CAP. XIV. Corporazioni e cooperative.

Quelle furono una forma imposta dalla guerra nell’opera multipla della pace, queste sono una istintiva imitazione del parlamento.

Nell’incertezza, che la guerra incessante metteva in tutte le funzioni e più ancora nell’enorme disparità delle classi, le più inferiori dovettero presto stringersi militarmente per necessità di difesa. L’individuo, libero nella propria forza, vi era troppo debole per potersi sviluppare, quindi l’istinto della vita e il genio della storia gli suggerirono una serie di ordini, dentro i quali la potenza del gruppo poteva compensare la diminuzione della sua individualità. Così il medioevo e il rinascimento espressero la propria civiltà originale in una tragedia, che fondendo le razze e le idee preparava il mondo moderno. Allora la nostra attuale libertà non era nemmeno concepibile: liberi erano soltanto i più forti, coloro che osavano più spesso sfidare la morte, e nei quali la natura aveva messo la superiorità del comando. Per tutti gli altri la corporazione era una scuola e una milizia, con assisa e con armi inconfondibili; i privilegi conquistati vi diventavano diritti: negli ordini superiori la forza si misurava quasi sempre all’attacco, negli inferiori dalla resistenza: in quelli prevalevano gli elementi politici e guerrieri, in questi aumentavano quotidianamente le forze della pace colla scienza e coll’arte, coll’industria e col commercio: i padroni consumavano, i clienti producevano, quindi la vittoria finale non poteva esser dubbia.

Ma ad ogni conquista delle corporazioni e ad ogni sconfitta degli ordini superiori un uguale dissolvimento li equilibrava, aiutando collo sviluppo degli individui l’avvento di una più alta epoca, nella quale il cittadino e lo Stato potessero più fecondamente cooperare senza mortificazione nell’uno o violenza nell’altro.

Quindi nella gran luce della rivoluzione francese, che proclamava la sovranità individuale, corporazioni e aristocrazie vanirono.

Oggi invece la guerra della libera concorrenza condensa nuovamente i più deboli in una forma imitata dalle antiche cooperazioni, ma nella quale la libertà politica si esprime parlamentarmente.

Le attuali cooperative infatti si compongono di azionisti pari agli elettori, di un parlamento composto da delegati, di un consiglio simile ad un ministero. Come elettori gli azionisti non vi hanno che una funzione primordiale, sono il diritto e la materia, ma un diritto poco più che astratto, una materia quasi greggia: un bisogno li sospinse, un istinto li adunò, un’idea li compose. Così, solo così, potevano difendersi sentendo che nella lotta della produzione e della distribuzione la loro quota diminuiva, e la loro libertà soccombeva al monopolio dei più forti, perchè la libertà, principio supremo di vita, ne contiene la contraddizione, e senza nemmeno ledere le proprie forme arriva talvolta agli estremi della tirannide.

I più facili esempi e le conseguenze più immediate erano nel campo economico, più libero di quello politico, nel quale l’ingombro dei residui storici impedisce quasi sempre l’applicazione rigorosa dei principii. Individui e partiti avevano già dall’inizio proclamato i pericoli della libertà e la sua contraddizione al benessere degli inferiori: reazionari e rivoluzionari all’indomani del trionfo liberale attaccarono i trionfatori denunciando nell’immutata servilità dei poveri una schiavitù pari all’antica: si disse che era assurdo vantare l’uguaglianza dei diritti, quando la disuguaglianza delle condizioni manteneva gli uni nella dipendenza degli altri: che la libertà abbandonata all’arbitrio individuale riproduceva il dispotismo delle vecchie aristocrazie senza nemmeno la giustificazione di grandi fatti e di più grandi idee. I reazionari concludevano contro la libertà, perchè l’individuo incapace di dominare sè medesimo aveva bisogno di sentire la verità in una autorità indiscutibile; i rivoluzionari negavano l’attuale libertà accusandola di essere soltanto una conquista della classe borghese, ancora padrona del capitale e del lavoro.

Quindi avventavano accuse e profezie per scatenare contro di essa le classi inferiori giovandosi del proletariato intellettuale come di un’avanguardia di guastatori, e dello spontaneo irreggimentarsi degli operai nelle immense fabbriche per disciplinarli alla guerra contro tutti i governi coll’arma incruenta del voto prima e con tutte le altre poi, se il momento apparisse propizio per la negligenza o la viltà del nemico.

Fra queste due scuole estreme il termine medio, abbastanza ben composto di verità e di illusione democratica, fiorì nella cooperazione fra leghe e sodalizi, banche e botteghe.

Ma bisogna anzitutto affermare che questo mezzo termine non era una risposta nè ai reazionari nè ai rivoluzionari; gli uni argomentavano più alto, gli altri concludevano più lontano.

