libertà proruppe un grido, che negava la schiavitù delle razze inferiori: ogni limite parve ingiusto, ogni sottomissione diventò penosa. L’uguaglianza civile e politica improvvisava in tutti un orgoglio regale.

Popoli, città, villaggi, campagne mutarono veste: le scienze, offrendo ogni giorno all’industria un’altra forza domata della natura, centuplicarono quella dell’uomo; il mondo rovistato in ogni parte più segreta risultò piccolo alla nostra opera, i viaggi una volta così difficili si confusero in una mobilità universale: la miseria gittò a tutti i venti come un pulviscolo fecondatore i più poveri, e coi più poveri si aggiunsero i più audaci, coloro ai quali l’originalità dello spirito non consentiva la quiete nemmeno nell’ampiezza dei recenti gironi sociali.

Le strade saldavano i paesi alle città e le città alle capitali, il telegrafo produceva il miracolo continuo di una ubiquità, la fotografia fissava nella fuga di un attimo la fisionomia degli uomini e delle cose rivelando i segreti dell’ombra e i misteri degli astri: poi la meteorologia segnò le vie dei venti e scoperse i capricci delle tempeste: la chimica constatò un vivente in ogni cosa, la biologia ne raccontò il romanzo, la medicina invertendo la propria base negò il male e ridusse la malattia ad un conflitto di minimi viventi coi grandi. La patria restò più nello spirito che nella materia malgrado l’eroica contraddizione che accendeva ovunque guerre nazionali, nessun bisogno rimase indigeno, la ricchezza ondulò nel ritmo in un mercato universale.

Dopo la vittoria borghese, nella seconda metà del secolo XIX, scoppiò l’insurrezione proletaria colla stessa arma dell’elettorato, nella forma militare dell’irregimentazione per mestieri dentro fabbriche più grandi delle caserme, fra il tumulto di una politica unilaterale nell’interesse, miope nel pensiero, avara nel cuore, ma sicura della propria fecondità. La massa operaia volle partecipare al governo pur dichiarandolo nemico mentre era invece un liberatore, insultò le classi superiori che l’avevano battezzata, sognò nel passato gli eden di tutte le utopie, sofferse nell’attualità le disillusioni spasmodiche di ogni inizio. Ma intanto le idee si divulgavano colle merci coi viaggi coi giornali e coi libri, dalle assemblee e dalle predicazioni, e il veicolo era sempre la ricchezza e l’attrito delle discussioni libere levigava l’asprezza delle coscienze, e la sovranità democratica sottomettendo governi ed individui ad un esame continuo di sè stessi li costringeva ad un rendiconto dell’opera propria sempre più esatto.

Un gaudio di orgoglio, un’ebbrezza di creazione sollevarono le anime, le moltitudini disertarono quasi la religione, che la scienza si vantava di aver sconfitto. Al solito l’uomo si affermò migliore che non fosse, capace di ogni diritto, degno di tutte le funzioni: come sovrano ebbe la corte in piazza e per cortigiani i suoi stessi superiori. Una febbre gli ardeva i polsi e la fantasia: essere il proprio re, non piegare innanzi ad alcuno, creare a sè stesso la legge, dominare la natura e vivere immortale nell’umanità.

In nessun’epoca il progresso fu tanto rapido e profondo.

Ma i suoi fattori più attivi anzichè dall’alto dello spirito derivarono la potenza dalle più facili spontaneità industriali: le strade e gli opifici valsero più delle scuole e delle chiese, l’agiatezza delle prime conquiste cangiò gli atteggiamenti e le attitudini delle masse meglio di qualunque persuasione intellettuale: la mobilità della vita moderna moltiplicò ovunque ogni uomo per ogni nuovo ambiente, la mancanza di padroni emancipò dalla servilità dopo l’abolizione della servitù.

