CAP. VI. I partiti.

Ovunque e sempre il loro carattere e la loro azione si atteggiarono da un interesse, ma l’essenza dell’uno e dell’altra fu nell’idea.

I partiti della terza Italia sono già morti da abbastanza tempo perchè si possa adesso sopra di loro dare un giudizio; attraverso tutte le contraddizioni il loro antagonismo si riduceva a questa formula: costituire o non costituire la patria nell’unità. I sogni del federalismo, l’utopia della repubblica, le stravaganze costituzionali, la passione rivoluzionaria e reazionaria non furono che momenti di questa antitesi; quindi si videro partiti e capitani irreconciliabilmente nemici allearsi ogni qualvolta un problema della resurrezione nazionale urgeva oramai maturo alla soluzione. Nell’infallibilità dell’istinto il popolo appoggiò ora l’uno ora l’altro giovandosi di ogni forza e superando tutte le difficoltà con una logica, che pagava il beneficio di ingratitudine e la verità troppo alta con un errore utilmente basso; così azione e reazione giovavano del pari, tutti i partiti erano costretti ai medesimi espedienti e alle stesse opposizioni; la meta appariva a pochi e il metodo non apparteneva ad alcuno, perchè bisognava mutare ad ogni istante, affermare e disdire, vivere e distruggere sul medesimo punto, collo stesso strumento.

Nel fatto la rivoluzione fu compita dai moderati trascorsi lentamente dal federalismo all’unità, dalla ribellione contro i proprî principi alla devozione verso casa Savoia, ma nell’idea la luce e il calore erano saliti dall’anima di Mazzini, il solo che credesse anche contro l’evidenza e sapesse far credere. Adesso altri partiti sono nell’arena, e un’altra formula non meno semplice è nascosta sotto il viluppo delle loro azioni e reazioni.

Nel parlamento i gruppi non formano più una parte, nella nazione i partiti non hanno più un programma; nemmeno i socialisti, che si vantano di averne due, il minimo ed il massimo. Nell’orbita costituzionale nessuno crede sinceramente alla monarchia, nè potrebbe credervi, dacchè cessò di essere un principio e fallì dinanzi al problema dell’Africa.

Il partito monarchico in Italia non è dunque un partito storico, giacchè la monarchia attuale fu una conseguenza rivoluzionaria, e nemmeno un partito sentimentale; si mantiene il più numeroso, poichè tutti o quasi accettano la monarchia col sottinteso di respingerla domani al suo primo conflitto cogli interessi del paese. Come monarchico dovrebbe essere conservatore nel senso nobile della parola, ma invece non cominciò a diventarlo che tardi, chiuso finalmente il ciclo della rivoluzione unitaria: prima aveva dovuto essere essenzialmente rivoluzionario per rimutare l’assisa nazionale, mentre l’opposizione essendo antidinastica o si asteneva o si rendeva inadatta all’opera. Però come partito conservatore manca di base: non ha una tradizione, un assenso istintivo ed abituale di popolo. Nell’Italia scarso è il sentimento religioso, ma nessun partito davvero conservatore può essere tale senza l’aiuto di questa forza. Ecco perchè adesso il partito clericale uscendo dalla inazione e accettando finalmente l’unità e l’indipendenza della patria tende a formare la retroguardia del partito conservatore costretto a riapparire nuovamente quello che fu sempre, un partito liberale. Gli antagonismi del magnifico periodo rivoluzionario sono già una leggenda: oggi papato e clero sanno fin troppo che la risurrezione del passato e la ricostruzione del potere temporale sono peggio che impossibili.

La lotta si è spostata salendo dal campo storico in una sfera ideale, ma la battaglia è sempre per la libertà; da un canto sono e stavano tutti i liberali, coloro che credono nella libertà e vogliono l’individuo autonomo: governo province municipi debbono governare il meno possibile: l’individuo deve assorbire la massima quantità possibile di sovranità. Dall’altra gli assolutisti, clericali o socialisti poco importa, che credono alla superiorità di una legge divina o imposta soltanto dal numero, e la legge concepiscono come un comando, nell’angusta falsità dello spirito accarezzando ancora la dispotica illusione di ricomporre la storia e di imporre all’individuo le norme del suo sviluppo.

