CAP. V. Le classi.

Non ve ne sono più.

Nel mondo antico le differenze irrigidite dentro lo spirito avevano come diviso la natura scavando fra casta e casta un solco, che nemmeno quella poteva colmare. Forse l’orgoglio di tali distinzioni aristocratiche, anzichè dalla guerra salì dalla coscienza ebbra della propria superiorità spirituale, così che guardando ostinatamente in alto non volle più sapere su quale fondo posasse. Nulla quindi potè nelle Indie mutare la gerarchia delle caste, oggi intatta ancora sotto la dominazione inglese; poi la loro idea si attenuò altrove negli ordini, sino alle classi, mentre il principio ne rimaneva sempre immobile: una superiorità costituita in privilegio, una necessità per gl’inferiori di alzare una aristocrazia per compiere in essa la propria funzione storica. Naturalmente la funzione si differenziava nei luoghi e nei tempi, il suo privilegio doveva generare l’abuso, e la cristallizzazione dell’ordine stesso la sua decadenza. Ma grandi civiltà composero la gloria di tali aristocrazie, talvolta così grandi, che oggi dopo molti millennii il loro nome è ancora fulgido e visibile l’opera.

Nella modernità, che uguagliò dentro il diritto dell’elettorato il fondo spirituale di tutti gli uomini, l’antica differenza delle caste e degli ordini non era più nemmeno concepibile. Certamente le differenze rimanevano, poichè di queste soltanto risulta il carattere individuale, ma la loro importanza non poteva più, moltiplicandosi pel numero della classe e per il grado della funzione, apparire in una forma d’impero. Se qualche privilegio di eredità nella trasmissione dei patrimoni e dei titoli sopravviveva ancora, non bastava nè a contentare le superstiti vanità, nè ad irritare le ultime invidie: un altro orgoglio, una nuova disinvoltura riconfondevano i figli di coloro, che per tanti secoli erano vissuti separati nella sconfitta e nel trionfo. Il pareggiamento dei figli uccise il privilegio aristocratico nella famiglia: impossibile quindi senza i maggioraschi mantenere nome e patrimonio; questo nel dissolversi degradava quello, mentre l’elettorato relegando nell’ozio le estreme superbie patrizie finiva di ucciderle. Per non morire così umilmente quasi tutte reagirono contro la vita novella, e vi penetrarono di straforo giovandosi dell’antica maschera per avere una fisionomia, e dei vecchi nomi per sedurre i giovani patrimoni. Tale estrema metamorfosi del patriziato fu quindi parassitaria, sopravvisse nella rettorica dopo la morte della propria poesia, e nel lusso di una decorazione incapace di trarre da sè stessa l’originalità anche di una sfumatura soltanto.

Le classi d’oggi, se la divisione potesse ancora essere segnata, dovrebbero chiamarsi dalla ignoranza o dalla conoscenza dell’alfabeto, questo veicolo universale del pensiero, questa potenzialità nell’individuo di partecipare rapidamente, efficacemente, a tutte le aristocrazie dello spirito. Ma l’alfabeto stesso non è più così importante come una volta, giacchè la vita nella febbre della nuova creazione ha già trovato altre forme di più diretto insegnamento nella divulgazione di tutte le idee e di tutti i lavori, nel continuo panorama spirituale, che la mobilità moderna aggira dinnanzi agli occhi e alla coscienza di tutti. Tuttavia l’alfabeto è forse la più importante differenza moderna fra individuo e individuo, o almeno la più caratteristica: il resto della coltura si assimila piuttosto per virtù nativa di assorbimento o per fortune di spostamenti nella vita stessa, che per gradi scolastici; le scuole crescono ogni giorno e in esse gli scolari, una rettorica le proclama pari nel valore alle antiche chiese, quasi superiori alle case familiari, mentre non sono invece che un convegno plateale, ove molti si addensano ad ascoltare uno, e la volgarità di quelli s’impone a questo. Maestri e professori diventarono troppi per essere anche soltanto mediocri. Negli scolari la folla aumenta, perchè la scuola seduce con questa aristocratica lusinga; uscirne titolato, esente dal lavoro manuale.

Nel nostro mondo, il più democratico fra quanti la storia abbia conosciuto, tutti sentono infatti una umiliazione nel lavoro manuale; è ripugnanza del vecchio ozio atavico? E passione di nuova intellettualità?

Forse l’uno e l’altra, e altro ancora.