Nessun secolo ebbe forse più grandi uomini e in maggior numero del secolo XIX, ma la loro opera vi apparve meno distintamente: come la facilità quasi eccessiva delle comunicazioni scemava valore alle notizie, così la prontezza della diffusione diminuiva l’importanza delle idee: poi la ressa dei mediocri e degli uomini superiori intorno ai grandi impediva loro di essere veduti nella differenza dell’altezza nativa, quindi tutto diventava quasi impersonale; la vita invece di esprimere e di assicurare le proprie fasi nei monumenti era un monumento a sè stessa, fluido, mutevole, perenne, saliente nella luce. Quando la personalità è in tutti, anche quelle più alte ed eroiche non sembrano più così vere: in un governo, quando la massa elegge deputati e ministri, questi paiono piuttosto guidati che guide; quando una merce trionfa lungi nell’adattamento di tutti i mercati e nella sottomissione a tutti i prezzi, malgrado qualunque nome e qualunque marca, la fabbrica rimane impersonale così negli operai come nei padroni: quando il pubblico è giudice di tutto e di tutti, anche sulle cime a lui più inaccessibili, l’originalità degli individui senza scemare diviene meno visibile.

La democrazia è fatalmente una livellazione, che per alzare il fondo deve abbassare le cime: bisogna accettarla così. Come le acque scrostando i monti formano le pianure, gli interessi rodendo le idee se ne fanno un humus ed un cemento, mentre i grandi uomini quasi lampade nelle grandi distanze si perdono a uno a uno dentro lo splendore dei lumicini accesi alla loro fiamma e tumultuanti come lucciole sul piano.

Certamente in tutti i tempi le idee si diffusero per correnti misteriose, sotterranee o aeree, se fra i popoli i confini erano ancora baluardi inviolabili; ma come il contatto continuo dei popoli solamente poteva produrre in loro l’unità della coscienza, così la libertà e la ricchezza soltanto erano veicoli sufficienti alle idee della personalità moderna. Prima ogni gente doveva vivere di se stessa martellando sull’incudine della storia il proprio carattere, quindi ogni sviluppo pareva avere per unico scopo la formazione di una fisionomia nazionale: le nazioni furono allora così distinte che alcune restarono incancellabili. Nel secolo XIX invece l’originalità si attenua, i lineamenti si levigano e la distinzione rimane nelle sfumature.

Una volta la politica e la religione erano le due massime forze unificatrici: livellavano schiacciando e saldavano colle catene, mentre arte filosofia e scienza rivelavano coi teoremi e colle immagini riunendo le anime nella astrazione di una verità superiore: ma quest’opera, la più eccelsa fra tutte, era fatalmente penosa e pigra. Egoismo ed ignoranza contrastavano e contrastano; l’egoismo è costretto a preferire sempre la maggior somma di benessere estraendolo con ogni mezzo dalla attualità, l’ignoranza si adagia in ogni vecchia forma come in un letto ricusando perfino di mutarvi fianco.

La libertà solamente e la ricchezza eccitando fino alla febbre vizi e virtù potevano improvvisare l’immensa civiltà del secolo XIX: la libertà con tutti i suoi difetti e i suoi pericoli sprigiona le forze dell’individualità, la ricchezza mettendo una gioia in ogni bisogno e un’invidia in ogni desiderio eccita anche le inerzie più vili. La massa, che sente di non essere bella, vorrà quindi apparire decente; siccome il miglioramento interno è troppo lungo e difficile, il costume si ingentilisce e lo simula nella esteriorità. L’elettorato sovrano obbliga la moltitudine ad avere un pensiero magari di accatto, uscendo così dalla passività storica; la verità non attinge la più alta cima che nella dedizione di se stesso alla debolezza degli altri, e la politica tenta forzatamente tutti i riscatti proletari, e la popolarità premia indistintamente tutti coloro che vi si adoperano. L’arte ha una bellezza troppo pura, e l’industria degradandola nella decorazione la rende universale: la filosofia sistemi troppo grandi, e la dottrina li spezza per far servire i loro cocci come ciotole: la scienza scoperte troppo astruse, e la cupidigia industriale accanendosi al guadagno delle loro applicazioni vi penetra quasi rinnovandole in una seconda rivelazione.

Tutto quanto era possibile all’influenza della filosofia, all’eroismo della religione, all’impersonalità della scienza, alla personalità dell’arte per la elevazione delle masse riempì la vecchia storia; l’attuale, incomparabile sviluppo civile invece cominciò dalla personalità sovrana del cittadino, crebbe dalla facilità degli scambi, che mutarono in universali le idee e gli interessi di ogni luogo. Oggi l’umanità è daccapo in viaggio lungi dai ripari ove resistette tanti secoli agli eccidi della guerra con se stessa e colla natura, ma le sue file sono confuse, i suoi ordini sconnessi: s’avanza e non sa dove, guarda in alto e il cielo è vuoto, non ha più fede ed invoca un’altra rivelazione: è libera e non sa comandare se stessa, più ricca che in ogni altro tempo e il senso della miseria le si acuisce ogni giorno più nell’anima.