Le cooperative, come verità democratica, non esprimevano che una difesa di alcuni, isolati, sbandati e quindi nell’impossibilità di difendersi dagli eccessi, ai quali la forza individuale poteva arrivare dentro l’orbita della libertà. Quale difesa di deboli organizzata da deboli, la sua formula non poteva essere superiore, mentre ogni difesa per se stessa è quasi sempre minore dell’attacco: questo può creare, quella conserva soltanto. Così il capitale fornito dal numero dei piccoli difficilmente poteva diventare grande: nell’istinto e nel bisogno che li adunava, sopravvivevano sempre le insufficienze e i vizi della loro natura: poca la forza morale, più piccina ancora la capacità intellettuale. Come tutti gli elettori questi azionisti, oltrepassato un certo stadio, dovevano annullarsi negli eletti; ma nella legge e nel fatto politico l’eletto si occupa d’interessi dominati da una legge storica nella massima orbita della nazione, e può quindi con una mediocrità tollerabile compiere la funzione, mentre l’elettore dimentico del proprio giorno regale è già ricaduto nella monotonia dell’esercizio quotidiano. Fra l’uno e l’altro rara e difficile dunque un’antitesi d’interessi personali.

Invece dentro le cooperative la contraddizione era inevitabile nell’unità medesima dell’interesse. Questo lasciava sempre l’eletto nella stessa condizione di cooperatore al medesimo affare, in pari condizioni di diritto, mentre l’uno non aveva più nè potere di governo, nè capacità vera di controllo; e l’altro dominando tutto e tutti colla propria funzione oligarchica doveva essere libero nelle iniziative, irresponsabile nell’errore, fedele come un compagno, giusto come un padrone. Tali virtù sono troppe e troppo alte.

Così accadde al solito che la nuova forma parlamentare concluse alla onnipotenza del ministero, e questa dalla dittatura di un gruppo alla tirannia di un uomo, o la cooperativa incerta, tumultuosa, floscia, non seppe muoversi abbastanza per vivere, nè serbare tanta forza da morire decentemente. Nelle prime cooperative di consumo la prova parve più facile, perchè la passività del loro principio esigeva minore potenza di carattere e d’intelletto nei ministri: le difficoltà crebbero al contrario in quelle di produzione raddoppiando per ogni grado, che le avvicinava alle libere forme della concorrenza.

Come le leggi del lavoro e del capitale non esprimono nè la volontà nè il pensiero del lavoratore o del capitalista, ma una necessità ideale, così le leggi del commercio e dell’industria non possono subordinarsi alla media spirituale di un gruppo senza unità, composto d’individui quasi privi di qualità industriali e commerciali. Commercio ed industria sono anch’esse due forme, che esigono al trionfo vizii e virtù concordanti nelle iniziative della passione e dell’idea.

Quindi l’attività prodotta in un gruppo dal dovere e dalla reciproca simpatia dei soci non può quasi mai essere sufficiente nella lotta contro la coalizione di forme individuali sollecitate da tutte le concupiscenze del mondo. Nel primo caso l’individuo sente la propria azione come aneddotica e secondaria: la cooperativa non è il centro della sua vita, l’interesse vi è di qualche piccolo risparmio soltanto. Se la cooperativa trionfa, la sua vittoria rimane anonima e il suo profitto impersonale. Nell’altro caso ogni individuo si batte per sè stesso, non vuole risparmiare ma guadagnare, se ama non ama che la propria cosa, e questa passione gli raddoppia le forze; si sente libero, ha bisogno di vincere, perchè la vittoria è lo scopo della sua vita.

L’esempio fortunato di alcune cooperative non basta a smentire la superiorità dell’individuo sul gruppo; poi la cooperativa è un gruppo inferiore alle stesse compagnie. Le chiamo così giacchè tale è nel commercio il loro nome. Ma le compagnie non nacquero da un istinto di debolezza, con un motivo di reazione morale contro la logica spietata dell’interesse, con una intenzione di beneficenza ad alcuni piccoli sprovveduti; ma nel dilatarsi dei mercati per l’immensa facilità delle comunicazioni, per l’eccesso medesimo del lavoro, si coagularono spontaneamente intorno ad un uomo. Il loro motivo d’azione era il guadagno come sempre e dappertutto; un uomo ne aveva avuto primo l’idea e studiate le difficoltà: nell’orbita troppo vasta, solo, si sarebbe perduto: l’affare lontano, lento, difficile esigeva le più forti e disparate attitudini, somme enormi, un numero male prevedibile di gente subordinata in una ferrea gerarchia. Le compagnie d’affari rinnovavano quindi nella storia le antiche compagnie di ventura; i loro condottieri dovevano avere le stesse virtù e gli stessi vizii degli altri sopra altri campi, sognare come essi nel trionfo un nuovo impero politico.

