CAP. XVI.Il carattere militare.

Vi sarà ancora la guerra, ma il guerriero non esiste più.

Il suo carattere mutato dal cristianesimo è scomparso lentamente, senza che adesso sia possibile precisare il giorno e il motivo più efficace alla sua sparizione. Il guerriero antico aveva un carattere e una funzione immutabile; viveva dentro la forza e per la forza; nella coscienza superba che la propria opera fosse la più indispensabile alla vita, giacchè ne garantiva la durata, si metteva inevitabilmente al disopra di tutti. Se un’idea religiosa o un disegno civile o una forza economica gli legavano talvolta la spada nel fodero, o lo costringevano soltanto a non brandirla che dietro un ordine, una volta brandita la spada il guerriero ridiventava padrone, e la sua volontà non aveva altri limiti che nella necessità stessa dell’impresa. In tutte le storie antiche il dramma della guerra è il più evidente. La supremazia dei guerrieri appare dovunque, anche se una gerarchia religiosa sembri sovrastare, mentre non comanda invece che subdolamente, contentandosi di far servire ai proprii scopi le forze dei guerrieri, ai quali non potrebbe resistere. Certamente la potenza militare, non contenendo un’idea, non poteva presso alcun popolo essere la più alta, ma poichè nel realizzarsi della storia il fatto momentaneamente prevale all’idea e questa prevalenza si rinnova nella continuità della vita, l’importanza politica delle armi creò in ogni stato un diritto e una funzione privilegiata.

La necessità della guerra era immanente e permanente.

Ogni popolo per costituirsi si condensava prima militarmente; tutto doveva esser per lui conquista, il territorio stesso, i suoi confini, le sue strade, i suoi sbocchi; l’opera violenta di tale conquista si compiva simultaneamente nella tribù e nell’orda, nella nazione e nello stato: bisognava disciplinare, immolare al loro servizio gli individui già adunati nel fatto o nell’idea, in possesso d’una patria o in pericolo di perderla. La vita non viveva che di sacrifizio incessante alla morte; il guerriero, che di tale sacrificio faceva una funzione esclusiva per sè stesso e per la propria famiglia, doveva necessariamente prendere sugli altri un impero.

Quindi un orgoglio ombroso, una sensibilità egoista, il culto della forza, la passione della prepotenza, il disprezzo delle leggi, poichè tutte avevano egualmente bisogno della sua forza per essere tali, la ripugnanza al lavoro, furono tanti lineamenti nel carattere del guerriero. Abituato a vivere della morte e a chiederle il primato sulla vita, difficilmente in questa poteva sentire la creazione sempre nuova dei sentimenti e delle idee, riconoscendo nelle piccole opere della pace lo scopo stesso delle proprie imprese. Una disciplina infrangibile lo imprigionava nell’apparente libertà della prepotenza, perchè la cooperazione militare esigeva sempre la più precisa sottomissione dell’individuo, mentre il suo costume doveva necessariamente oscillare fra gli estremi dell’obbedienza e della rivolta, della regola e della licenza. I primi progressi furono quindi assai lenti. Alle società così costituite nella difesa di sè stesse non rimaneva altra potenza di creazione che negli individui più deboli, quelli stessi che servivano al mantenimento dei guerrieri. Le loro forze e le loro abitudini spirituali provvedevano a tutto, preparando ed inventando, ricominciando per secoli all’indomani l’opera cominciata nella vigilia. Probabilmente l’efficacia di questa fu dapprincipio assai scarsa sull’anima dei guerrieri; più attiva e profonda invece sarà stata l’altra della religione, che è sempre un poema, e parlando alla fantasia come ai sensi può dalla rappresentazione di un simbolo generare un sentimento.

Il primo progresso del carattere guerriero rimase così visibile nelle epopee, che Giambattista Vico potè poi tanti secoli dopo trarne il segreto della storia primitiva; infatti prima il guerriero è un selvaggio, forse anche antropofago, animale e fanciullo, che vuole essere ammirato e si ammira, vittima dell’ozio e della morte. Dopo è un eroe.

Ma nell’eroe il selvaggio è rimasto.