Intanto è già un luogo comune della politica questa affermazione che in un futuro abbastanza prossimo i due grandi partiti si chiameranno dal socialismo e dal clericalismo, rivoluzionario e conservatore, mentre la lotta nel secolo XX, dovrà essere per la libertà dell’individuo, come nel secolo XIX fu per la libertà delle nazioni. Clericalismo e socialismo sono adesso due forme similari di due opposti principî: una uguale irreggimentazione sotto un dogma che schiaccia l’individuo nella massa, e alla sovranità individuale ne sostituisce un’altra astratta e collettiva, significata da una minoranza fatalmente artificiale.

Il partito liberale, che in questo momento esiste soltanto come istinto, dovrà sentire in sè stesso la poesia e il diritto della storia: quindi manterrà contro tutti le conquiste della libertà. Naturalmente non potrà subito essere un partito di popolo per la necessità stessa di combattere la politica dei suoi partiti estremi, ma affermando le gerarchie dello spirito, la graduazione tragica del progresso, la verità della tradizione storica, l’uguaglianza del diritto, la sovranità nelle opinioni e la soggezione di ognuno e di tutti all’ideale, adunerà in sè stesso le forze più vive.

Il numero, come nel passato non ebbe quasi valore, così non ne avrà nel futuro: la vita darà alle idee la forza sulla maggioranza degli elettori, che non potranno esprimerle, se il loro eletto non sia idealmente loro superiore: quindi il compito immane e glorioso nella politica futura sarà di assoggettare alle leggi dello spirito i nuovi barbari dell’elettorato.

Per il partito conservatore il problema più urgente è quello di essere liberale.

Una illusione e una dottrina sono cresciute in quest’ultimo periodo sulla natura e sulla funzione dello stato. Poichè il suo governo diventando democratico esprimeva meglio la maggioranza della popolazione, si è creduto che governo e stato siano identici, peggio ancora che il governo rappresentando la somma degli organi politici possa dirigere tutta la vita, contenere e educare tutta la personalità. A questo errore contribuiva l’avvento dei nuovi elettori popolari, che uscendo dall’inerzia e dalla servitù del passato col titolo gratuito di sovrani, reclamavano pel proprio immediato interesse la maggior quantità della cosa pubblica; e più ancora tutto l’ordine delle dottrine materialistiche, per le quali la legislazione è piuttosto atto di volontà che di pensiero, il diritto una forza piuttosto che una qualità. Tutto o quasi divenne obbligatorio: col pretesto di una integrazione lo stato entrò nella casa e nella famiglia ad interdire e a comandare; e non era più per uno di quei fini, che superano l’individuo e possono permettere il suo sacrificio, ma per un’arbitraria autorità su di esso onde foggiarlo sopra un tipo convenuto, o contenerlo entro i limiti, che lo diminuivano. L’interesse pubblico diventò un assolutismo, le funzioni pubbliche aumentarono sino all’assurdo; era questo un modo di accrescere la burocrazia e quindi il parassitismo, giacchè le vere massime funzioni sono le produttrici, e quelle inferiori di scambio debbono essere sempre rattenute nel minimo possibile.

Alle vecchie teoriche liberali, che spinte all’assurdo avevano affermato nel governo un male necessario dell’individuo, successe il concetto di un governo provvidenziale, la pretesa di un progresso immediato, che mutasse sostanzialmente le condizioni storiche; parve che una febbre ardesse i polsi della nazione, un altro dogma ancora più basso che pericoloso proclamò nel popolo, come classe plebea contrapposta a tutte le altre, la sorgiva e il segreto della spiritualità nazionale. Le compiacenze delle teorie evoluzioniste rendevano tutto facile, la sovranità elettorale abbassava idee e funzioni sino a sè stessa. Mentre nel periodo anteriore, potente di tragedia e di sacrificio, un pessimismo nobile ed amaro aveva talvolta negato la vita, nel fervore rinnovellato di questa un ignobile ottimismo giustificava tutte le sue viltà e ne scusava come umane tutte le infamie; la libertà, che in sostanza è responsabilità sovrana davanti a sè stesso, pesava alle coscienze, quindi si faceva ogni giorno più prona l’abdicazione dell’individuo allo stato e dallo stato la cessione dell’individuo al governo.

