CAP. XV. La crisi cristiana.

Questa sarà storica; invece quella esaurita nella seconda metà del secolo XIX fu critica, fra polemiche incomparabili di pensiero e di forma.

Nell’improvviso, quasi irresistibile fiorire delle idee materialistiche, era impossibile al cristianesimo evitare una nuova guerra, giacchè doveva apparire non solo una fra le più belle incarnazioni dell’ideale, ma quasi tutto il deposito dell’autorità umana e divina. I suoi dogmi, i suoi riti, le sue discipline, l’infallibilità del papa quale conseguenza della rivelazione, la sua inesausta potenza di conquista, la sua gloria di duemila anni, le estreme sconfitte che lo ricacciavano dai campi usurpati nella politica entro i confini religiosi, eccitarono la passione della battaglia e produssero una fra le più ammirabili guerre della sua esistenza.

Il bando uscì dalla scuola di Tubinga, che esorbitando dal protestantesimo, pel quale era stata una fortezza, attaccava nel libero esame tuto il cristianesimo affermando di sottometterlo colla impersonalità della critica alla esegesi di ogni altra storia.

E infatti mai la critica apparve più profonda e più ricca: tutti i problemi, tutti i testi, tutte le ipotesi furono vagliate, discusse; pareva, ed era forse vero, che la passione religiosa ardesse più viva negli assalitori che nei difensori, ma l’imparzialità mancava come sempre in ogni questione di fede.

Anzitutto la scienza storica presumeva troppo di sè stessa; era quello il tempo della sua grande illusione nel documento e nell’erudizione, si pretendeva coll’uno e coll’altra di penetrare tutti i segreti e di ricostruire tutte le epoche: invece la storia non sarà mai che filosofia ed arte, l’esposizione del sistema ideale, che i fatti verificarono, e una intuizione dei grandi caratteri, che si atteggiarono nei fatti stessi. Ricostruzione e resurrezione invece resteranno sempre egualmente impossibili: ogni documento è separato, aneddotico, quindi parziale, insufficiente: non esprime nemmeno l’uomo che vi appare: è un atto o un giudizio frammentario, un’espressione dell’effimero, un moto dell’illusione, che guidava un individuo o una generazione. Una massa di documenti, per quanto grande, è assurdamente piccola nel confronto dei fatti nel periodo, che si vorrebbe evocare: tutta la somma delle sue massime e delle sue minime biografie non potrebbe darne il carattere generale esprimendo il suo segreto. Bisogna consultare i documenti, non chiedere ad essi la storia. Questa non potrà mai essere vera, se non nei magni fatti e nelle massime idee, che non hanno quasi necessità di documento: la spiegazione di un’epoca è dentro le sue precedenti e conseguenti, nella linea, che forma appunto la spira della storia. Il resto è materia di romanzo, materia viva, nella quale il genio storico coll’intuizione artistica può attingere molti segreti della bellezza e della verità: non altro.

La nuova critica al cristianesimo si divise in due scuole, l’una capeggiata dallo Strauss, l’altra dal Renan: pel primo la figura di Cristo era mitica, per l’altro artistica, quegli scrisse un trattato e questi un romanzo, entrambi un capolavoro. La scienza dello Strauss fu giudicata più solida, la dottrina di Renan più penetrante; il tedesco educato alla scuola di Hegel era fra tutti il più terribile polemista, il francese era un grande poeta senza il dono del verso, un artista della parola forse più squisito di Platone, uno scettico che risognava la fede perduta, un retore rimasto perfetto nel gusto, un apostata inconciliabile con tutte le opinioni dominanti, e che la solitudine della vita sembrava aver preparato alla imparzialità.