Nell’uno e nell’altro le condizioni della vita sono sostanzialmente le stesse, però l’eroe nel momento del sacrificio s’innalza e si contraddice. Egli sente in sè stesso qualche cosa che non è della sua vita quotidiana, un orgoglio lo esalta, e nel dono della vita ne apprende quasi la rivelazione. Egli, il forte, deve essere immolato pei deboli, e i deboli solo senza capirlo possono amarlo, perchè tutti gli altri forti, rivali o nemici, lo guardano come giudici. Nell’eroismo è già entrata la pietà: la forza deve avere una bontà, la guerra una bellezza, la morte un segreto, che qualcuno dirà. Ecco il poeta.

Prima del poema non abbiamo che la preistoria, epoca oscura, nella quale l’umanità è così confusa nell’animalità che oggi ancora la scienza ingannandosi la crede soltanto una forma un po’ più alta; dopo il poema il guerriero si perfeziona nella storia, ma non muta: il suo modello è nell’eroismo, il suo fondo nella barbarie, il suo carattere una mistura dell’uno e dell’altra.

Grattate il guerriero e scoprite il selvaggio; esaltate il guerriero e compare l’eroe.

L’ascensione dal carattere militare nel carattere eroico meglio che nel poema si manifesta dalla tragedia, forma più individuata, nella quale l’eroe è quasi sempre un re o lotta con un re. Comunque la tragedia si svolga e la catastrofe precipiti, l’eroe vorrà mantenere davanti a sè stesso ed agli altri la propria interezza; la sua lotta è ancora più contro le invisibili forze del destino che contro coloro, i quali le rappresentano nell’antagonismo delle passioni e delle idee: grande o piccolo, egli è già l’uomo che dispera e non cede, col volto rigido e il cuore molle di lagrime.

Ma la guerra non interrompendosi mai nella storia ed accompagnandosi a tutte le sue opere come una fiamma e come un’ombra, muta i proprii modi e quelli del guerriero. Certo i caratteri essenziali resisteranno nel fondo dell’anima, e basterà forse il più piccolo attrito alla loro esplosione; ma l’esercizio civile della pace e l’ascensione stessa dei deboli, incapaci di sottomettersi alle fatiche e di affrontare i rischi della guerra, produrranno inconsapevolmente una trasformazione militare.

Nella civiltà l’importanza della guerra diminuisce non nella sua necessità, che invece si è mantenuta quasi uguale sino ai nostri giorni, ma col crescere della importanza nelle opere della pace. Lo sviluppo spirituale crea contro l’aristocrazia della morte altre aristocrazie della vita: il guerriero non può essere primo che nella parità della barbarie, mentre per la vita il problema è tutto o quasi nella durata: quando invece la durata non è più in pericolo, ma solamente qualcuna delle sue forme come l’estensione del territorio o della giurisdizione, l’importanza di una supremazia civile o politica, in tale difesa la guerra non è che un modo e spesso non il più efficace. Allora grandeggiano accanto al guerriero altre figure; la vita è diventata così complessa che anche più complessa ne è la vittoria: quindi l’arte e la funzione militare si specializzano, e specializzandosi si perfezionano, ma scemano socialmente di valore, finchè la società arriva talvolta a farne di meno. Popoli assolutamente inetti alle armi hanno potuto vivere non solo, ma raggiungere nella civiltà un certo sviluppo, sostituendo alla guardia militare qualche altra difesa.

Poi la correlazione e la coordinazione politica equilibrando le forze attenua col rapporto del numero fra difensori e difesi anche quello fra combattenti e morti. Più l’arma è bruta e più uccide: nelle antiche battaglie, ogni guerriero battendosi a corpo a corpo, il duello ricominciava ad ogni vittoria; quindi la strage era quasi identica nei vincitori e nei vinti, e il valore degli individui non si moltiplicava che ben poco per quello della massa. Il progresso diminuisce invece l’importanza del soldato aumentando quella dell’esercito: quando le armi furono finalmente a tiro lungo e gli scontri per masse distanti, la vittoria dipese da incalcolabili virtù di resistenza nelle masse medesime. Una necessità di educazione venne quindi a mutare l’opera militare: il soldato dovette sempre più rientrare nella obbedienza annullandosi in una passività automatica: il valore e la forza non furono più d’individui ma di gruppi: l’eroe nelle file inferiori rimase secondario, in quelle superiori dovette essere intellettuale.