Anche fra le nazioni, che serbano intatti i maggioraschi e mantengono un senato ereditario, il pregio della nascita non basta più ad assicurarne il primato: la camera bassa supera la camera alta, crea e disfa i ministeri, esprime la massa e la nazione. Poi la rapida magnifica accumulazione industriale portò ricchezza e lusso ad un livello insostenibile nelle aristocrazie; i membri di queste spodestati dai maggioraschi debbono o vendere il nome o discendere in qualche professione, mentre i rappresentanti della primogenitura trovano nel privilegio stesso l’espiazione. O sono davvero uomini superiori, capaci di interpretare il proprio tempo, e il privilegio è piuttosto di ostacolo che di aiuto: o non lo sono, e allora l’altezza del grado diventa una gogna.

Forse le aristocrazie d’Inghilterra, di Germania, di Russia non sono ancora senza una qualche influenza politica, ma dentro queste due parole troppo è difficile numerare gli elementi e davvero valutarli. Tutto fa capo alla politica e ne esce.

Nell’Italia invece l’aristocrazia perdette ogni valore di classe. Prima della rivoluzione oziava nelle città di provincia o si degradava nella servilità delle corti; non più orgoglio in essa perchè non più cooperazione politica, i governi sopravvivevano senza base nel passato, senza idea per l’avvenire, stranieri alla nazione e nemici alla patria. Aristocrazia e clero nella propria maggioranza furono ostili alla rivoluzione; un istinto li avvertiva che il mutamento sarebbe contro di essi; poi inerzia e viltà tolsero loro di aiutare nella difesa i governi decrepiti, e non seppero più nè resistere, nè tradire, nè rinnovarsi. Compiuta la rivoluzione invece l’aristocrazia si adattò rapidamente ai tempi nuovi forse per la stessa docilità, che negli ultimi secoli l’aveva piegata a tutti i governi, ma era troppo povera di coltura e inetta nel pensiero per conquistarvi un’influenza; i suoi uomini superiori lo erano troppo per rappresentarla e avevano dovuto contro di essa diventare rivoluzionari. Nel parlamento il patriziato non seppe mai stringersi in un qualunque manipolo alzando una bandiera; nel senato il privilegio di nascita fu sottoposto all’elezione regia, e il senato funzionò come un ospizio per i naufraghi del parlamento, e una accademia di riposo per tutti gli alti funzionari, un po’ anodina malgrado i molti caratteri individuali, un po’ anonima non ostante la gloriosa storicità di certi nomi. Nessuno pensò mai a riordinarlo: il senato era un privilegio del re, ma pesava così poco sulla politica che gli stessi partiti avanzati si dimenticarono di odiarlo.

Tutta la modernità fu quindi nella borghesia. Certamente la sua disparità da provincia a provincia era così grande che napoletani siciliani e sardi dovevano stentare a sentirsi concittadini dei lombardi e dei toscani: forse fra un calabrese e un piemontese la differenza era maggiore che fra un piemontese e un parigino, fors’anche vi erano distanze millenarie nella coscienza fra paese e paese. Quanti secoli di civiltà separavano il mercante ligure sempre vigile sul mare, coll’orecchio teso a tutte le parole e la mente aperta a tutte le idee, dal pastore dell’Agro, rimasto immutato nell’antico quadro virgiliano, solitario amante e poeta delle pecore?

La borghesia era la classe più colta, ricca e passionale; capace d’intendere la modernità di oltre alpe e di oltre mare, soffriva nell’abbiezione imposta dai governi paesani alla sua coscienza; sognava la rivoluzione ma sapeva troppo bene la propria debolezza e l’indifferenza del popolo per osare davvero. Lungamente il sogno oscillò fra federalismo e riformismo; si voleva soltanto il più probabile per arrischiare il meno possibile; sostanzialmente la resistenza dei governi era pressochè nulla, e la protezione accordata loro dalle diplomazie estere poco più che formale: un moto generoso di sollevazione sarebbe bastato contro i loro eserciti di parata e i banditi arrolati nella gendarmeria. Però non ne fu nulla. La lunga abile viltà nazionale degli ultimi secoli suggeriva invece speranze di aiuti stranieri, artifici di transazioni, scuse e ragioni a tutte le inferiorità: quindi l’avanguardia borghese dovette indietreggiare dalla rivoluzione di Mazzini disertando l’epopea di Garibaldi per accodarsi ai pochi reggimenti piemontesi di Vittorio Emanuele. Accettò di mutare la servitù all’Austria in un protettorato francese mal dissimulato da un’alleanza, lasciò la monarchia mantenere Mazzini in esilio e fucilare Garibaldi ad Aspromonte, incamerò i beni delle fraterie, occupò Roma rimanendo cattolica in un liberalismo fatto di buon senso e di volgarità, di istinti novatori e di prudenze qualche volta profonde sino al genio. La storia deve essere severa alla borghesia italiana per la sua bassa insufficienza rivoluzionaria, ma non può non ammirare la rappresentanza dei suoi migliori individui nell’opera di Cavour e di Mazzini. La massa borghese aspettava.