Ma le ricerche sulle origini del cristianesimo rimasero quasi impossibili: la storia non è mai davvero storia nelle origini, e fra queste le più insondabili sono appunto le prime di tutte le religioni. I loro più vecchi documenti sono assai posteriori al giorno, nel quale suonò la loro parola e la loro azione si fece visibile; un’ombra, come un vapore sacro, le involge, i fondatori sono grandi anime, che pronunciano grandi parole; non somigliano agli altri potenti, anzi davanti a questi non appaiono mai quali sono, quasi sempre soltanto i piccoli e gli umili li intendono: passano, operano, trasformano, muoiono, e dopo crescono in una trasfigurazione, che rende irriconoscibile la loro vita. La religione è il pensiero del mistero e dal mistero rampolla; il suo carattere risalta nella moralità imposta all’opera umana, la sua idea si rivela nel sistema dei dogmi espressi dai suoi riti. Una religione non è tale se non si afferma rivelazione divina; domandarle conto della propria origine, sarebbe come chiedere le prove alla bellezza; il cristianesimo era la più alta fra le religioni della storia, ma le sue forme documentabili non avrebbero mai potuto provare nè la sua rivelazione divina, nè il suo primo sviluppo umano. Nelle religioni si crede o non si crede: per la filosofia esse sono la rappresentazione poetica di un sistema e di una espressione del divino, la quale deve pretendere alla materiale verità dei propri simboli e vantarsi di avere in tutto la più precisa certezza; quindi il cristianesimo contenuto intero nel dogma della incarnazione non doveva dimostrare nè la divinità nè l’umanità di Gesù. La critica ne avrebbe però cercato egualmente invano le prove contrarie. La grande figura messianica doveva resistere alle pretese della erudizione, che voleva ricondurla al proprio inizio: spiegarla colla formazione dei miti, come tentò Strauss, era impossibile, perchè quella non era più un’epoca mitica. Negare nel cristianesimo la realtà di una prima figura era un rinnovare nella religione il principio contradditorio della creazione dal nulla, e un poggiare il massimo degli edificii storici sopra una vuota parola: invece rimettendo in un romanzo la figura di Gesù si fissava un bel sogno di poeta, ma di poeta nè lirico nè drammatico veramente, giacchè nell’un caso e nell’altro l’istinto della parola e della figura gliene avrebbero resa sensibile l’impossibilità. Così Gesù nel nuovo romanzo riuscì inaccettabile, non abbastanza reale per una cronaca, non abbastanza vero nell’immensità dell’opera, che porta il suo nome. Egli ha sollevato il mondo e lo domina ancora; le proporzioni della sua figura non si possono più restringere in quelle di un individuo nazareno, la trasfigurazione della poesia e della gloria non permette di vedere l’uomo in lui: nella propria religione egli è tutta l’umanità, il solo Dio, che il cuore umano adesso possa amare. Attraverso i racconti del vangelo passa sulla terra come uno straniero, che sdegna di conoscerla e che essa non può conoscere: i suoi apostoli sono degli ignoti, i suoi credenti degli ignari: egli non pronuncia una parola dotta, e le sue parole hanno il dono della creazione; nega tutto il mondo e non vi fonda nulla, di sè non lascia nè una linea nè una riga. Muore. Ma un secolo dopo egli è il Dio invincibile della nuova umanità, tutto piega davanti a lui, tutti si convertono: le civiltà di Grecia e di Roma, i barbari del Nord e del Sud. La sua religione organizza il proprio sistema, disegna le prime figure e superando in esse tutte le vecchie arti appare così originale che il mondo le grida: credo!

La critica storica non poteva sezionare tali origini e tali figure, poi negava a priori concludendo il processo prima di averlo incominciato. Come le analisi chimiche non sanno dare l’ultima essenza dei corpi, così gli esami critici non sorprenderanno mai l’anima di una rappresentazione.

Cristo e il cristianesimo uscirono intatti dalla crisi.