Nullameno un progresso vi fu e grande.

Nella storia di tutti i tempi l’assolutismo apparve sempre come il modo più spiccio e più rapido per sospingere le masse, ma i progressi di queste ottenuti così non furono quasi mai che superficiali ed effimeri. Nell’anima degl’individui il miglioramento non dura, se non derivò da uno sforzo della loro anima; un governo non può nè sollevare nè educare un popolo, soltanto la verità possiede tale forza e tale segreto.

Il partito moderato, che era stato liberale e rivoluzionario contrastando talvolta per necessità dinastiche o estere al più avanzato liberalismo delle opposizioni, compita la rivoluzione, si sentì come straniero davanti alla nuova generazione e sembrò adottarne il principio democratico ed assolutista, che parlava sempre di classi e mai di individui, domandando riconoscimenti di diritti prima di aver provato la capacità alla loro funzione, reclamando aumenti di salari non in rapporto all’importanza del lavoro ma all’esigenza dei moderni comodi.

La borghesia, che aveva largheggiato col popolo, considerandolo non nella sua realtà ma in una astrazione rettorica, si vide ritorte contro tutte le proprie concessioni, giacchè il popolo voleva essere istantaneamente pareggiato. Quella era stata volterriana, questo era brutalmente incredulo: la borghesia non aveva abbastanza operato nella rivoluzione, e il popolo, che vi era rimasto inerte, adesso esigeva eroismi e sacrifici: la borghesia si era gittata famelicamente nell’industrialismo, e il popolo, che vi aveva trovato un istantaneo aumento di benessere, sosteneva già che il lavoro delle mani era pari a quello delle menti, e valeva più del capitale.

La libertà esulava da tutti i campi dell’azione: conquistare un diritto non voleva dire che acquistare una forza, diventare cittadino non significava più assorgere nella coscienza della patria riconoscendo liberamente il suo diritto maggiore del nostro, ma penetrare nel governo nazionale per storcerlo a governo di classe. Nella borghesia questo vizio veniva in certo modo corretto dalla superiorità intellettuale, nel popolo invece cresceva col numero e si rafforzava dalla timidezza degli avversarî.

La teoria non ancora apertamente confessata era un socialismo di Stato.

Intanto il parlamentarismo decadeva.

Nell’Italia le insufficienze stesse della rivoluzione avevano preparato il rapido decadimento borghese; il partito moderato rimanendo soltanto conservatore che cosa poteva conservare? E se non era liberale come contrasterebbe al giacobinismo utilitario dei recenti elettori? Quindi fra parlamento e paese nella seconda monarchia di re Umberto avvenne come una separazione; nessun partito dell’uno ebbe più rispondenza con quelli dell’altro, il paese lavorava ad arricchire, il parlamento legiferava soltanto. Mancavano gli eroi e gli statisti.

La seconda monarchia di re Umberto fu rappresentata nel trionfo di tutte le opposizioni parlamentari: deputati e partiti vi diventavano costituzionali, ma la monarchia immiseriva sempre più il proprio simbolo, mentre la legislazione prendeva un abbrivo vertiginosamente democratico: la lotta era soltanto per la conquista del potere, la gara a chi apparisse più popolare nella piazza; i costumi, l’eloquenza parlamentare degradarono, nell’elezioni si dilatò il mercato dei voti, la pace lunga aveva tolto la poesia all’esercito, e il governo affidandogli la difesa sociale coll’ordine di mantenersi passivo ad ogni costo, gli scemò la dignità. Poi anche questa Gironda finì.