Ma in ambo i casi egli non era stimato che per i servigi resi; la sua personalità non più temuta era subordinata ad un gruppo di funzioni più alte, rappresentate da individui spiritualmente più forti.

La guerra per la guerra, malgrado l’apparenza capricciosa delle sue decisioni, cessò presto, perchè il progresso della storia non sarebbe stato altrimenti possibile.

Poi una inversione si compì. Mentre nella preistoria tutte le arti e le industrie rudimentari debbono servire quasi soltanto a mantenere i guerrieri, che sono come i depositarii della vita e della razza, nella storia arti ed industrie sviluppandosi riducono i guerrieri alla propria soggezione, e la guerra non ha oramai più altro scopo che di garantire ad un popolo una qualche supremazia economica o civile. Questa anzi rimase la massima funzione della guerra. I nobili apostoli, che adesso negano la guerra accusandola di essere il massimo delitto umano e l’ultimo ostacolo alla libertà della vita, dimenticano che sino a ieri ogni vittoria civile dovette prima cominciare da una vittoria militare, e che la potenza della guerra fu in quasi tutti i popoli il migliore indice della loro potenza spirituale. Senza di quella non sarebbe stato possibile la coagulazione e la livellazione degli imperi, che uguagliavano popoli e razze: la guerra era un veicolo della civiltà, alla quale il sangue meglio dell’olio, scemando gli attriti, precipitava il corso.

Non si può astrarre nella storia, o peggio ancora sostituire alla sua tragica successione una serie fantastica d’ipotesi.

Certamente vi furono piccoli popoli, in regioni anche più piccole, che ebbero sulla civiltà universale maggiore influenza dei più grandi imperi; ma nemmeno quelli stettero senza guerra, anzi nella loro angusta cerchia il suo furore raddoppiò, mentre il pensiero vi sfolgorava di luce divina.

È triste, ma bisogna pur confessarlo; nella storia tutto o quasi fu pagato col sangue. Ma nemmeno bisogna credere che il sangue fosse solamente moneta di guerra, giacchè in ogni altra lotta l’individuo dovette quasi sempre arrischiare la vita per guadagnare la vittoria. La gara, così apparentemente pacifica, del commercio e dell’industria, dell’arte e della scienza, è invece una guerra come tutte le altre, e tale resterà. Tutti vi si battono disperatamente con tutti: la sconfitta, se non produce la morte naturale, è una morte civile o economica, quasi sempre senza rivincita; il vinto finisce prigioniero in qualche funzione umiliante, o sopravvive come un invalido fra gli scherni del pubblico e i rimbrotti della propria famiglia. Vi sono ancora mestieri, che danno annualmente una mortalità superiore a quella delle più orribili battaglie, senza che di essi si possa fare a meno o sia almeno permesso di sperare nei rimedii della rettorica igienista: vi saranno sempre per ogni lottatore le stesse condizioni di lotta, e in ultimo per vincere dovrà sempre arrischiare tutto se stesso.

Forse il rapporto della mortalità colla vita, indarno tentato da Maltus in una piccola e falsa legge di egoismo, non muterebbe sensibilmente col cessare della guerra o col trionfo delle ultime speranze della medicina nella cura delle più micidiali malattie trasformando i malati in convalescenti: forse un ritmo misterioso domina la vita e la morte, e questa finirebbe sempre col riprendersi su quella, con altre armi, sotto altro nome, il medesimo numero di vittime.

La morte nella guerra è ancora la più spirituale, poichè l’uomo vi soccombe alla forza di una idea, nella coscienza della propria volontà: è quindi assurdo affermare che il soldato vi sia schiavo, perchè non può sottrarvisi che incorrendo nella disobbedienza il medesimo rischio, mentre invece egli vi si muove come in ogni altra opera, libero dentro una necessità spirituale.

Per coloro, che negano la guerra, il problema non è dunque di sopprimerla come gara di morte fra individuo e individuo, popolo e popolo, ma di sostituirvi modo a modo, arma ad arma. Nella guerra commerciale una macchina, mutando le condizioni del lavoro, può decimare una classe di lavoratori: una scoperta geografica spostando le correnti del traffico, ridurre quasi deserti certi paesi prima fin troppo densi di popolazione: una idea religiosa rovesciare i più forti imperi, o preparare come nelle missioni cattoliche la distruzione dei popoli sopravvissuti ancora nella preistoria, mettendoli colla più caritatevole delle intenzioni a contatto della storia moderna.