Come in un terreno fecondo e poco lavorato, tutti i germi della vita nuova vi fremevano già e fermentavano tutti i concimi del passato. L’Italia arrestatasi nello sviluppo politico ai principati, aveva poi vissuto negli ultimi regni adattandosi ad ogni sorta di miserie ed assorbendo segretamente ogni novità. La sua politica passiva, la vita inerte, il carattere frivolo dissimulavano più grandi qualità; la sua anima si rivelava tratto tratto nell’anima di un qualche grande, o da una piccola cosa traeva un’effimera vasta potenza: sapeva essere povera senza tristezza, timida con grazia, abile sempre, eroica talvolta, vincendo tutti coll’incanto della propria gloria passata e della bellezza eterna; egualmente incredula davanti ai re e davanti al papa trionfava di tutte le debolezze collo scherno, e collo scherno s’imponeva al rispetto di tutte le superiorità. Un orgoglio vigilava sotto le sue umiliazioni quotidiane; l’incalcolabile mistura della nostra razza, la profonda varietà del passato e un indefettibile senso dell’universale preparavano quindi nella borghesia, incaricata di unificare l’Italia, la classe più contradditoria e difficile ad essere trattata da uno statista e ritratta da un pittore.

Per ogni popolo le grandi qualità sono sempre di due ordini: quelle che gli garantiscono la sopravvivenza e quelle che lo innalzano nell’opera sugli altri popoli. L’Italia nel momento della propria rivoluzione adoperò più le prime che le seconde, potè trasformarsi più per energie latenti di razza che per valore di periodo storico: invece di tagliare i problemi colla spada ne aperse spesso i nodi ungendoli; e allora fummo tutti più o meno diplomatici forse perchè le nostre grandi aristocrazie erano già state commerciali, o perchè qualche cosa ci avvertiva che il seguente periodo sarebbe dominato dall’industrialismo.

Le qualità, che ci mancarono nella rivoluzione o vi apparvero difetti, assicurarono dopo il suo trionfo; così vincemmo più nei risultati che nei mezzi, nell’utilità che nella bellezza dell’opera.

Nullameno una grandezza era nella rivoluzione italiana.

Per sentirne il rilievo e l’originalità basta paragonare la rappresentanza de’ suoi grandi individui con quella degli altri popoli che nel secolo XIX ottennero la propria resurrezione nazionale. Nessun eroe moderno s’uguaglia a Garibaldi, nessun apostolo della politica ebbe come Mazzini anima più tragica, parola più evocatrice, pazienza più invitta; fra Cavour e Bismark la differenza è di razza, l’uno fu il capolavoro della destrezza e l’altro della rigidità: la gomma e il granito, egualmente infrangibili. Dietro Bismarck sta una nazione di soldati, dietro Cavour un popolo ancora indifferente fra schiavitù e libertà; l’idea di Bismarck è un proiettile che fora o rovescia tutti gli ostacoli, quella di Cavour un vortice che attira, aggira, condensa, forma una patria: Cavour dovette sovente essere umile, talvolta vile, ma risolse più difficili problemi del suo rivale.