Dopo la morte di Mazzini il partito repubblicano non fu più che l’eco d’un nome e l’ombra di un fantasma; Mazzini sconfitto dalla monarchia nell’unificazione, abbandonato da Garibaldi, non potè avere nè rivincita nè successori. Il partito si restrinse ad una setta per la dottrina di lui, che non ne aveva lasciata una, poichè era soltanto un grande poeta dell’azione: quindi la sua figura si falsò discendendo la gamma delle interpretazioni sino a diventare, egli così acceso avversarlo di tutti i socialismi, un precursore di Marx: e tragica anima, che aveva messo una castità in tutti i sacrifici e predicata col più nobile esempio l’autonomia dello spirito, fu dagli ultimi epigoni gittata negli ergastoli del recente assolutismo demagogico e nei bordelli del libero amore. Oggi ancora gli ultimi fedeli non sanno che il partito repubblicano non avrebbe dovuto chiamarsi mazziniano, giacchè nessuna forma politica può portare un nome d’individuo; sono pochi, sperduti fra la folla socialista, che li insulta senza saperne bene il perchè, ma sentendo forse in loro dei superstiti e dei rinnegati. Infatti il soffio religioso di Mazzini non solleva più nè la loro anima, nè la loro parola; nella filosofia sono positivisti, atei nella morale, socialisti nel piccolo programma; non adorano più la patria sino a volerla intera contro lo straniero, inutilmente rigidi e convulsi nel dispettare la monarchia.

Invece i clericali l’hanno già accettata. Secondo l’antico costume il papato non rinunciò formalmente al potere temporale, ma ne lasciò grado a grado cadere le pretese: recentemente mandò il cardinale di Bologna ad ossequiare il re capitato nella vecchia metropoli delle legazioni, e consentì ai cattolici di eleggersi deputati al parlamento. Questi vi giurarono fede al re, il papa non era dunque più tale a Roma.

Ma egli aveva indubbiamente compreso che davanti alla ribellione atea del socialismo, la difesa non doveva preoccuparsi di antichi privilegi e territori, bensì delle più essenziali necessità: ogni attacco alla monarchia rimbalzava sul papato, ogni negazione della spiritualità colpiva la religione. Un regno pontificio non avrebbe potuto contraddire la sovranità elettorale, ed accettandola vi si sarebbe annullato.

Già la stanchezza dell’inazione irritava i cattolici italiani; pochi odiavano ancora la monarchia unificatrice, i più ne avevano accettato il fatto, poi l’esperimento della nuova forma era riuscito favorevole al papato. Mai, in nessun’epoca, la sua autorità spirituale era stata più larga ed efficace; popoli e re lo avevano invocato arbitro m contese diplomatiche, la purità della vita negli ultimi pontefici aveva nobilitato la loro politica e idealizzato le loro figure: oramai tutti sentivano che le monarchie passerebbero e il Papato sarebbe ancora il trono più alto. Ma ai cattolici d’Italia l’ingresso nella politica era singolarmente difficile: bisognava farsi perdonare il passato, l’ostilità parricida alla patria e l’assolutismo intellettuale, che negava ogni libertà al pensiero; la storia del risorgimento rimaneva aperta ed insanguinata, gli odî del laicato fervevano delle antiche sconfitte e della nuova vittoria. Ma lentamente, sapientemente, il partito clericale organizzò le moltitudini, che il liberalismo rivoluzionarlo non aveva potuto attrarre: fondò circoli, società di mutuo soccorso, banche rurali, scosse l’inerzia del clero e dell’aristocrazia, vinse ripugnanze di vescovi, divulgò riviste e giornali, saggiò le prime forze nelle elezioni municipali, e si educò parlamentarmente nei congressi. Senonchè la sua coscienza politica era ancora debole, le masse troppo passive; mancava un nome, una bandiera, un programma. Intanto il partito moderato logorandosi nell’azione veniva scemando di voti e perdeva lungo la strada giorno per giorno i migliori condottieri, quindi respinto dalle piazze tumultuanti di affermazioni giacobine si restringeva quasi ad un’accademia. I più alti individui erano ancora nelle sue file, ma invece di un esercito rimaneva soltanto uno stato maggiore.

