CAP. XIII. La lotta per la vita.

Questa lotta, alla quale Darwin potè quasi dare il proprio nome, arrivando ultimo in una serie di scienziati a rinnovare il concetto della natura, e che dalla natura fu costretto malgrado ogni riserva a riconoscere nella storia, è davvero la legge della vita nell’una e nell’altra? L’evoluzione sostituita alla creazione risolve nel nostro spirito il problema delle origini e delle apparenze? Quale è il posto che l’uomo occupa nell’universo? Quale davvero in lui il pensiero inevitabile di sè stesso?

Il suo primato pareva avvinto a quello della terra: bisognava che esso fosse il centro della vita, perchè lo spirito umano potesse darle una coscienza e la regalità di un pensiero capace di affermare l’infinito e di conoscere Dio. Tutte le antiche grandi religioni esprimono questo concetto: nella nostra terra sola si rivela il segreto della creazione, sul suo teatro soltanto l’uomo svolge il proprio dramma dentro l’evidenza di una legge, e nella rivolta della sua volontà a questa legge medesima. Il resto, all’intorno, nelle solitudini dell’azzurro, attraverso gli oceani delle stelle, tra le fiamme dei soli e sotto l’ombra delle notti, non è che decorazione. Quando Galileo delucidando la parola di Copernico detronizzò la terra, la chiesa cristiana si sentì mortalmente ferita e colpì, ma troppo tardi, il bestemmiatore: la decadenza della terra trascinava fatalmente quella dell’uomo. Quindi le coscienze urlarono di paura, mentre le menti più temerarie si gettavano passionatamente innanzi a scoprire qualche nuova verità nell’universo così dilatato. E le ipotesi fiorirono intorno alla nuova idea.

Disperso Dio, ridotta la terra ad un satellite del sole, l’uomo ricaduto nella serie animale, parve che lo spirito stesso naufragasse nella natura: questa solamente, più misteriosa ancora del vecchio Dio, più potente di lui, eterna, infinita, creava la vita e le sue forme, non arrivando che sino all’uomo; ma anche in lui, il più perfetto fra tutte, il pensiero non era che un risultato di alcune combinazioni, effimero, inintelligibile, senz’altra verità in sè stesso che la inutilità del proprio giuoco.

Però tutte le religioni e tutte le filosofie resistettero con uguale sicurezza a questa distruzione.

La pluralità dei mondi, raddoppiando il mistero del nostro, non tolse il significato nella sua natura e non prevalse sulle leggi del nostro spirito: la graziosa puerilità della genesi nel mito mosaico vanendo sotto i soffi della critica, che sembrava accanirsi goffamente con una violenza di uragano contro il tenue prodigio di una bolla di sapone, lasciò intatta la pregiudiziale di una logica realizzata nel mondo e quindi preesistente come necessità; Dio spogliandosi delle vesti umane che l’uomo gli aveva gittato sopra, si allontanò senza che la sua idea tramontasse nel nostro pensiero, e la nostra azione potesse sottrarsi al giudizio della legge incancellabile nella nostra coscienza. Poi scienza e religione si ricomposero in pace; questa seguitò ad affermare oltre il limite, al quale quella si arrestava; l’una proseguì le indagini dentro al mistero con eroica caparbietà e vantandosi tratto tratto di averlo dissipato; l’altra seguitò ad accendere nel mistero tutte le proprie fiaccole, gridando trionfalmente alla rivelazione nell’agitarsi di ogni ombra.

Adesso l’uomo si ripete ancora: chi sono dunque? quale è il mio posto nell’universo?.