Certamente molto resterà di tale sforzo prodigioso nella disciplina del metodo e nell’acume dell’investigazione; la chiesa stessa vi guadagnò la correzione di molti errori e la possibilità di più alte interpretazioni, ma la scienza storica vi fallì giustamente. Spesso le pretese sistematiche la trascinarono sino alle puerilità nella dottrina e nella dialettica; a forza di analizzare si inventò, alla imparzialità successe la più appassionata partigianeria, mentre il problema storico si veniva insensibilmente mutando nell’eterno conflitto tra filosofia e religione. Adesso una tregua pare annunciata e Harnack, il più illustre fra gli ultimi esegeti, cancellando la conclusione di Strauss e di Renan, riconcede la credibilità ai primi racconti e alle prime leggende cristiane. Questa vittoria esalta già la vecchia fede che si sente intorno un aiuto dalla reazione ideale contro tutte le iattanze del materialismo filosofico e scientifico. Intanto il cattolicismo libero dai vincoli del suo estremo regno mondano prosegue la trionfale rivincita contro i propri scismi; da secoli questi si arrestarono e non poterono più mantenere l’offensiva: la loro inferiorità teorica, il difetto supremo di unità, lo stesso pregio liberale di aver diminuito lo spessore degli intermediarii fra uomo e Dio, assicuravano già la vittoria finale al cattolicismo. In questo soltanto è rimasta la grande poesia cristiana; il protestantesimo invece inaridisce nella prosa e stagna in una morale efficace sul costume, ma senza nè delicatezza nè tragicità di eroismo; nel cattolicismo solo il problema dell’autorità è risolto così da ridare la calma alle anime ansanti nel dubbio. Nelle moltitudini l’antichità della religione è profondo motivo di fede, e le eresie protestanti sono troppo documentate nella storia per esercitare sulle anime la seduzione del mistero; poi il cattolicismo solo è veramente cattolico, ha una politica e istituti mondiali di guerra e di pace, una potenza creatrice di arte, una mitologia di semidei per tutte le miserie del corpo e le esaltazioni dell’anima, giacchè la prima mediazione di Gesù si raddoppiò in quella della madre, moltiplicandosi come per una meravigliosa generazione spontanea nei martiri e nei santi di ogni tempo. Dopo aver distrutto l’impero romano e domato i barbari, il cattolicismo resistette all’espansione maomettana salvando una seconda volta l’Europa: vi educò tutte le monarchie, parve naufragare fra guerre e scismi, soccombere alla originalità cosmopolita del rinascimento, al trionfo della scienza che rinnovava il concetto della natura, consumarsi nel grande incendio della rivoluzione francese; ma intanto aveva già conquistato nell’America un continente ben più grande dell’Europa, e con instancabile prontezza ripreparava dentro le vecchie forme un nuovo adattamento alla democrazia moderna.

Solo la filosofia Hegeliana superò il cattolicismo dissolvendone i dogmi e le figure nella propria idea, ma se questo non seppe opporre un rivale al filosofo tedesco, il più grande nella storia, legittimando così il sospetto di una prima insufficienza ideale, poco sofferse nella coscienza delle genti. Quell’assalto era dato sopra cime troppo alte, invisibili dalle bassure, con armi quasi mute nella sottigliezza del taglio: poi l’hegelianesimo era una metafisica, e le religioni non soccombono che alle religioni. Superare una religione non è vincerla, bisogna invece sostituirla.

Ma Hegel non poteva succedere a Gesù.

Così dopo aver affermato nel cristianesimo la religione definitiva dell’umanità, sostenne nel protestantesimo la migliore correzione del cattolicismo malgrado l’evidente inferiorità storica. Il protestantesimo è adesso senza espansione e senza milizia; il suo clero ha perduto nella religione più che non abbia guadagnato col patrimonio nella famiglia: la sua opera infatti risottomettendosi alla legge della generazione umana non seppe più risalire nella generazione divina; i suoi sacerdoti, mariti e padri, dissimili da Gesù, non poterono più compiere i miracoli della paternità spirituale.