E nella lunga storia italiana nessun periodo ebbe più magnifica fioritura di caratteri e d’ingegni come la prima metà del secolo XIX: bisogna indietreggiare fino a Dante per trovare un altro tempo così profondamente rivoluzionario e creatore. Nella nostra rivoluzione gli eroi passano in falangi e i martiri in processioni: sempre, nelle chiese, nelle prigioni, sulle vie dell’esilio, dai patiboli, nei palazzi dell’aristocrazia e nei tuguri del povero, ovunque si soffriva e si sognava, balenò un gesto, suonò una grande parola. Non v’era speranza di vittoria, non aiuto di amore, perchè la moltitudine non capiva o troppi capendo non credevano ancora: l’Italia si affermò, vinse così. Essa aveva già imposto all’Europa in Napoleone l’ultimo dei propri condottieri e l’estremo degli imperatori mondiali: prima Riquetti di Mirabeau, un altro italiano, aveva preparato la grande repubblica francese, ieri Gambetta vi fondava la terza. Come Scipione per vincere Annibale gli abbandonò l’Italia ed assediò Cartagine, Cavour per battere l’Austria getta diecimila piemontesi in Crimea dinanzi agli eserciti d’Inghilterra e di Francia: e quei diecimila decidono la sconfitta dello czar. Come Colombo scoperta l’America veste il saio e sogna di riaprire in Gerusalemme la capitale del mondo, Mazzini dalle ideali rovine della sua repubblica italiana si alza al sogno dell’alleanza repubblicana universale, prima unità di tutti i popoli innanzi all’aurora del socialismo; ma Garibaldi muore a Caprera, esule nella propria grandezza troppo pura per la nuova vita industriale, Mazzini spira a Pisa come un errante, tollerato dal re e dimenticato dal popolo dopo aver preparato a quello la corona, a questo la vita.

Nel popolo infatti il soffio più gagliardo di vita venne da Mazzini, giacchè pochi potevano davvero comprendere l’opera complessa di Cavour, ammirando nel nuovo statista l’ultimo erede di Guicciardini e il più moderno fra i mercanti di genio. La moltitudine invece sentì Mazzini nella lunga tragedia delle piccole congiure, delle più piccole rivolte, sempre vinto nel sangue, bello ancora nel ridicolo dell’impotenza: amò lui nell’esilio, seguì lui in Garibaldi che gettava il lampo della propria spada dove già l’altro aveva messo quello della parola.

Ma il popolo italiano non poteva indovinare che confusamente i due eroi.

Era povero, ignaro, dimentico della propria tradizione; i monumenti della gloria antica non gli dicevano più nulla, la sua bella religione era un rito ed un commercio di sacerdoti, i suoi piccoli stati uno scacchiere variegato di tirannidi; le città sonnecchiavano nelle provincie fra i campi quasi silenti perchè l’agricoltura era estenuata; nelle capitali la vita si ingegnava di piccole idee e di piccoli scandali, la miseria era vasta non triste, il cielo sempre così bello, il carattere nazionale così scettico. Esso aveva trionfato di tutto: quando l’Europa era in fiamme per guerre religiose, il popolo d’Italia improvvisava l’ultima bellezza del cinquecento avendo già vinto il tragico fascino della religione colla bellezza dell’arte: egli amava troppo le dolci madonne e i santi leggiadri per innamorarsi dei lugubri problemi teologici. La popolazione decimata dalle lunghe guerre medioevali era scarsa, il frazionamento federale aveva messo in ogni borgo una gloria di metropoli e vi si viveva dell’importanza locale; i governi erano un flagello inevitabile, le guerre un castigo degli uomini e di Dio, si credeva a poche cose, non si amava alcuna idea. Per lunghi secoli il popolo assistè alla vita dei propri signori come ad una festa, felice quando poteva raccattare le briciole cadute dalle loro mense: era ingenuo e barbaro, il suo onore non somigliava a quello delle classi superiori, il suo costume rimaneva semplice intorno alla loro corruzione, la sua servilità scattava ogni tanto in rivincite delittuose, la sua viltà politica non era in fondo che indifferenza. Che cosa poteva essere l’Italia per lui, se la figura ne rimaneva un enigma anche nei maggiori intelletti? Che cosa poteva dirgli il cattolicismo papale, se a Roma e in ogni altra capitale non era più che una decorazione di feste, un motivo per tutti gl’intrighi, un’assoluzione per tutti i delitti? La letteratura luceva più alta della sua vita in una gloria di vanità, la filosofia, e l’Italia non ebbe mai crisi filosofiche, giocherellava più in alto in una sfera inaccessibile, poco importa se qualche filosofo precipitava tratto tratto dentro un dramma religioso per morirvi condannato: l’arte sola, quella figurativa, parlava ancora all’anima popolare.

Ma il popolo era immensamente vario di origine, di razze, di dialetti, di costumi, di vita; i suoi montanari non capivano i marinai, i valligiani del Po non sapevano nulla di Venezia e di Genova, ignoravano che a Torino cresceva nella piccola monarchia un’idea italiana, pensavano Roma come una città sacra alla crapula e a Dio. Nella Sicilia il sangue arabo e normanno manteneva la propria originalità antagonista, a Napoli l’influenza spagnuola aveva finito di corrompere il molle costume antico e la reazione di Carlo III non v’ebbe che intenzione e valore di accademia. La Sardegna agganciata al Piemonte come una galea ad una bitta era un’isola selvaggia da che la poca vitalità politica vi si era spenta, mentre la Corsica morta con Pasquale Paoli attendeva di risorgere francese con Napoleone.