La pluralità dei mondi, sulla quale mediocri letterati della scienza e piccoli poeti dell’arte hanno tessuto tante fole recenti, riproducendovi la nostra esistenza nella privazione o nella esagerazione di qualche elemento, non pare più agli ultimi studii capace di ospitare la nostra vita, e nemmeno di produrne un’altra simile a quella della natura terrena. Non si crede più al numero infinito delle stelle, ma il loro immenso arcipelago, tagliato dal cerchio equatoriale della via lattea, è una massa unica, finita, nel mare senza sponda dello spazio, sotto l’occhio del tempo: si era notato, e lord Kelvin lo dimostrò coi calcoli, che se il numero delle stelle senza grandi variazioni nelle distanze si moltiplicasse oltre quelle visibili o delle quali si può avere un ragguaglio diretto, la forza di gravità verso il centro dovrebbe produrre un movimento più rapido di quello, che le stelle hanno generalmente. Il nostro sistema solare si trova quasi al centro. Senza dubbio bisogna riferire a questa prima posizione il meraviglioso armonico intreccio di condizioni propizie alla vita sulla terra, e quindi i rapporti della sua massa, del suo volume, la distanza dal sole, l’inclinazione dell’asse sulla eclittica, la distribuzione dei mari, la formazione della atmosfera, l’elettricità atmosferica, per la quale soltanto sono possibili le forme superiori della vita. Nessuno degli altri pianeti insiste il Wallace, antico darviniano, presenta un’armonia egualmente fortunata di combinazioni: Marte troppo piccolo non può contenere vapori acquei, Venere gira sul proprio asse in un tempo uguale a quello, che impiega nel suo movimento di rivoluzione intorno al sole. La terra sola era dunque l’area predestinata alla vita; nessun pianeta, le cui fasi non siano sincrone a quelle della terra e il cui sviluppo si effettui troppo lentamente o celermente, potrebbe accogliere la vita.

Così tutta 1’esistenza del sole come propagatore di luce e di calore fu necessaria alla nostra possibilità sulla terra.

È vero?

Al pari di ogni scienza l’astronomia afferma o nega troppo facilmente in se stessa; le osservazioni sullo stato e sulla natura dei pianeti non sono che sensazioni filtrate da un telescopio e rettificate da un ragionamento analogico, nel quale è difficile, forse impossibile, sottrarci alle suggestioni della vita, quale soltanto la sentiamo in noi e fuori di noi: quindi le conclusioni si alzano sempre dalla stessa ipotesi, che quanto appare nel raggio del nostro migliore esame sia identico a quanto ne è fuori, e il dubbio delle lontane apparenze si possa risolvere colla somiglianza di aspetti circostanti.

Certamente questa smentita della più nuova scienza alla scienza di ieri, e che pare un’eco sonante dagli intercolonnii della bibbia, turberà molte coscienze tranquille nella pluralità dei mondi, per la quale la vita migrava di pianeta in pianeta senza sapere mai il proprio scopo, senza una relazione cosciente da stazione a stazione. Questo infinito materiale, restringendosi alla immensità di un cosmo galleggiante nello spazio e quindi limitato nel tempo, lascia agli occhi del nostro spirito riapparire il problema religioso dell’infinito, col cielo trapunto di astri come un velo sulla faccia di Dio, mentre la terra così piccola, povera, giovane, unica matrice della vita, spettatrice impassibile alla tragedia dell’uomo, ridiventa il centro e la ragione dell’universo avendo preparato nella propria creazione un corpo umano allo spirito perchè vi esprimesse una coscienza.

È vero?

L’uomo non pensa l’universo che in sè medesimo e non può non sentirsi il suo centro: malgrado la realtà della materia involontariamente la spiritualizza; poichè l’ombra del mistero lo ricinge, egli fa dell’universo visibile un’altra ombra simbolica, dalla quale traspare l’inconoscibile. La logica del nostro pensiero ne mette un’altra nell’universo, e la nostra logica ha bisogno di una finalità: il nostro spirito, che sente in se stesso le antitesi della natura, umanizzò la terra nelle prime concezioni religiose, e adesso vi ritorna disperato della propria abdicazione nella materia.

Dio sembra ancora lontano, ma l’ombra dell’uomo prolungandosi nell’infinito tornerà ad incontrarlo.