Un’alleanza era quindi inevitabile coll’avanguardia del partito clericale: l’uno aveva il personale politico, l’altro i voti, per entrambi la necessità della difesa sociale era quasi identica; i clericali accettavano Roma italiana collo stato e le nuove libertà fondamentali, i moderati dimenticavano quell’antica negazione della patria per proteggerla con un nuovo ordine di cittadini contro tutte le opposizioni palesi o latenti, che si sommavano nello sforzo contro il governo monarchico e borghese. Ma la guerra era appena all’inizio. Una volgarità livellava tutti i partiti perchè il motivo immediato della guerra era materiale, un aumento di ricchezza, e borghese il tipo comune: l’aristocrazia vi discendeva, il popolo vi saliva. Il papa parlava come un parroco, il re come un sindaco.

Il partito conservatore non era ancora ridiventato coraggiosamente liberale sostenendo l’individualismo contro il socialismo, e quello clericale non ancora conservatore dando al liberalismo una base tradizionale e una poesia religiosa.

Gli stessi democratici cristiani ne fornivano la prova migliore. Sorti dal mezzo clericale come un manipolo di avanscoperta, si erano subito impantanati nel nuovo materialismo politico accettando magari programmi e metodi socialisti. La loro originalità era così povera che ignorava persino le grandi parole del vangelo e dei primi santi padri, ben più rivoluzionarie dell’ultimo verbo di Marx: la loro predicazione sembrava fatta di odio e d’invidia, non amavano la miseria e il dolore del povero, non partecipavano alla sua tragedia invincibile, non miravano all’anima attraverso il corpo, all’uomo attraverso il cittadino. Invece un socialismo cristiano per essere vero avrebbe dovuto aggiungere tutto ciò che mancava negli altri, rispondendo alle più profonde domande dell’anima e risolvendo in essa il doppio problema della libertà e dell’autorità. Quasi tutto composto del giovane clero, questo partito era di ribelli senza forza per una vera ribellione, di minimi tribuni che nell’ordine borghese combattevano copertamente la gerarchia ecclesiastica, e negavano la legittimità della ricchezza in quello, non osando denunciarne la falsità in questa. Velleità intellettuali di nuove esegesi, di riforme ecclesiastiche, di mutamenti gerarchici sospingevano i più audaci, ma il moto era soltanto derivato dall’ambiente politico, anzichè salire dalle profondità dell’anima cristiana nuovamente in preda agli spasimi di un rinnovamento ideale.

Poi il papa ammonì severo, e i democristi invece di ubbidire studiarono di meglio coprire le proprie mosse.

Adesso ancora sono un partito rudimentale, larva di un grande partito futuro, primo sintomo di un’altra grande epoca nel cattolicismo; però il loro moto sarà religioso o non sarà. O aggiungeranno alla democrazia socialista tutto quanto le manca fatalmente: la carità vera nella fratellanza soltanto formale, il sentimento del divino nel dramma umano, l’autonomia suprema dell’anima che può sola redimere se stessa, e la necessità di spiritualizzare più tragicamente e delicatamente la vita, o dilegueranno senza traccia come tutte le forme vuote. I democristi non possono uscire dallo spirito del vangelo e della grande tradizione cattolica, l’uno e l’altra consentono moderni adattamenti ideali: un socialismo cristiano sarà forse inevitabile come forma superiore, integrazione ed insieme negazione dell’altro.

Intanto i dogmi di Marx sono già rovinati, ma dalle rovine del papato temporale la poesia e l’azione nuova cristiana non assursero ancora; aspettate, tutte le grandi rovine si coprono di fiori, e a certe ore hanno voci misteriose.

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