Una rivoluzione ideale si prepara nella crisi stessa della libertà, un pessimismo monta dall’ebbrezza della conquista, nella quale esultano le moltitudini. I conventi si moltiplicano mentre tutti affermano la vicinanza di un paradiso terrestre, ma i conventi sono l’asilo di coloro che non sentono più abbastanza la bontà della vita per conservare il coraggio di riprodurla, e incapaci di suicidarsi si riuniscono per lenire negli altri il dolore inconsolabile nel fondo dei loro cuori. Nell’assenza di ogni aristocrazia gli spiriti migliori si sentono già esuli dentro la volgarità della moltitudine; alcuni delirano nel sogno di una tirannide al disopra di ogni morale e al di fuori di ogni responsabilità: altri si isolano nel disprezzo o si rifugiano nel passato dalla miseria della nuova ricchezza, dalla falsità degli ultimi verbi.

Perchè l’industrialismo trionfante discende le gemonie della degradazione.

La sua parola è stata breve.

Ogni forma predominante nella società si misura dal proprio ideale, ma l’industrialismo non poteva avere che quello della ricchezza. I suoi due principi della libertà e della sovranità individuale non erano rampollati dalla sua essenza: l’una ottenne la massima vittoria nel cristianesimo, quando tutti gli uomini uguali nella legge divina furono in essa sovrani col rischio della propria eterna responsabilità: l’altra conquistò nella riforma di Lutero la più importante emancipazione, giacchè l’esame del testo divino ne implicava la possibile negazione nel riconoscimento dell’inviolabilità spirituale. Le conseguenze diventavano facili. Ma nella tragedia dello spirito per la determinazione della morale e del diritto bisognava attingere le forze alle più pure sorgenti del pensiero: nell’antitesi fra la segreta dolorante regalità dei migliori individui e il palese materiale impero della legge e dei suoi mandatari era necessario che quelli fossero costantemente più alti di questi. Così in qualunque campo, con qualsivoglia arme, la lotta era sempre per un’idea, che nobilitava lo spirito anticipandogli la libertà di se stesso nel sacrificio ed affermando la sua sovranità oltre le potenze della terra. L’appello aveva dunque gli squilli dell’epopea e la morte una grandiosità, che superava vinti e vincitori, mentre ogni vittoria rimaneva inutile a coloro che contrastavano l’ascensione umana, e ogni sconfitta si mutava l’indomani in trionfo per quelli che vi erano periti.

Naturalmente un progresso materiale seguiva questa corsa dello spirito verso l’irraggiungibile meta: e come dalle scoperte delle scienze giorno per giorno si avvantaggiavano nelle applicazioni industriali i modi della vita, così dalle rivelazioni della coscienza saliva la nostra personalità libera e sovrana.

Il grande avvento industriale del secolo XIX cominciò dalla rivoluzione francese sviluppandosi negli immediati contatti di tutte le nazioni. L’elettorato colla sua formola categorica ripeteva nella vita politica l’uguaglianza già annunziata dal cristianesimo nella vita religiosa: tutti i cittadini erano uguali davanti al diritto massimo della legislazione, le poche differenze mantenute fra loro dai primi statuti dovevano presto scomparire in un continuo allargamento di suffragio, mentre la libertà degli eletti come interpreti diminuiva grado a grado sino ad una servilità di mandatari.

Tale uguaglianza, giustissima teoricamente, si contraddiceva nella pratica: l’elettore riconosciuto dalla legge non era spesso un eletto nè della natura nè della vita: quello lo aveva formato inferiore a tale funzione, questa lo aveva lasciato così. Quindi il nuovo sovrano incapace di comprendere la propria sovranità, invece di esercitarla, la vendeva o esercitandola non la riempiva come gli antichi tiranni che di capricci, e poichè i voti si sommano e non si pesano, il numero diventava la forza e la forza al solito deliberava nell’arbitrio. La borghesia guidò la rivoluzione nella sua prima fase mantenendole una certa spiritualità di intenzioni e di idee; nella seconda l’irruzione operaia la degradò alla soddisfazione immediata di una primizia plebea.