Eppure è difficile nell’altero concetto, che la terra sia il centro vitale dei cieli e l’uomo il motivo della terra, risolvere l’equazione di un così immenso universo col nostro minimo pianeta predestinato ad essere soltanto il nostro piedistallo. La prodigiosa logica delle leggi astronomiche appare troppo grande come premessa a quella che informa la vita terrena, la testimonianza degli astri troppo inutile sul nostro dramma. Se uno spirito concorda l’universo non può essere l’umano: se ci è impossibile comprendere l’universo nella nostra logica, non ci è meno impossibile sospendere la sua alla nostra esistenza riducendo le stelle ad una decorazione delle nostre notti e il sole ad un focolare dei nostri giorni.

Una nuova idea, la più grande apparsa nella storia della scienza, rivoluziona da pochi anni la fisica tentando di cancellare il vecchio concetto della materia e la materia stessa. Dietro le ultime conquiste della elettricità si afferma che la materia non è se non una manifestazione dell’energia elettrica universale, uno dei modi, coi quali gli elettroni agiscono sui nostri sensi: che la forza d’inerzia inerente alla materia è soltanto di origine elettrica, non già nell’atomo ma nell’elettrone, il quale dentro la luce potè essere constatato mille volte più piccolo dell’atomo d’idrogeno sino a ieri il più minuscolo; che non solo l’energia elettrica fa tutto, ma è tutto. L’universo diventa quindi uno spazio, nel quale un numero infinito di elettroni, piccoli turbini, roteano incessantemente isolati come nelle forme dell’energia radiante il calore e la luce, o raggruppati più o meno strettamente e stabilmente sino a formare gli atomi materiali. Alle evoluzioni e alle migrazioni degli elettroni corrispondono le manifestazioni di tutte le energie note, cosicchè la materia creduta sinora il sustrato del mondo fenomenico è appena una delle sue forme come la luce e il calore, un modo della forza, una larva dell’essere.

Il verbo creatore, che la scienza credeva di aver ucciso nella bibbia, ritorna dunque col suo soffio a dissipare tutte le teoriche rivelando un’altra volta la creazione.

Ma tale magnifico inno idealistico, che dalle ultime conclusioni della scienza compone nella ridda di un turbine per un vuoto spazio infinito il più adeguato dei simboli al nostro spirito incessantemente agitato nell’immensità di un destino misterioso, è vero? L’atomo è scomparso veramente nella propria diminuzione? Che cosa è questa energia senza una materia se non un puro spirito? E il fenomeno dell’estensione incancellabile nell’apparenza della natura e nella necessità del pensiero come spiegarlo ancora?

Tale spiritualizzazione della materia è antica in tutte le filosofie, e poichè la scienza si muta anch’essa in filosofia, appena vuole dall’esame disgregato dei fatti salire coordinando le spiegazioni in un sistema, un impeto d’illazione la trascina quasi sempre nell’ebbrezza trionfale dell’eterna irraggiungibile verità, e non si avvede che la sua logica distrugge il fatto per serbarne soltanto l’eco nella parola. Il mistero della creazione questa volta diventerebbe più profondo. Come il nostro pensiero è lo spirito della vita, l’energia è bensì lo spirito della materia, ma uno spirito divisibile, calcolabile, che ripete quindi in sè stesso i caratteri della estensione: non possiamo sorprendere il segreto finale dei suoi modi, ma sappiamo che non è il pensiero e nemmeno la vita. Senza la materia ci sarebbe impossibile pensarlo, invece cogliamo le sue qualità come quelle della materia sottoponendole egualmente al nostro intelletto: un’uguale, irreducibile antitesi è nella sua e nella nostra unione colla materia. Come il nostro pensiero ha bisogno di un corpo, la materia ha bisogno di una forza, e l’uno e l’altro compongono la vita, che la forza non basta a produrre e il pensiero a spiegare.