Però è consolante constatare la diminuzione della guerra nella storia, come veicolo di vita e strumento di civiltà: oggi infatti non ha più capricci nè di piazza nè di corte, la sovranità del pubblico domina tutti gli organi di governo, nella coscrizione l’esercito non ha oramai altro spirito che quello della nazione. I soldati vi soddisfano a malincuore un obbligo, del quale non comprendono abbastanza bene l’idea ma del quale sentono anche troppo il peso; per loro non vi è speranza nè di fortuna, nè di gloria nelle armi, in caserma non sognano che la propria casa, conoscono poco i superiori, non li amano se buoni, li ricordano per tutta la vita se cattivi. Quello, che si chiama spirito di corpo fra le varie sezioni dell’esercito, non è che una piccola vanità di superficie; nel fondo tutti i soldati ridono del proprio mestiere in tempo di pace e lo temono pel tempo di guerra.

Eppure mai come ora il peso del servizio fu più leggiero, e questo più breve. Ma lo spirito militare non vi è più.

Nell’Italia mancava ogni vivente tradizione di guerra, le ultime nel periodo del risorgimento furono quasi tutte infelici, nell’Africa la prima guerra veramente italiana concluse alla più umiliante sconfitta. Ma una più profonda ragione impedisce che nella nazione e nel soldato ferva uno spirito militare; l’una e l’altro passarono repentinamente dall’inerzia di una secolare servitù alla attività febbrile di un periodo industriale, sollecitato da tutti gli aculei della modernità. E poichè la caratteristica fra lo spirito industriale e quello militare sta appunto nella cooperazione libera dell’uno e forzata dell’altro, l’improvvisazione stessa di tutte le libertà e l’orgoglio della coscienza sovrana, anche nei più bassi individui, dovevano contrastare alla nuova formazione di sentimenti e di abitudini guerresche.

Nell’esercito invece, l’ufficialità, è questa la recente parola, si arrestò ad altri ostacoli.

Essa procedeva non per coscrizione ma per arruolamento, era un corpo chiuso, nel quale pochissimi penetravano salendo dalla caserma; gli. ufficiali uscivano quasi tutti dalle famiglie della borghesia, nella quale la carriera militare ricominciava a funzionare come un tempo l’ecclesiastica, alleggerendo il peso o diminuendo il numero dei suoi membri. Tradizioni militari non duravano che nel Piemonte, e quindi offendevano le altre vanità regionali; le glorie più originali di guerra si erano prodotte a fianco dell’esercito dietro a Garibaldi; ma l’esercito dovette subito diventare grosso per necessità di assetto e di difesa; e i soldati vi furono provvisorii, gli ufficiali vi si disposero come degli impiegati. Poi la lunga pace spense dentro di loro, intorno a loro, gli ultimi echi delle guerre patriottiche, mentre la lentezza delle promozioni, il peso della anzianità, la disattenzione del pubblico e le nuove ripugnanze industriali vi intristivano la vita.

Ma se l’odio rivoluzionario altrove inventò la parola «militarismo» condensandovi tutte le critiche alla guerra e alla funzione delle armi sino a denunciare negli ufficiali un nuovo ordine di nemici intesi a tutto compromettere per la vanità della propria assisa, nell’Italia la cordialità fra popolo ed esercito non fu mai rotta. Questo non era forse molto stimato; si sorrideva del suo passato troppo recente, si scherzava sulla probabilità di altri smacchi futuri, salvo a sanguinare come nel riaprirsi di una ferita a qualche nuova umiliazione della nostra bandiera.

Il vecchio scetticismo italiano ghignava ancora, ma il nuovo ideale militare brillava nella coscienza di tutti.