Ogni abbassamento dell’ideale si risolve sempre in una nuova debolezza della vita; ma se il protestantesimo volendo il proprio sacerdozio più umano non riuscì che a materializzarlo, il cattolicismo pur mantenendo fieramente il proprio ideale non potè in sè medesimo alimentare la forza morale necessaria a sostenere il proprio clero nella divina dignità dell’ufficio. Adesso ancora nessuna milizia sotto la superba apparenza del numero e delle armi è più debole della cattolica; la sua disciplina pare severa, ma l’inerzia sola impedisce che si rompa, la sua coltura ha perduto il senso dell’antico e non ancora ha appreso quello della modernità: l’esercizio divino è quasi diventato una professione, la troppa lunga difesa del potere temporale degradò ogni interpretazione, gli ordini monastici sono ospizi e accademie, l’alto clero non ammaestra e non comanda; non si veggono più eroi, non si rinnovano più i santi. Quelli, che la chiesa sollevò recentemente sugli altari, erano quasi tutti oscuri missionari morti fra i barbari della preistoria vivente, i pochi altri non espressero come una volta la santità del loro tempo. La modernità è senza santi e senza arte religiosa; le ultime chiese, gli ultimi libri, le ultime devozioni significano fin troppo la pericolosa inferiorità del cattolicismo davanti a sè stesso. Ma la sua unità è ancora intatta e la sua opera di conquista prosegue. Se la sua dottrina non ebbe molto a soffrire dagli attacchi della scienza, la sua bellezza invece scomparve quasi nella volgarità di un clero, che non si sente più responsabile nel dolore umano e nel pensiero divino: non una figura originale brilla da gran tempo fra gli incensi cattolici: nessuna voce aduna più le genti nella pietà come la voce di S. Francesco, che consolava gli inconsolabili e metteva nei cuori felici la nostalgia dei dolori ideali: nessun silenzio purificatore si espande più da un viso pallido come quello di S. Luigi Gonzaga, che disciolse nella castità come in una luce tutto quanto pesa sulla vita umana: nessun grido di angoscia trionfale traversa la caligine dello spirito, come quelli che S. Teresa gridava a Gesù nella febbre di una passione accesa da tutto l’amore umano, inestinguibile anche nell’amore divino. Nessun eroe, nessun martire ci ha ancora dato il segreto della vittoria sulla nostra vita di oggi.

L’idolatria, questo linguaggio di tutte le religioni, nell’ultimo tempo cattolico è diventata un dialetto ancora più impuro che ignobile: gli estremi miracoli gettati alla moltitudine furono senza poesia nel motivo e senza dignità nella rappresentazione.

Tuttavia nel ritorno dello spiritualismo qualche cosa si rinnova anche nel vecchio spirito cattolico; la sua immobilità politica si scuote, l’urlo della folla, che sale a branchi minacciando, osannando, l’erta della storia, ridesta dal lungo sonno le parole di Gesù.

Ma se il cattolicismo porta solo in sè medesimo la responsabilità del cristianesimo, e dovrà dare alla modernità lo spettacolo di una rinnovazione riaccordando la propria opera a quella della democrazia per stabilire nel costume l’uguaglianza soltanto affermata nelle leggi, un’altra più terribile crisi l’attende su tutti i confini della sua conquista.

Il problema della religione sarà sempre per gli uomini il più profondo ed il più appassionato.

Adesso il problema immediato della religione è nel cristianesimo: questo diventerà davvero universale, sconfiggendo e sostituendo tutte le altre grandi religioni? È davvero la religione definitiva dell’umanità, o dal suo dualismo uscirà un’altra forma? Se la prima del Padre si compose nel mosaismo e la seconda del Figlio nel cristianesimo, vi sarà una terza religione dello Spirito?

Questo libro non può nè deve mirare così lontano e così alto.