Che cosa è essa infatti? Nessuno potè nemmeno cominciarne la definizione; ne constatiamo gli atti, molti processi, alcune leggi, risalendo dal suo esame nel nostro pensiero, ma il principio, l’essenza, ci sfuggirono sempre e ci sfuggiranno. Nella sfera della metafisica l’eternità del mondo non ci presenta minori difficoltà della sua creazione, giacchè il problema muta diventando quello di Dio: nella sfera della scienza invece il dibattito fra creazione ed. evoluzione si presenta facile per la logica insostenibilità del concetto evolutivo. Forse più che le antitesi insolubili nell’idea della creazione fu la ribellione ai miti e ai dogmi religiosi, che decise del favore, col quale la scienza sembrò accogliere la teoria della evoluzione negando di riconoscervi soltanto un processo descrittivo e spesso arbitrario. Il lungo dibattito sull’individualità delle specie, irreducibili fra loro o salienti da una prima forma rudimentale a differenziarsi su ogni punto nella più miracolosa varietà, non era che secondario. Nella natura il passaggio della materia organica all’inorganica non appare visibile: un abisso sembra separare questi due mondi, la vita incomincia senza precedenti, in mezzo a tutte le forze, e senza che alcuna di esse o la loro somma bastino al suo miracolo. Invece dall’esame scientifico spingendo più innanzi nel mistero le ipotesi filosofiche sino all’affermazione che la vita sia in ogni punto e in ogni modo della materia, la difficoltà si dilata, giacchè la vita, è fatalmente individuazione pel nostro pensiero, e il principio della individualità non può uscire dalla materia. Per lo spirito ogni vivente è un individuo, che ha una materia un moto e una forma: quindi un differenziamento dovette avvenire prima nella materia producendovi tale moto e tale forma, ma in questo distinguersi della materia una necessità costringeva i suoi atomi a disporsi in certi modi, che ne producevano altri sino alla genesi di un organismo, e da questo salendo ancora per la gamma della vita sino all’altissima individualità umana.

Una logica preesiste dunque sovrana in tutte le forme, che sono sè stesse appunto per averla realizzata: noi la cogliamo ammirando dall’esame esteriore della loro struttura, ma il nostro pensiero è costretto a preammetterla per sfuggire alla ridicola conclusione, che non essendo in essa la causa intima degli organismi, questi siano il risultato di azioni e reazioni esteriori, senza logica alcuna.

La teoria dell’evoluzione infatti, annunziata da Darwin come una abbreviazione semplicista nel pensiero creatore, che avrebbe iniziata la creazione lasciandola nello sviluppo alle proprie forze e ai proprii accidenti, doveva per la sincerità stessa della illazione negare ogni logica preordinatrice per concludere ad un inintelligibile processo spontaneo di meccanica, cominciato egualmente nel mistero, proseguito fra i contraccolpi del caso. La frenesia dell’unità, questo pericolo permanente in tutte le scienze, sospingeva maestri e discepoli: le ipotesi si accumulavano sulle ipotesi. Si cominciò dall’affermare che le specie, considerate come diverse e dai naturalisti riunite in un medesimo genere, avevano un’origine comune e non formavano che tante varietà: che tutta la fauna e la flora avevano potuto provenire per la via di una generazione regolare da quattro o cinque forme primitive in ciascuno dei due regni: che tutti i vegetali e tutti gli animali derivavano da organismi primitivi somiglianti: che gli esseri viventi non contenevano alcun principio speciale, ma era una semplice trasformazione della materia organica: che l’animale era soltanto materia raggruppata in un certo modo, e l’uomo un animale con caratteri speciali, sufficienti a spiegare il suo spirito come un prodotto della materia. Invece ad ogni passo la osservazione medesima dei fatti accumulava nuove prove contrarie: la variabilità e la variazione non bastavano nemmeno a spiegare la possibilità di nuove specie, l’unione dei sessi impediva nel proprio tumulto la fissazione dei proprii caratteri, la cernita non spiegava nè lo sviluppo nè la riduzione degli organi: l’eredità non garantiva la durata delle modificazioni, la lotta per la vita non esprimeva sicuramente la vittoria del più forte. La recente teoria incapace di segnare le strade, per le quali sarebbe passata l’evoluzione degli organismi, non poteva nemmeno assicurare la sua realtà: nella paleontologia non vi era un solo fossile di transizione fra i grandi tipi del regno animale: nella geologia tutti i tipi ancora vivi furono presenti sino dalla prima epoca, e nessuno altro è poi apparso, e la loro costanza ha stancato i secoli, mentre il numero di questi rinculando non basterebbe alla possibilità del loro apparire successivo; nella embriologia le dissimiglianze si contrappongono sicure alle similarità; nella filologia la voce dell’animale non può arrivare alla parola dell’uomo. L’evoluzione lungi dallo spiegare il prodursi degli esseri doveva addentrandosi nello studio della natura affermarvi ad ogni passo una nuova legge contraria, sopprimere ogni logica o in questa accettare insieme l’idea e la forma, l’individuo e la specie: cancellare l’individualità o riconoscerla inconfondibile.