Ma la borghesia stessa ne era complice.

Tutta la sua nobiltà interiore si era consumata nello sforzo delle guerre nazionali e nella conquista della libertà: la sua vita ingigantita dalle fortune dell’industrialismo seppe mantenersi pari al grande compito traendo dal proprio fondo un nuovo ideale. Tutte le aristocrazie dalla Grecia a Roma, dal medioevo al rinascimento, crearono ammirabili tipi: la responsabilità del potere e la coscienza di sintetizzare un’epoca diedero ai loro rappresentanti la virtù del comando: superbi sino ad un disprezzo inumano del volgo pagavano tale superbia col sacrificio della volgarità insita anche nelle loro nature e dando ai propri vizi un qualche carattere superiore: regnavano e perivano nell’impero. La borghesia invece volle istantaneamente godere; la sua larghezza nel gittare al popolo i privilegi stessi pei quali governava, anzichè derivare da una generosità rivelò una debolezza esaurendo in quest’opera tutto lo sforzo della piccola borghesia contro la grande: questa giovandosi di poche tradizioni, di maggiore coltura e di una innegabile superiorità dello spirito tendeva a formarsi in aristocrazia; quella ròsa dall’invidia, inferiore nell’anima e nella vita, si gettò alla testa delle moltitudini per insegnarle le prime rivolte avvelenandole tutte le concupiscenze. Nessuna delle due aveva un solido contenuto di classe e si sentiva responsabile dinanzi alla idealità della storia.

Quindi la formula del guadagno pervase tutti gli ordini, livellò tutte le opere.

Siccome a diventare elettore bastava essere uomo, così ad essere eletto bagattò la somma del suffragi; il merito era inutile in ambo i casi, e la responsabilità diluita per l’immenso numero dei responsabili si perdette nell’anonimo delle assemblee. Il lavoro aumentò e la sua nobiltà diminuì; la borghesia incapace di superare la loro eleganza volle soperchiare nel lusso gli ultimi superstiti aristocratici, invece il popolo scimmiottò l’anodina eleganza borghese smarrendovi l’originalità del proprio carattere: l’istruzione prodigata a tutti confondeva come in una nuova volgarità di decenza ogni rivelatrice distinzione individuale, mentre la prepotente importanza del danaro toglieva il rispetto alle più squisite delicatezze della vita.

La religione si corruppe anch’essa: ammalata di ricchezza deformò ogni giorno più la propria idolatria contrapponendosi soltanto per avarizia alle migliori riforme liberali della rivoluzione. Una incredulità bruta e viziosa, fatta di avanzi dottrinali e d’ignobili sottintesi, la sostituì quasi dappertutto sottomettendo gli spiriti ad una peggiore servitù; salari e guadagni montarono vertiginosamente, e le professioni più nobili come quelle della medicina e della giurisprudenza vi perdettero ogni ritegno nell’insaziabilità del lucro, mentre la scienza le migliorava quotidianamente nel contenuto. Per guadagnare, l’aforisma era di produrre e vendere a miglior mercato; per avere un merito efficace bisognava crearne la fede nella credulità del pubblico, che ingannato non si sarebbe doluto avendo esso pure la medesima febbre d’inganno nel sangue.

Quindi nel secolo più democratico tutti vollero prevalere, e il lavoro manuale reso sempre più lieve dalle macchine fu dispettato come stigma d’inferiorità: nella disparizione troppo rapida delle vecchie gerarchie il solo ordine patrizio rimasto era degli immuni dal lavoro delle mani, anche se inetti a quello troppo alto del pensiero. Mentre la sollecitudine politica si addensava intorno alla classe operaia e la rettorica della democrazia vantava nel popolo l’eccellenza del nuovo sovrano, la nuova superbia per tutti era di non essere più fra la sua moltitudine e di cancellare in sè medesimi le impronte del suo lavoro. Questo stesso non era considerato che nelle risultanze del salario, al difuori e al disotto di ogni ideale: il codice aveva già degradato il principio famigliare identificandolo con un contratto, la vita si abbassava nella sostituzione dei mezzi al fine.

Ma il suo valore al solito parve crescere dalla sua minore importanza; nelle epoche eroiche l’individuo gitta facilmente la vita come un aroma sul rogo dell’ideale, in quelle decadenti la vita ridotta nella angustia delle funzioni materiali vi si trincera e ricusa ogni sacrificio.