Il popolo italiano invece era tutto nella profondità della razza, che le infusioni barbariche avevano ringiovanita; la sua antica potenza di creazione durava ancora nella servitù. Nulla aveva potuto esaurirla; il genio popolare creò i comuni, le signorie, i principati, le grandi repubbliche di terra e di mare, le nuove arti, la moderna legislazione. Popolo grande per individui nella individuazione del suo federalismo superò forse quello della Grecia, ma con questa magnifica superiorità che l’idea universale di Roma e l’idea cattolica del papato ne facevano sempre, attraverso il dolore di tutte le tragedie e l’umiliazione di tutte le sconfitte, un popolo di padroni.

Così rimanendo per lunghi secoli un campo aperto alle guerre d’Europa, perchè le maggiori nazioni si combattevano sempre nella nostra massima valle, nessuna potè conquistare l’Italia. Le gelosie dei conquistatori si contraddicevano neutralizzandosi, ma qualcuno sarebbe pur riuscito finalmente a soverchiare, se il popolo italiano non avesse opposto a tutti la stessa invincibile ed enigmatica resistenza.

I suoi storici medesimi poco vi compresero.

La rivoluzione francese suonò la diana sulle alture del confine piemontese: poi Napoleone passò.

II suo era un vento di uragano, tutto fu sommosso: scardinati i governi, dissipate le vecchie idee, gittate all’oblio le antiche forme. Le ristorazioni apparvero quindi posticce: quali potevano infatti apparire dopo Napoleone quei re e quei granduchi, che tornavano tremanti e zoppicanti per risalire i troni screpolati? Il papa non aveva egli pure piegato legittimando un matrimonio adultero e rinunciando al potere temporale? Napoleone non aveva regalato il regno d’Italia all’unico figlio, pallido fantasma preso tra le fiamme balenanti del più vasto incendio storico?

Eppure Napoleone stesso non aveva potuto costituire l’Italia: egli era dileguato lungi fra le brume dell’oceano, mentre l’Italia invece si rialzava lentamente, sicuramente. Essa divorerebbe tutti i suoi re, i duchi, il papa; in uno sforzo di genio e di dolore cancellerebbe ogni differenza regionale, l’unità della razza salirebbe dal fondo di tutte le sue provincie, le congiure sarebbero i primi parlamenti della rivoluzione; gli eroi erano belli, gli altri, i nemici, i reazionari diventavano ogni giorno più brutti. Il popolo sorrideva ai ribelli e derideva i governanti.

Ma pel momento non faceva di più.

Era poco: tuttavia su questo scarso fondo operò la minoranza rivoluzionaria; la passiva inerzia del popolo finiva di paralizzare i governi decrepiti, le sue simpatie infallibili indicavano i duci e la strada: se la rivoluzione non poteva vincere da sola, la reazione non avrebbe vinto nemmeno aiutata. Infatti ad ogni falsa vittoria s’indeboliva; i suoi eserciti erano ridotti a una polizia, la sua politica ad una negazione contro i sudditi e ad una sottomissione verso lo straniero.

Certamente Mazzini s’ingannava fidando nel popolo per le forze della rivoluzione, e Garibaldi chiamandole alle armi non ne trasse che un piccolo manipolo borghese, ma il popolo solo, accidioso e timido, aveva compreso Mazzini e Garibaldi. Senza questo indefinibile, inafferrabile accordo, di che, di chi avrebbero vissuto i due eroi?

Senza tale potenzialità nel popolo come spiegare la febbre, il trionfo dell’immediata trasformazione nazionale?

La difficoltà del problema è tutta nel principio: per motivi lunghi di storia il popolo era grande d’individui non per massa, ma questa doveva pure, essendone l’origine nell’eroismo e nel genio, intendere almeno confusamente la loro suprema espressione. Così il popolo poco appare nella rivoluzione e non bene; la minoranza lo supera e sembra contraddirlo, mentre invece lo significa.

Guardate la Grecia: dopo gli eroi del ’21 che cosa è essa ancora?

L’ultima guerra contro il turco lo ha fin troppo provato. Guardate l’Italia dopo il ’59: adesso è una potenza di prim’ordine.

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