Che le specie si toccassero in differenze minime come gl’individui di una stessa specie, ciò non permetteva di concludere alla loro trasmutabilità; che il nostro intelletto non sappia dove e come lo spirito abbia avuto la visione della vita prima ancora che la natura ne realizzasse l’immane prodigio, e sia questo il più insolubile dei problemi: che il fondersi del pensiero nel cosmo plasmandolo ed animandolo ci appaia come il più tormentoso dei misteri, non basta a consentirci la sua negazione. Il mondo dura dinnanzi ai nostri occhi e alla nostra logica come un miracoloso capolavoro, che c’impone una ammirazione spaurita nel confronto di noi stessi, pur costretti a sentirci dentro di esso come il solo pensiero e l’unica coscienza.

Se l’idea e il tipo non preesistono, la teoria dell’evoluzione deve spiegare che cosa nella formazione di un corpo ne proporzioni il disegno e ne coordini la struttura, passando per la successione embrionale di molte forme sino all’assisa trionfale di una sola: se la perfezione di ogni organismo e la sua fisonomia, non sono la realizzazione di un’idea, saranno il risultato illogico del caso o di un pensiero incontrato per via. Nella prima ipotesi risorgono tutte le obbiezioni alla creazione dal nulla; nella seconda questo pensiero, che dalla semplicità della materia sospingendola, arrestandola, dividendola, sintetizzandola, le darebbe tutta la ricchezza e la bellezza della vita, è ancora più inintelligibile del pensiero creatore, perchè creerebbe egualmente senza un disegno e senza una necessità. E di dove avrebbe preso la forma? Se era dentro di lui, l’evoluzione è una creazione: se non v’era, come si produsse? Supporre nella materia tale potenzialità significa mettervi lo spirito senza il coraggio di confessarlo: sostenere la creazione come un risultato esteriore anzichè la realizzazione di un pensiero e di una logica, è un dissolvere la logica stessa del nostro pensiero nel nulla: trovare inaccettabile la creazione dei tipi e degli individui, che si moltiplicherebbero rimanendo inconfondibili, per dichiarare intelligibile il prodursi di tutte le forme naturali da un primo differenziamento nella materia, senza modelli nè dentro nè fuori, senza una logica che vigili l’esecuzione, senza una estetica che ne proporzioni le parti, senza un motivo che decida del passaggio da una forma ad un’altra, accettando invece tutte le forme, come la fioritura di una sola forma primordiale, è anche più inaccettabile.

Ma se l’evoluzione non sarebbe così che una generazione spontanea, inintelligente e tuttavia perfetta, la creazione invece presuppone l’unità di un pensiero e di una volontà: ed ecco forse la ripugnanza istintiva di molti scienziati e l’ostacolo teoretico di tutti i filosofi materialisti: entrambi temono la resurrezione del vecchio Dio dal fondo della creazione, giacchè la forza della illazione innalza la logica dalla unità alla personalità. Infatti il problema, se questa sia davvero un perfezionamento di quella, è già risolto anticipatamente nel nostro spirito costretto a sentire nella propria persona il grado più alto dell’unità.

Il problema della creazione ne evoca dunque uno più profondo: il creatore è nell’opera o fuori?