L’estrema mobilità del lavoro e dei viaggi passò nelle fortune della gente: i patrimoni si coagularono e si dissiparono come in un tumulto di sogno; poichè nessuno guardava oltre sè stesso, tutto parve provvisorio e posticcio, la ricchezza avendo una meta di soddisfazioni immediate dimenticò l’orgoglio delle opere durature: la politica costringendosi dentro il successo personale si impicciolì nelle vittorie e nelle sconfitte.

Dopo l’enorme abbacinante filosofia di Hegel, che riassunse tutta l’antichità e aperse l’èra moderna, la degradazione fu precipitosa; Hegel aveva sollevato il mondo nelle idee, i positivisti distrussero le idee nei fatti; la loro filosofia era la sola conveniente ad una fase industriale, che isolava gli individui livellandoli invece di unificarli; l’inconoscibile, del quale l’interpretazione istintiva è ideale e pregio della vita, venne dichiarato inutile, la storia cessò di chiedere le rivelazioni del passato ai grandi pensieri per impararle dalla parzialità dei piccoli documenti, le leggi non furono che disposizioni nelle apparenze fenomeniche, la morale un mutare di costume, le idee una metamorfosi delle sensazioni. La superficialità rese tutto facile, e la volgarità parve la sicurezza del reale. L’uomo senza lo spasimo dell’infinito nel cuore e la luce divina nel pensiero, ridiscese nell’animalità, ultimo genito di una serie anzichè primogenito nella creazione. Il darvinismo, oggi consunto, tradusse tale filosofia nella scienza, e rivelò l’impotenza del metodo sperimentale coll’arbitrio delle ipotesi e la sofistica delle argomentazioni per negare o riempire le lacune della evoluzione, sostituendo al mistero antico l’assurda facilità di una spiegazione materialista. Poi il positivismo della filosofia divenne naturalismo nell’arte, e l’uomo invece delle passioni non ebbe più che dei vizi: i suoi drammi senza libertà morale rovinarono nella catastrofe dei temperamenti, la sua poesia agonizzò.

Dopo Victor Hugo, retore sovrano e poeta re, sempre librato sulle tempeste, coll’anima accesa da tutti i baleni del cielo e bagnata da tutte le lagrime della terra, non si vide più un grande poeta; accanto a lui Balzac aveva forse superato Shakespeare, Musset consumato dalla febbre di tutte le passioni sopravviveva in tutti i cuori dolenti, Beranger era stato la sola voce popolare, Dickens aveva scoperto il dolore degli umili; lungi sulla torbida linea dell’orizzonte russo Dostojewski e Tolstoi annunziavano già la tragedia di un popolo nuovo, ma nell’Italia i due veri poeti della rivoluzione erano stati Mazzini e Garibaldi. Nessuno aveva saputo cantarli.

Nella borghesia coloro che facevano professione di arte o di scienza, non sentivano il bisogno di stringersi in falange contro la volgarità: alcuni grandi stavano ancora solitari, gli altri erano un’altra categoria di industriali preoccupati soltanto nella vendita di una merce, che aumentava di prezzo scemando di valore. Le più vaste ambizioni si limitavano a rappresentare qualche cosa o qualcuno; nella politica erano ministri, nei quali la morte uccideva anche il nome, nell’industria erano miliardari, che ricchi quanto un popolo lottavano nel lusso dei cavalli e dei yacts cogli ultimi piccoli re. La gloria venne decretata dai giornali, che vendevano parole e idee: i libri da essi taciuti erano come non stampati per il pubblico pur preparando nel segreto e nell’alto una nuova rivoluzione. Cancellate le differenze di classe le donne pretesero la parità cogli uomini nel nome della stessa astrazione elettorale, poi costrette a vivere di un nuovo lavoro si gettarono su quello dei maschi inferiori; la loro femminilità si deformò senza che il loro spirito si allargasse, furono meno amanti e meno madri, inferiori alle donne vere nel sentimento, senza sesso spirituale nell’opera.

Le virtù militari scomparvero prime.