Oggi il soldato non è più che il cittadino momentaneamente eletto a questo ufficio di difesa come a qualunque altra funzione, senza che il suo carattere e la sua vita ne vengano profondamente mutati. Il soldato vi si assoggetta come ad una tassa, impara materialmente il mestiere, ma ignora troppo i veri motivi della politica nazionale per accettarne volentieri i rischi di morte. La sua paga è così piccina che pare un’ironia, l’uniforme gli pesa come una livrea: invece le necessità della disciplina irritano l’orgoglio del suo individuo, e le inevitabili ingiustizie di corpo offendono la sua coscienza. Egli serve scontento e nostalgico, distruggendo colla critica le poche bellezze della propria funzione, esagerandone con un risentimento di fanciullo e di servo i difetti.

Impossibile quindi parlare di spirito militare nei soldati.

Gli ufficiali invece dovrebbero averne uno soltanto perchè ufficiali. Essi formano nell’esercito come una fitta rete, che vi rattiene i soldati, vi sono una aristocrazia intellettuale e morale; su loro pesa tutta la responsabilità dell’azione, a loro soltanto ne vanno tutti i profitti. Qualche cosa dell’antica casta guerriera sopravvive in essi, isolandoli dal resto della gente: il loro pensiero, la loro virtù e la loro vita dovrebbero crescere dalla morte. Invece la segregazione, sottraendoli alla impurità degli intrighi e dei guadagni comuni, ottunde spesso in loro il senso della realtà quotidiana. Però nessuno degli antichi vizi guerrieri offusca più il loro spirito. Nella pace come nella guerra la coscienza moderna non tollera più eccessi di prepotenza; se accadono, bisogna nasconderli, perchè la stampa li denuncia, gli avversari ne urlano e gli indifferenti stessi se ne offendono. Il coraggio medesimo deve essere senza ferocia, dacchè il patriottismo non arriva più all’odio del nemico, nemmeno nella guerra fra i fuochi fatui delle battaglie.

Gli ufficiali si arruolano giovani, vanno di reggimento in reggimento, di guarnigione in guarnigione, oziando nella pace, stancando la propria vita nell’attesa di una promozione, nei modi comuni ad ogni altra categoria d’impiegati. Il tempo soffoca presto la poesia giovanile, la disciplina livella le più nobili originalità, le lunghe paci non consentono rivelazioni improvvise di merito: come riempire la vita? A che aspirare? Le paghe sono povere, urgenti le necessità della decenza, dolorose quelle della famiglia, se l’ufficiale se ne componga una. Così in tutti o quasi comincia a mezzo la carriera il rimorso di averla sbagliata: per uscirne è troppo tardi, e l’ufficiale vi resta come deformato dalla propria funzione, incapace di rientrare nella mobilità della vita. Davanti, lontano, non vede che una pensione, quando gli anni lo abbiano portato ai limiti estremi della carriera.

Ma sarà stato un guerriero?

Eppure nella vita moderna non vi è più nobile ordine della milizia: la sua stessa miseria ne diventa la prima bellezza in un tempo, che sacrifica tutte le altre alla appariscenza della ricchezza. Qualunque possa essere quindi il motivo, che spinge gli individui alla carriera militare, il rimanervi al di fuori e al disopra della vita comune eleva la coscienza. Forse nessun’altra è più povera e migliore che quella di un soldato.

Si batterà egli? Tutta la sua vita è in questo problema di morte. Non si batterà? E allora il suo sacrificio è stato indarno, come quello delle zitellone, che allevano i figli altrui e sono sempre egualmente sole.

Non importa: il carattere militare moderno non può essere che così. Garibaldi ne fu la prima ideale figura, che apparve come in un chiarore di visione al disopra dei monti, al di là degli oceani, sino agli ultimi confini.

Egli era un guerriero che non amava la guerra, non portava assisa, non si preoccupava delle armi: non fu quasi mai pagato, servì re e repubbliche comandando in battaglie, che erano quasi sempre un olocausto. Le sue sconfitte potevano interrompere la sua opera, non la sua fede; le vittorie non mutavano mai la sua condizione di cittadino povero, che aveva una patria ovunque un diritto chiamava a raccolta. Sapeva ubbidire quanto comandare contro sè stesso, anche nel sogno più bello di gloria, nel momento più tragico di una rivoluzione: tutti i posti erano uguali per lui nella guerra e nella pace: poteva essere facchino ed ammiraglio, generale e maestro di scuola, dittatore e bandito, agricoltore e ministro: come lui i suoi soldati non chiedevano gradi e si accontentavano di qualunque paga, si adunavano al primo pericolo di guerra e si disperdevano nella pace, sparendo fra il popolo non mutati per mutare di fortune.