L’evoluzione, che doveva colla propria parola sostituire il verbo misterioso della creazione, ha parlato come i bambini, che per analizzare raccontano e per spiegare inventano; sarebbe fin troppo facile classificare tutti i paralogismi della sua dialettica, segnare il ritorno delle entità scolastiche nel suo gergo, i capricci nella impalcatura delle ipotesi sorgenti l’una dall’altra, la volgarità del suo metodo, che risolve i problemi col sopprimerli sostituendo quasi sempre una descrizione dello sviluppo alla spiegazione del processo. Ma il mistero della vita non si rivelerà. La creazione può essere simultanea e successiva, i tipi come gl’individui avere origini separate e comuni, i loro caratteri rinnovarsi o durare dentro le generazioni, la loro differenza essere o non essere una superiorità, mentre dietro gl’individui, oltre i tipi, al disopra e al disotto di quella che a noi appare la gamma della vita, sentiamo che questa prosegue ancora più misteriosa.

Darwin era un grande informatore, che volle essere maresciallo per dare il disegno della battaglia: il caso è più frequente nella scienza che nella guerra.

Così la sua teoria dell’evoluzione col principio della lotta per la vita e la sopravvivenza dei più atti fallì egualmente nella natura e nella storia. La lotta vi è innegabile, ma nella natura stessa, che non può avere moralità, vita e morte non sono fra loro nel rapporto presunto da Darwin. La morte è un punto d’arresto, senza il quale la vita stessa non potrebbe rinnovarsi: verifica l’identità dell’inizio colla fine, e preesiste come necessità logica all’inizio medesimo. Tutti i viventi debbono quindi compiendo la vita eseguire la morte: tutti distruggono tutti, i forti i deboli, i piccoli i grandi: le condizioni della resistenza sono preordinate nella loro struttura, il rapporto del loro numero nel numero totale sarà sempre un’enigma. Come vi è una ragione per ogni individuo, ve n’è indubbiamente un’altra più segreta nell’unità della vita e dei suoi quadri: la successione dei viventi è regolata sulle epoche della terra, la nostra esistenza sulla sua: noi rappresentiamo lo spirito, ma il nostro corpo è immerso nella natura: siamo il pensiero, ma un pensiero che sa di non poter sapere il tutto, e che pensandolo nella astrazione ne pensa soltanto il cadavere.

La lotta per la vita spiega molte apparenze, ma non la loro ascensione; la selezione dei sessi non dichiarerà mai l’unità del loro antagonismo, i rapporti ancora sorprendibili fra specie e specie non basteranno nemmeno alla spiegazione finale della più piccola fra le loro funzioni.

Non bisogna però proclamare la bancarotta della scienza, che non saprebbe farla nemmeno volendo; la sua opposizione alla religione è ridicola, la sua pretesa di sostituirsi alla filosofia costruendo nell’invisibile anche più assurda: la filosofia invece dovrà daccapo ricorreggerle il metodo per riapprenderle, che come facoltà d’intelletto essa è un’intuizione pari all’arte, e diversa dall’arte soltanto per il dovere di riprovare coll’esperimento le proprie intuizioni.

Nel sistema darwiniano la lotta per la vita doveva per necessità dialettica passare dal campo della natura in quello della storia: tutte le teorie materialistiche aiutarono tale sforzo.

La storia invece è la negazione della natura.

Se in questa la lotta pare abbandonata al capriccio delle forze e decisa dal prevalere del loro grado, nella società anche al primo inizio è evidente il contrario. L’essenza della società è la legge: nella prima legge si manifesta già una negazione della natura nel limite opposto alla volontà dei più forti per la virtù di un’astrazione comunque simboleggiata: e quel limite è il primo riparo dei deboli. Nella religione un limite superiore stringe tutti, un comando dall’alto piega le teste, una giustizia contraddice la libertà della lotta e giudica nell’assoluto qualche rapporto fra uomo e uomo. La storia è creazione dello spirito. Essa deve creare in noi con un ordine successivo di rivelazioni la nostra personalità: tutto lo spirito umano è dentro di noi, nulla o quasi ci verrà dalla natura, che presta la scena, influisce sulla tonalità delle nostre azioni, ma non ne è la causa.

Il materialismo storico è soltanto inintelligenza della storia.