Sono come un pellegrino ritto sul lido, che guarda le navi allontanarsi nella minaccia dell’ombra, e cerca collo sguardo le ultime vie aperte dai raggi del sole.

Nessuna delle grandi religioni storiche è oggi problema universale all’infuori del cristianesimo. Per quanto la cattolicità del suo impero sia soltanto formale, esso è unanimemente creduto degno di tentare la conquista del mondo; le altre religioni sono già vinte e lo confessano nell’inerzia, il cristianesimo invece deve subire la prova suprema. La sua diffusione mediterranea fu aiutata dalla civiltà greco-romana, l’individualità barbarica del nord si adattò meravigliosamente alla nuova individualità cristiana, nell’America non vi fu trionfo, perchè la nostra razza vi distrusse le indigene, nell’Asia il maomettanesimo vinse e il cristianesimo fallì. I suoi apostoli non vi lasciarono traccia; dopo secoli e secoli i missionari non vi apersero una breccia così larga che lo spirito europeo potesse passarvi; ma adesso tutte le barriere asiatiche sono cadute, e la nostra politica, la scienza, il commercio, l’industria discendono a tutti i porti d’oriente, violano i confini, soggiogano, mutano la millenaria civiltà gialla. La parola di Gesù perchè non vincerebbe quella di Brahama e di Buddha, di Confucio e di Lao-tse? La prova è inevitabile e decisiva: se il cristianesimo non conquista tutto il resto del mondo, vi perderà il proprio primato; una religione parziale è una religione insufficiente. Prima, nella difficoltà dei contatti e della propaganda, la cattolicità formale poteva bastare al cristianesimo; domani tutta la critica scientifica affermerebbe nella sua sconfitta la prima inferiorità europea nel confronto coll’Asia. La superiorità di un popolo si esprime nei principii e nelle forme più alte, quindi la religione della razza bianca deve sostituire tutte le altre attardate nell’oriente, come la nostra scienza vi dissipa colle prime rivelazioni il millenario empirismo, o la nostra scienza sarà più vera della nostra religione.

Certamente il problema è grande. Quasi duemila anni di sforzi inutili pesano sulla coscienza cristiana, le scuse storiche delle difficoltà maggiori in Asia che altrove non hanno abbastanza credibilità per soffocare l’accusa, giacchè le correnti ideali non s’arrestano a confini e superano tutti gli ostacoli. Ma non si può nemmeno proclamare anticipatamente la sconfitta cristiana. Forse la perdita del minimo regno temporale fu un primo inconsapevole modo di preparazione alla grande guerra; l’apparente contraddizione della libertà democratica, che scaccia la chiesa da tutti gli ordini civili come in Francia, negando al sacerdote l’uguaglianza del cittadino, è anch’essa un sintomo di rinnovazione, perchè bisogna sentire la paura di perdere tutto per prorompere alla passione di tutto conquistare.

Non perdere la modernità e convertire quanti barbari ha ancora la storia: ecco il nuovo problema cristiano. Le vecchie milizie acquartierate nei conventi vi oziano senza pensiero e vi dormono senza sogni: nessuno aspetta la diana, i confini sono troppo remoti, la vita della penitenza meno aspra forse di quella del peccato. Chi vigila nell’ombra? Quando un raggio battendo sulle vetriate di una cattedrale farà dunque voltare tutte le teste come uno squillo? La guerra è vicina: domani forse l’ideale riaprirà le grandi ali bianche in alto, dove l’azzurro traluce e una linea quasi invisibile appare come un’altra sponda.

Nessuno può dire che cosa prepari alla storia la magnifica vitalità cristiana: l’epoca sarà ancora lunga, una terza religione dello Spirito, già balenata alla fantasia di antichi eresiarchi, gravemente discussa da qualche moderno filosofo, non è ancora nella nostra vita un quesito. Hegel, contraddicendo la trinità del proprio principio, l’avrebbe stranamente negata a favore del cristianesimo, nel quale tutta l’azione religiosa si arresterebbe al secondo termine; non era quindi difficile per la critica contestare al grande pensatore la violenza dialettica di tale affermazione, meno difficile ancora a quelli, che sognano invece di pensare, un qualche annunzio profetico su questa terza religione dello Spirito.

