CAP. VII. Il problema dell’autorità.

Uno dei più illustri pensatori moderni ha detto: nella vita il grande problema non è di libertà, ma di autorità.

Poche affermazioni sono adesso come questa più difficili alla nostra coscienza.

Attraverso tutte le avvilenti teoriche del positivismo noi ci sentiamo così liberi nell’imperscrutabile segreto dell’anima, e l’orgoglio delle conquistate libertà esteriori ci solleva così alti davanti a tutti i poteri costituiti, che qualunque dichiarazione di autorità ci pare una barriera contro la nostra opera e una negazione della nostra autonomia.

Eppure nella vita sociale il problema è piuttosto di autorità che di libertà.

Se la vita è una manifestazione del pensiero, il suo realizzarsi esige tale continuo ed esauriente sforzo che la maggior parte degli individui vi soccombono senza attingere la coscienza dell’opera, alla quale sono sacrificati. Per essi la necessità suprema è quindi una certezza di autorità: incapaci di resistere fra la bufera dei dubbii intellettuali e più ancora di salirvi al disopra nell’ultima sfera metafisica, che dissolve forme e concetti in poche idee pure, il loro istinto ha bisogno di quietarsi in un ideale sistema, già realizzato in simboli ed in leggi, che dia una risposta decisiva a tutte le domande salienti come tentazioni dalle difficoltà della vita.

L’energia indispensabile all’opera non si conserva in quantità sufficiente che così. Religione, filosofia, scienza, politica, sono tanti sistemi, dentro i quali la moltitudine viene a riparare dalla tormenta dei luoghi troppo aperti, discendendo dai picchi montani o fuggendo dalle solitudini marine. Se la religione non ha dogmi davvero assoluti, il suo primo ufficio di tranquillizzare le coscienze resta frustrato: se la scienza coordinando i pochi principii e le poche scoperte non garantisce la loro verità, il genio piccino dell’azione non può lavorarvi sopra utilmente per adattarle alle esigenze della vita: se le leggi della politica non hanno una stabilità duratura, le attitudini del popolo e l’originalità de’ suoi periodi storici non si realizzeranno. In alto e in basso la fede soltanto crea, ma la fede procede dall’autorità pur cominciando da una intuizione. La libertà, questo vertice supremo ove si identificano l’autonomia del pensiero e quella dell’azione, quesito indivisibile momento nel quale possiamo negare coll’azione una verità che non sapremmo disdire nel pensiero, agisce nella moltitudine solamente come istinto: per tutto ciò invece che deve essere precisato, per le forme e per gli schemi è necessario che la verità venga oggettivata e si costituisca come esteriorità tangibile ed irremovibile.

Allora si chiama autorità.

La storia ideale di un popolo si potrebbe scriverla, e sarebbe forse la più vera, seguendo soltanto la vicenda delle sue credenze e delle sue autorità. La religione è la prima più alta prova che di tale bisogno l’uomo dà a sè stesso: tutto quanto il pensiero filosofico e il suo sentimento poetico hanno intuito, vi si fissa in figurazioni adunandovi intorno le forze più essenziali dello spirito; e quelle intuizioni sono i primi rapporti di questo colla natura e coll’infinito. L’uomo ha bisogno di uscire in un modo o nell’altro dall’angoscia del proprio problema, quindi una religione per quanto monca od atroce è sempre un asilo.

Oggi invece è un luogo comune della rettorica filosofica il dire che l’uomo può fare a meno di una religione, e si cita a prova la tranquillità e la libertà della nostra opera incredula; ma l’argomento merita appena che vi si risponda. L’incredulità preterisce non nega la religione e non distrugge nello spirito i modi, che quella vi creò: così i miscredenti moderni sono tutti ancora cristiani nell’irriflessione dei sentimenti e dei giudizi, cristiana è la loro morale e la loro poesia: negano simboli e dogmi, ma ne serbano in sè medesimi la struttura.

Una religione non può essere negata che da un’altra religione, giacchè l’uomo nasce religioso. La religione è infatti l’unità e la rappresentazione dei rapporti, che la nostra individualità sente oltre i limiti della propria vita: il suo nome non conta perchè tutti saranno egualmente inadeguati, negare è inutile giacchè il pensiero non può negare il pensiero: la religione è un momento nello spirito come la filosofia la scienza l’arte, ma il primo è il più sintetico: nella religione il carattere è di autorità come nella politica, mentre nella filosofia nella scienza e nell’arte è piuttosto di libertà. La politica non esiste che in quanto si fissa in leggi come la religione in dogmi: i suoi organi esprimono dunque un’autorità. Questa garantendo un certo ordine rende possibile alla vita di continuare fecondamente nello sforzo di realizzarsi: e mantenendo l’impersonalità del pensiero negli schemi legali presta una norma sicura ai pensieri individuali. Soltanto nelle profondità dell’istinto e sulle cime dello spirito prosegue ininterrotto il lavoro creativo, che critica e rinnova tutte le forme esteriorizzate del pensiero: la storia è una statica, il genio anonimo della folla e il genio individuale sono la dinamica, che la sostiene e la trasforma.