Dopo le guerre nazionali la parità degli elettori li fece tutti soldati abbreviando il tempo della milizia, ma soldati provvisori se gregari, simili agli altri impiegati se ufficiali: il criterio democratico della anzianità dell’esame giudicò della loro carriera, le lunghe paci disabituarono dalla necessità della guerra appannando lo splendore delle armi; la prevalenza dell’industrialismo, la nuova importanza di ognuno in se stesso aumentarono le ripugnanze alla vita militare, e l’esercito non fu più che una spesa inevitabile quanto insopportabile. La patria era soltanto nell’interesse di ognuno significato dall’effimero accordo di una maggioranza: si sorrideva di ogni soldato pur esigendolo eroe ad ogni apparire di pericolo, ma non si sarebbe voluto morire della sua morte considerata oramai in lui un inconveniente del mestiere. Attraverso l’accademia dei ricordi e le figurazioni delle feste nazionali uno scetticismo sbertava gli eroismi dei padri senza intendere nemmeno come fossero stati più felici in una vita più alta; la fratellanza democratica non aveva fraternità, la nuova dedizione ad un partito non valeva l’antica devozione alla patria.

Nell’ultima fase la poesia perdette la voce, e la musica non ebbe più melodia: i poeti soppressero quasi il ritmo nei versi, i musicisti affogarono la canzone nei recitativi.

Nessuna famiglia si conservò così grande da sentire il bisogno di un palazzo duraturo quanto il nome: i monumenti decretati per partigianeria, assegnati democraticamente per concorso come gli appalti, furono raramente simboli di gloria e figure di bellezza; alla carità, che nascondeva la mano, successe una filantropia che conteggiava pubblicamente la vanità degli oblatori; la sapienza greca aveva scritto sul frontone del massimo tempio — Conosci te stesso — la coscienza industriale adottò il motto inglese — Chi non ha non è.

Già la classica economia borghese era trascesa oltre i limiti della libertà sino all’oblio dell’uomo considerandolo come una merce, di rimpetto l’economia rivoluzionaria negò le leggi impersonali del lavoro e del capitale per non vedere che il diritto dei lavoratori più bassi; lo stato identificato dalle vecchie monarchie nel despota ed alzato dalla filosofia idealistica a personalità giuridica della nazione, ridiscese nell’interpretazione industriale sino a confondersi col governo, e il governo colla maggioranza di un giorno nelle elezioni, di un anno nel parlamento.

Nella storia diventata finalmente universale ogni popolo non poteva più provare il suo valore che aiutandola nei problemi più vasti oltre i propri confini, ma l’industrialismo pretendendo alla prevalenza delle questioni economiche sulle politiche si ricusava alle conquiste: dietro di lui la democrazia plebea recalcitrava per paura della morte nella concupiscenza dei primi guadagni. Gli eroismi dei viaggiatori non divertivano nemmeno come le leggende antiche della cavalleria; Andrée volato sino al polo in pallone, e scomparso per sempre nel mistero, fu giudicato un pazzo; Stanley, che traversò diagonalmente l’Africa aprendosi la via col ferro, un assassino. Intanto una oscura, ineluttabile necessità imponeva una armata di qualunque guerra, e della guerra rimutava perfezionandoli ogni giorno gli strumenti; non si voleva la morte, ma la sua ombra oscurava tutti i sogni, e i rintocchi funebri delle sue campane interrompevano tratto tratto la gaiezza delle diane esultanti sui colli. La ricchezza, supremo scopo dell’industrialismo, ne diventava l’ultimo termine; la sua filosofia era morta, le sue scienze incespicavano nel ridicolo, le sue arti si deformavano nella volgarità. La grande ascensione della borghesia liberale era precipitata col secondo impero napoleonico; da Hegel il pensiero discese sino a Spencer, il romanzo da Balzac a Zola, la poesia da Hugo a D’Annunzio, la musica da Wagner a nessuno: nella prima metà del secolo decimonono l’imperatore si chiamava Napoleone; l’eroe Garibaldi, l’apostolo Mazzini: la Grecia si sollevava sola contro la Turchia, Cavour fondava l’Italia, Bismark la Germania, poi Gambetta la terza repubblica francese; dopo l’Inghilterra non bastò quasi contro i Boeri, gli Stati Uniti ebbero una flotta ed un esercito, nei quali ad ogni guerra i pensionati diventavano più numerosi dei combattenti, la Russia perdette tutte le battaglie contro il Giappone.

L’Italia fuggì davanti all’Abissinia, ma non potè ritirarsi dall’Africa.

Il grande industrialismo aveva vinto, le grandi nazioni non vincevano più.

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