Le varianti di clima, di razza, non hanno creato nulla in noi; composero soltanto in altri modi certi rapporti sociali ed intellettuali esagerando o diminuendo, ma i loro principi sono gli stessi in tutti i climi e in tutte le razze. Come la struttura logica resta una nell’umanità, così la struttura morale; spremendo tutte le religioni si trova attraverso le antitesi dei divieti la stessa essenza.

La lotta nella storia avviene per idee; generalmente si annunziano prima nella religione o nella filosofia, ridiscendono nell’istinto, risalgono a diventare interessi, perchè il loro antagonismo stesso le raffini e le maturi. Non vi sono davvero nè vincitori nè vinti nella loro guerra, tutti invece vengono del pari immolati, individui e popoli: l’edificio legislativo si alza lentamente. Dentro di esso si compie la smentita della natura, poichè nella legge gli uomini si uguagliano; ma la legge è una astrazione, ecco la forza suprema della storia. I suoi codici sono il risultato delle sue guerre, l’inventario delle vittorie dei deboli sui forti; di secolo in secolo la legge sale nell’impersonalità: di secolo in secolo la persona, che è dentro l’individuo, si rivela e si compone una vita sempre più ideale.

L’uomo comincia come un animale e finisce come uno spirito.

La sua costruzione ideale aggiunge una creazione alla creazione: i suoi edifici si alzano con linee che la natura non adopera, le sue strade congiungono le terre che essa divise, la sua arte mette un’anima in tutte le cose, la sua scienza isola le forze e le doma, stacca dal tutto una parte e v’indovina un segreto. Nella vita l’orrore della morte è istintivo, e l’anima accende nel desiderio della morte la volontà dominatrice dell’eroe: nella natura l’economia suggerisce ai forti l’immolazione dei deboli, nella storia il diritto parifica gli uni agli altri, e il sentimento più umano è la pietà: nella natura la forza è inconsapevole, nella storia invece è ideale: negli animali il più forte è quello che può resistere al maggior numero di avversari, fra gli uomini il più forte è colui che rappresenta l’idea più grande.

Nella lotta della storia tutto è mezzo e tutto è scopo come nella natura, ma a rovescio di questa il trionfo avviene fuori della storia stessa, nella pura idealità di coloro, che hanno ucciso anche l’uomo in sè medesimi e non vivono più che nello spirito.

Tutta l’educazione storica è indirizzata a negare in noi l’animale; la moralità è un titolo in noi più sicuro del pensiero stesso e il più alto contro la natura. La nostra arte infatti non vince la bellezza della sua, la nostra scienza non saprà mai ripetere il suo sistema nel proprio, la nostra filosofia essere vasta e profonda come la vita, ma la nostra libertà vi crea la virtù, che la natura non aveva potuto creare e non potrà mai intendere.

L’uomo si sente meno straniero nella storia che nella natura. Come un pellegrino egli attraversa la natura inebriandosi della sua bellezza e sanguinando ai suoi ostacoli: sa che essa soltanto può alimentarlo, ma unico fra i vivi sa ancora che tale alimento non gli basterà: la sua vita vera comincia più in alto, nel pensiero sul quale cadono le interrogazioni dell’universo, e che risponde. Sapere, volere, ecco la sua vita. Figura del mistero, egli vorrebbe lacerarlo dentro e fuori di sè: sovrano dell’idea, l’amore stesso diventa in lui spasimo di dominazione.

Prima ancora di essere superiore agli altri, l’uomo ha bisogno di superare sè stesso; la prova più terribile è in noi, col nostro pensiero, colle nostre passioni, colla carne che ci sospinge e ci resiste, nello spirito che s’illude e ci delude. In ognuno di noi, nella nostra breve biografia si ricondensa tutta la storia dell’umanità; soffriamo nel suo passato e nel suo avvenire, sentiamo la nostalgia dei morti e dei non nati; siamo l’effimero che invoca l’eterno, un corridore della notte, che agita nella mano una fiaccola ed urla di spasimo, quando la sua fiamma gli batte sugli occhi.

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