E così fu.

Oggi ogni grande affare si compie da compagnie.

La loro forza è enorme, anonima, impersonale, ma la legge e la passione dell’opera loro hanno una individualità.

Naturalmente in queste compagnie di ventura commerciale e industriale la logica dell’affare soffoca ogni sentimentalità: i mezzi proporzionandosi al fine superano la responsabilità individuale, ognuno vi opera come in una guerra, la politica vi scarica come una cloaca le proprie impurità più deleterie, la posta è sempre il danaro, gl’inferiori diventano strumenti, i superiori spariscono quasi in un simbolo. Ma senza tale forma e tale disciplina così grandi affari non sarebbero forse possibili, senza questi grandi affari il mercato moderno non avrebbe attinto alla unità mondiale.

Si può fremere di orrore alla rivelazione dei loro scandali nei processi quotidiani, non pretendere di sopprimere tali compagnie o di sostituirle con tante cooperative.

Queste non hanno che una piccola bontà di rimedio preparato dalla bonarietà democratica a coloro, che non essendo ricchi non sono nemmeno poveri davvero, e per aumentare il loro benessere o il loro minimo lusso hanno bisogno di non pagare la decima al piccolo commercio o alla grande industria. Idea e funzione certamente utili, ma come tutte le idee critiche e le funzioni artificiali, senza nè originalità, nè forza di creazione. Quelli, e sono molti nell’attuale periodo di ascensione plebea, che veggono nella cooperazione e nelle cooperative un modo per trasformare produzione e distribuzione, sottraendolo alla spietata dialettica dell’egoismo e purificandole in una più alta equazione dell’uomo al cittadino, non fanno che risognare l’eterno idillio di una società senz’altra guerra che la gara generosa del dovere. Così la guerra cesserebbe nella vita, mentre invece ne è l’essenza: i suoi modi possono attenuarsi e la sua passione ingentilirsi, ma la guerra non finirà!

Le cooperative hanno però provato che il dovere sociale può creare nel campo appunto più sterile: da molti anni le cooperative vivono e crescono, una poesia mattinale le circonda, la legge le privilegia, il costume le aiuta; i socialisti le vantano come un primo saggio delle loro affermazioni, i reazionari le sostengono come un rifugio contro le incomposte demenze delle utopie; i governi affettano di esserne i padrini, i municipi parlano già di cedere ad esse i proprii maggiori servigi. Ed anche tale prova probabilmente dovrà essere fatta.

Ma l’inferiorità organica delle cooperative non permetterà mai loro di sostituire gli organi creati dal genio istintivo della vita.

Già un decadimento comincia a manifestarsi.

Le cooperative di produzione fallirono quasi tutte o vissero per la fortuna di qualche effimero privilegio legale o naturale; quelle di lavoro ammalarono politicamente servendo come istrumento ai partiti e discendendo nell’elezione del comando quasi tutta la scala dell’inferiorità. I soci più aumentarono di numero e più scemarono di valore, poichè i peggiori individui respinti dalla selezione della concorrenza vi entravano più facilmente degli ottimi, che la stessa concorrenza tende ad accaparrare costantemente; quindi nella forma parlamentare del loro governo la maggioranza rappresentata dagli inferiori condanna già le cooperative a non poter lottare coi lavoratori liberi assoldati dai liberi intraprenditori. Le cooperative hanno la media più bassa nella potenzialità del lavoro: il suo limite nei soci aggruppati dall’istinto della debolezza è il più vicino, giacchè i più pigri, gl’inabili, compongono e comporranno sempre la maggioranza. Già le cooperative non potendo nè scegliere prima nè vagliare poi, cacciando almeno i soci più tristi, arrivarono troppo presto alla necessità di proporre nell’eccesso del numero i proprii lavoratori per turno. E allora tutti, anche i pessimi, furono possibili, ma il livello abbassandosi toccò quasi il fondo.

Intanto un’idea politica aiutava; i governi largheggiano colle cooperative e simulando la neutralità nella lotta fra capitale e lavoro appoggiano spesso le loro pretese: la borghesia prigioniera del proprio danaro non ha quasi più resistenza, la plebe esaltata dalle prime vittorie tumultua ad ogni pretesto, guadagnando sulla paura ciò che la ragione non potrebbe dare.

Commercio e industria salgono invece in una diuturna creazione.