Nulla invece è più impossibile che il cogliere le prime linee e le prime modulazioni di una religione fra la musica di tutte le altre e l’ondeggiamento della vita quotidiana.

L’umanità non compie che a distanza di millennii lo sforzo di una creazione religiosa; nessuno può adesso affermare se l’umanità abbia ancora nel proprio grembo la potenza di partorire un altro Dio.

Gesù vinse ieri contro coloro che cercavano nell’ombra della sua vita e della sua morte motivi contro la verità del suo avvento; creduli ed increduli, nessuno sa sottrarsi all’incanto della sua figura, nessun dolore ha rinunciato sinceramente al fascino della sua promessa. Lungamente egli sarà il Dio di tutti quelli che credono perchè soffrono e soffrono perchè sono buoni: per quanto stanca, la terra cristiana solleva ancora intorno alla sua croce i gigli della purità e le rose del pentimento; invece lungi, oltre i suoi confini, nè la poesia nè la scienza moderna seppero crescere un fiore.

La grande potenza cristiana si rivela a due segni: nessuna religione osa attaccarla, mentre essa mantiene l’offensiva contro tutte: la sua morale è rimasta intatta in ogni anima incredula, senza che nessuna filosofia abbia saputo, nonchè fondare, accennarne un’altra. Meglio ancora, il più acclamato condottiero del positivismo, Herbert Spencer, morente confessò nelle ultime pagine che la morale non è trasmissibile senza una religione. A quanti negano per odio antico il cristianesimo è necessario quindi negare indarno la religiosità dello spirito umano.

Se il cristianesimo non è secondo l’altera affermazione di Hegel la religione definitiva dell’umanità, oggi ancora si mantiene la più universale e la più alta; per uscirne bisogna superarlo colla filosofia, per vincerlo sostituirgli una più profonda religione.

Preferire non significa nulla, negare meno ancora.

Tutto o quasi è cristiano nel mondo moderno. Sotto le raffiche dell’incredulità, dentro l’espansione inebbriante della ricchezza, fra la gloria e la potenza della nuova coltura, le anime tornano a sentire la nausea del mondo e si rifugiano nei conventi. Il loro numero cresce infatti dovunque, si moltiplica paradossalmente nell’America senza che uno solo dei vecchi ordini cada, mentre altri con nomi ignoti avanzano in falangi serrate. La volgarità dell’ottimismo positivista irrita i grandi dolori, che una falsa scienza pretende di segnare nei cataloghi clinici; l’ideale terreno si è impicciolito colla terra, e non basta più nè a coloro che pensano, nè a coloro che amano.

Le anime origliano per intendere una nuova voce: donde verrà dunque l’ideale?

Il cristianesimo aveva nobilitata la tragedia umana: ecco perchè tutti amano ancora Gesù.

Egli è crocifisso in tutti i cuori; gl’increduli sentono in lui che il dolore può essere consolato soltanto dalla propria grandezza, i credenti salgono in lui fino alla redenzione dalla colpa, al trionfo del sacrificio.

Non cacciatelo dunque dai tribunali, perchè la giustizia non è vera che in un sogno divino: lasciatelo negli ospedali sul letto dei morenti, perchè la sua promessa sola può placare la loro suprema disperazione davanti all’inutilità della vita e della morte.

A lui gridano anche i morti dentro di noi: egli è il vivo della speranza, che incorona le culle e i sepolcri, il Dio di tutti coloro, ai quali la morte non basta contro il dolore.

Hanno torto? non lo so: ma chi potrebbe affermarlo?

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