L’autorità vi assume tutte le forme, ogni idea non vi trionfa davvero se non creando una nuova autorità, e il raggio del suo trionfo si misura a quello dell’obbedienza; finchè un’idea è discussa, non ha vinto, benchè brilli allora solamente tutta la sua bellezza; dopo, trionfando si deforma e si cristallizza. Il trionfo è un adattamento dello spirito alla natura, non si trionfa che imbruttendo per diventare accessibile a tutti. L’autorità di un’idea è in rapporto coll’altezza del suo principio e colla superficie del bisogno, cui soddisfa; le due più vaste verità sono la religione e la moda. Se un’idea conserva a lungo la propria autorità, la sua radice spirituale sarà discesa profondamente: se la negazione di questa idea non conclude a realizzarne una superiore, la negazione non è nemmeno formale, ma inane.

Questo basta a giudicare di tutte le opposizioni proterve, che religione e scienza si barattarono nei secoli; egualmente nell’arte la critica è quasi sempre una superiorità d’impotente sopra qualcuno esausto, perchè la creazione si realizza inconsapevolmente, e la critica non diventa arte alla propria volta che salendo a valore di storia.

Nella politica, come azione, tutto procede dalla autorità, è una guerra pari ad ogni altra: l’energia del combattimento è in ragione della fede, e la fede in ragione dell’autorità; se gl’interessi hanno l’aria di guidare la politica, non sono invece che il combustibile della macchina e il carico del treno. Le idee solo hanno potenza di sollevare uno strato storico scatenando in esso o contro di esso tutti gli interessi della vita. Quindi ogni partito è dogmatico, irriducibile, diverso dai proprii partigiani che vorrebbero appropriarselo e ne sono invece assorbiti: l’odio e l’invidia, le passioni più basse vi sono le più attive, il senso della realtà vi si acuisce e vi si falsa nel medesimo tempo: ogni individuo vi perde forse le più alta parte di sè medesimo nella libertà, ma vi acquista la forza del numero, pel quale viene moltiplicato. Quando l’idea vi è nella pienezza, la passione diviene fanatica, ma fanatica comincia e deve finire in pochi, specialmente nell’aurora quando la sua enunciazione esige il martirio.

Ogni partito ha una verità interiore, che non può formulare nei programmi e che spesso li contraddice; alla superficie l’accordo è di interessi e passioni immediate, la promessa deve essere sempre vasta sino all’assurdo, giacché a sollevare una massa anche soltanto di un millimetro dalla propria base occorre la forza estrema dell’ideale. Se un partito sapesse anticipatamente il risultato della propria opera, abbandonerebbe scoraggiato la lotta; bisogna sognare la trasformazione del proprio podere in eden per mutarvi anche solo la coltura di un’erba.

La tradizione è la persistenza del passato nel presente, quindi ogni vittoria della rivoluzione misurata alla quantità di spostamento prodotto è sempre piccola, e non cresce poi che propagando le proprie vibrazioni negli organi contro i quali si è arrestata. Il partito conservatore, come rappresentante dell’autorità, rimane dunque e sempre il più grande anche allora che non pare il più importante: tutti vi appartengono, specialmente quelli che non vi sono iscritti; tutti vi finiscono, anche coloro che sembravano averlo vinto, appena la vittoria si acquieti fra l’immenso numero delle forme storiche.

Invece non si è rivoluzionario che per un qualche motivo soltanto: studiate i più illustri ribelli, quelli che agirono invece di sognare, e noterete subito in loro una grottesca disparità. Rivoluzionari sopra una punta estrema, inconsapevolmente sono pedanti e reazionari in tutto il resto; i rivoluzionari della politica, specialmente se plebei, non intesero quasi mai quelli del pensiero, per la solita ragione che una generazione come un individuo nel proprio tempo non può mutare molto, nè intendere oltre quel poco che muta.

Nella rivoluzione francese l’arte è classica e reazionaria, nelle ristorazioni invece rivoluzionaria e romantica; Mazzini negò intorno a sè tutti i novatori più originali; Garibaldi, il più rivoluzionario condottiero moderno, non si accorse nemmeno delle idee, che mutavano sostanzialmente gli ordini militari.

Ogni grande novità non è mai che un piccolo germe, e la più profonda rivoluzione non rimane che una ruga sul vecchio volto della storia.

Share on Twitter Share on Facebook