Nessun’epoca antica vide mai tanta ricchezza e più miracolosa potenza ne’ suoi organi. La libertà assoluta del danaro e dell’individuo decisero nella seconda metà del secolo XIX questo trionfo della attività mondiale; nella politica di ogni governo i motivi industriali e commerciali primeggiano, l’agricoltura stessa si trasforma in industria e nella gara colle altre perde dell’antica importanza, appunto perchè non può al pari di essa spostare le proprie forze. Tale immenso moto, che attinse già i paesi più lontani nella geografia e nella storia, è la grande gloria della libera individualità moderna: per un prodigio di volontà e di pensiero coloro, che la rivoluzione emancipava nelle nazioni più progredite, poterono non solo mantenersi pari al nuovo compito nazionale, ma gittandosi con lirica audacia oltre tutti i confini ritentare la più profonda e vasta conquista del mondo.

Basterebbe tale trionfo a fare dell’industrialismo un principio creatore pari a quello delle epoche più grandi.

Ma tutto concorse all’improvvisazione di questo capolavoro, l’arte come la scienza, gli eroismi come le infamie della politica, le virtù e maggiormente forse i vizii della libertà, soprattutto l’onnipotenza dell’egoismo individuale alzato dal diritto moderno a sovranità.

Non si può nella vita accettando il risultato respingerne i mezzi necessarii: non bisogna nella tristezza della critica morale condannare la modernità, perchè nei suoi modi trionfano ancora le parti inferiori della nostra natura.

La vita è creazione, e nella creazione i modi si pareggiano: vi è forse gradazione di valore nella materia che ci compone? Vi sarà mai selezione possibile fra i modi della storia? Ne dubito. In questa come nella vita la bontà di un risultato non si esprime nel miglioramento di coloro, che vi cooperano, ma da quello che ne risulta alla massa: mentre la purificazione spirituale si compie soltanto nell’alto, tra i migliori individui, è lecito, anzi doveroso sperare che il loro numero aumenti; lusingarsi invece che nella lotta universale degli interessi e delle forme possa dominare la norma morale del duello cavalleresco, l’accordo dell’amicizia o almeno soltanto un’intesa fra soci, è ancora fanciullesco e non diventerà mai virile.

Adesso le simpatie e i privilegi, che circondano le cooperative come veli intorno alla cuna di un bambino lungamente invocato nelle solitudini dell’amore, sono già una prova della loro bontà: una nuova aristocrazia cresce dalla rinuncia al guadagno nel lavoro individuale. Una solidarietà umana, fatta di sentimento e di riflessione, vi sostituisce l’antico egoismo: l’idea di concordare gli sforzi per sottrarre i deboli all’oppressione dei forti, pareggiando fra i deboli stessi le differenze naturali, è forse la più profonda fra le idee morali. I primi fondatori di una cooperativa furono certamente un gruppo di poeti e di sacerdoti, che nel campo commerciale invece della bottega alzavano un tempio; ma se molti illustri economisti avevano già vantata l’onnipotenza di tale idea, la sua era piuttosto una forza morale che economica. La forma invece resterà come una delle più belle originalità del secolo XIX.

Dentro di essa, senza nè attrazione nè sanzione religiosa, uomini diversi per indole, antagonisti per interesse, si saranno accordati in un servigio reciproco, al di fuori di ogni gara, al disopra di ogni primazia: se gl’inevitabili vizii umani e la prevalenza degl’inferiori vi produssero subito enormi guasti compromettendone la vita, questa nullameno resiste ancora e prospera. Una nobiltà moderna la sostiene, senza alcun orgoglio di patriziato, senza esaltazione di eroismo. Nella migliore epoca cristiana coloro, che si votavano al servigio degli altri, avevano quasi sempre bisogno di negare il mondo dissolvendone le leggi in un precetto divino: così la storia vide i miracoli della santità nei volontari della croce. Oggi la prova è più facile: si crede buona la vita, i migliori senza rinunziare alla guerra umana stringono sopra un punto una tregua a beneficio dei più deboli.

Bisogna essere alteri, levare alti gli auguri.

Quando rispuntano i fiori l’estate non può essere lontana. Se la fratellanza universale non è nemmeno un sogno, perchè i sogni debbono avere anch’essi una qualche realtà, negli individui questo senso della solidarietà istintiva si dilata e si innalza: tutti sentono già il bisogno di simularla maggiore che non sia.

Forse ogni fisonomia nella folla cominciò sempre coll’essere una maschera: non importa. L’uomo è così fatto che la verità, quando non può salire dal fondo del suo spirito, vi penetra dall’esterno e vi discende; l’uomo vede, ripete senza capire, imita, si abitua e finisce col fare ciò che indarno si sarebbe voluto persuadergli. Il mimetismo è la legge di educazione per gl’inferiori.

Così la nuova aristocrazia avrà fondato nelle cooperative il suo primo ordine cavalleresco collo stesso motto delle feudalità «par paribus»: ma questa volta la parità invece di essere fra padroni sarà stata fra liberi.

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