Ma questo eroe, che nella propria ingenuità avrebbe potuto essere di ogni tempo, questo cittadino del mondo, che si sentiva solidale con tutti i popoli, era l’anima più italiana dopo Dante. Non era entrato in nessuna scuola, non si chiuse mai in una sola politica: sapeva che la guerra è una necessità della morte, quindi vi serviva per gli altri aiutando, e ne usciva senza aver odiato il nemico, non chiedendo al vincitore che la libertà del vinto.

Nessun eroe fu mai così, nessun soldato sarà mai più moderno di lui.

Io domando dunque agli apostoli della pace: vi è qualcuno fra voi, che abbia fatto per essa più di Garibaldi?

In tutti i periodi storici la guerra fu sempre la prova suprema della superiorità, e il mondo vi si trovò come un uomo davanti alla morte per trarre dalla sua stessa tragedia le forze necessarie ai maggiori problemi della vita: non basta quindi denunciare tale contraddizione per toglierla, o conteggiarne i danni perchè la coscienza se ne ritragga.

La guerra cesserà solamente quel giorno, nel quale nessuna idea per realizzarsi abbia più bisogno di vincere colla forza le resistenze brute di un istinto o false di un interesse, quando cioè l’anima di un popolo possa sottomettersi alla necessità spirituale di un fatto, come l’anima di un uomo superiore, accettando anche il danno e il dolore. È necessario quindi alzare la coscienza morale ancor più dell’intelletto per togliere alle passioni il diritto d’intervento nel dibattito delle idee, e alla volontà la forza di resistere contro l’evidenza del pensiero. Il progresso morale si realizza appunto in una lenta, ma continua sostituzione del diritto alla forza, in questa eroica prevalenza della carità sull’egoismo, nella aristocratica superbia di sentirsi superiore alla propria condizione.

È inconsolabilmente triste che l’uomo debba uccidere l’uomo per il trionfo della civiltà, giacchè non la morte ripugna alla nostra coscienza di mortali ma l’uccisione umana. Nella vita delitto e pena sono due forme correlative; l’assassino ammazzando non usciva dalla lotta della natura, mentre il giudice condannandolo a morte, s’innalzava sopra di lui, oltre la sfera stessa dello spirito, ad una onnipotenza, che l’uomo non può avere sull’uomo.

Ecco perchè abolimmo la pena di morte.

Contro la guerra ritornano quindi più forti e più grandi tutte le obbiezioni a quella pena. La guerra non deve essere negata per le conseguenze del suo danno, mentre sarebbe forse impossibile dimostrarlo sempre interiore al beneficio, se l’istinto e la logica della storia se ne servirono ovunque sino ai nostri giorni, ma contro la guerra debbono convergere tutti gli sforzi della nuova rivolta ideale. Il trionfo della libertà nell’umana coscienza verrà appunto dalla sottomissione di tutti gli istinti e le passioni individuali alla verità impersonale della storia, e nella sostituzione dei mezzi morali ai mezzi materiali; il progresso non potrà essere rapido, ma come non si arrestò mai, così non si fermerà prima di aver toccata o quasi la meta. La morte seguiterà a funzionare come l’aspra nutrice della vita senza che l’uomo sia più il carnefice dell’uomo. Nell’attacco e nella difesa di guerra la spiritualità soccombeva egualmente alla forza bruta: era come una eclissi, una notte improvvisa, nella quale la vita si sentiva precipitare dentro la tenebra antica: quindi lo spirito accese la fiaccola dell’eroismo a mantenerle un barlume.

Adesso nella guerra resti soltanto la bella poesia eroica, che riconosce nel nemico un fratello prima della battaglia e un fratello dopo.

La divisa di Rama, l’antichissimo eroe indiano era «vincere e perdonare, attendere, che il nemico ferito si rialzi, dare e mai ricevere»; quella dell’uomo moderno avrà un motto anche più alto «accettare tutto dalla vita e dalla morte, vivere nello sforzo della giustizia, morire nei sacrificio dell’amore».

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