CAP. VIII. La patria.

La nobiltà venne all’individuo dalla patria.

Sin chè questa non fu costituita, il gruppo nazionale, qualunque potesse essere la sua quantità e la sua qualità non ebbe ancora nè centro nè coscienza, poichè la patria preesiste sempre allo stato. Se la nazione è una individualità rudimentale, come un istintivo aggrupparsi di popolo, già delineato nella razza, intorno ad un qualche oscuro carattere spirituale, la patria esprimendo il passaggio dalla vita nomade alla vita fissa diventa il primo e più decisivo momento nella sua storia. Anteriormente tutto è vago ed incerto; nel nomadismo nessun carattere può perfezionarsi per l’eccessiva mobilità stessa degli individui, e perchè dell’opera e della casa non resta la traccia. La tradizione è appunto formata dai segni persistenti nel passato, e senza tradizione nessuna civiltà può avere una base.

Forse la patria fu l’ultimo accampamento, che non si volle più mutare, se la tribù guardando oltre i limiti del campo giudicò il territorio circostante capace di essere utilizzato, e il campo stesso non difficile a munirsi più solidamente. Forsanche nelle tribù pacifiche la patria fu riconosciuta da un’unanime grido d’angoscia in un’ora di pericolo davanti ad un assalto nemico: quel cantone era già una terra diversa dalle altre, una cornice ed un alvo, qualche cosa di religioso e di poetico, che l’anima barbara ed infantile sentiva in essa, solamente da essa.

Nella patria tutto si fissa, gli ordini domestici e guerreschi, i rapporti di produzione e di scambio la serie delle generazioni e degli avvenimenti: la religione, che prima aveva soltanto un tallo per altare, domani avrà un tempio; la sua tradizione solamente orale diventerà scritta, poichè l’architettura stessa è una scrittura, e tutte le altre arti non sono che differenti alfabeti per la necessità del linguaggio spirituale. Quindi la vita avrà per ogni individuo la radice in un ricordo inconfondibile, mentre la morte effonderà dalle ombre dei cimiteri l’irresistibile, dominatrice, poesia del proprio mistero.

L’accampamento si muterà presto in città e il suo territorio in regno: poi l’epopea alzerà per la prima volta la propria voce immortale.

Patria e governo sono dunque nell’antichità le due forme essenziali della politica; invece lo stato, ultimo termine della individualità spirituale, non appare che tardi ed in alcuni popoli nemmeno arriva a manifestarsi. La patria ne tiene quindi le veci esprimendone nella poesia le idee universali: come lo stato la patria innalza gli individui ad una vita superiore uguagliando le generazioni passate e future: come lo stato, non muore e reclama per la propria vita il sacrificio delle altre: religione e governo le sono sottomessi, la sua passione è già una virtù che sovrasta, un’idea che rischiara. Prima, nella tribù il guerriero difendendo il proprio gruppo non difendeva che se stesso, giacchè la sua forza di attrazione soltanto aveva potuto formarlo: nell’eroismo della difesa qualche amore di bambino o di donna ferveva, ma non determinava un libero sacrificio. Nella patria invece l’eroe è già così intero che i secoli non sapranno nemmeno più perfezionarlo: la sua espressione è quasi sempre guerriera, perchè la vita non ha ancora altro modo di mantenersi, ma l’eroe deve dimenticare il proprio interesse in quello più alto della città o del regno, che rappresenta. La barbarie rudimentale del costume anzichè offuscare tale sentimento lo fortifica; la ferocia del coraggio non scema nobiltà al sacrificio, le grandi parole della sfida e della morte hanno già un accento ed un significato, che il guerriero chiuso nell’egoismo di se stesso non potrebbe neppure intendere.

Così l’epopea fu la magnifica forma di tale momento rilevando le figure degli eroi e preparando la tragedia.

Nell’antichità tutto è diviso e significato per patrie, il loro costituirsi e il loro dissolversi apre e chiude una storia; il concetto frammentario del mondo non permetteva allora più alta idea: le leggi e gli dei erano della patria, sacri i suoi confini, vitale soltanto la sua aria. Perciò l’esilio diventava una pena peggiore della morte e il tradimento alla patria il primo dei parricidi. La necessità dello sviluppo rendeva i popoli irreconciliabilmente nemici, giacchè il non contrapporsi altri era uno sparire dentro se stessi: per i maggiori e migliori individui l’unica ascensione era nel dominio e sul dominio della patria essendo la loro anima al di là dei limiti di questa come straniera a tutto il mondo: il piccolo primitivo gruppo della famiglia non aveva per il proprio capo altro valore che il focolare e la casa, mentre tutti i suoi membri appartenevano alla necessità superiore della patria sempre in pericolo. Le funzioni del governo significavano diritti pubblici, quello privato era appena espresso e protetto dalla religione, gli altri delle arti delle scienze delle industrie rimanevano secondari. Il poeta, fosse pure Omero, non valeva l’eroe, l’artista che alzava il tempio non pensava nemmeno a lasciarvi il proprio nome, lo scienziato che contraddicendo già alla religione indovinava qualche legge della natura o dello spirito non poteva segnarla che in un proverbio. La patria era arme e politica, eroismo e poesia.

Oggi, ancora, a distanza di tanti secoli, malgrado ogni facilità e volgarità di cosmopolitismo, tale idea e tale sentimento non sono molto mutati.

Senza la patria, prima forma dello stato, nessuno popolo avrebbe potuto creare la propria storia e formare in se stesso una aristocrazia; senza la patria anche adesso nessun individuo può manifestarsi in una personalità originale e superiore. Filosofia e scienza soltanto sono cosmopolite, perchè impersonali nella sfera dell’astrazione: ma nel mondo della vita, ovunque l’idea per essere sentita deve avere l’accento di un tempo, in qualunque gruppo scolpito dalla storia i caratteri di razza di nazione e di patria sono una fisonomia fisica e spirituale. L’individuo sorgendo nel suo mezzo sognerebbe indarno di non avere rapporti di dipendenza, tutto il suo istinto è istinto della sua gente: il suo sangue, le sue passioni, le sue idee, il suo corpo nella esteriorità della forma e nel segreto della sostanza è un prodotto della patria ancora più che della razza. La lingua, per la quale le idee passano diventando parole, è anch’essa un lavoro lungo, oscuro della patria; per un mistero, che nessun’indagine potrà mai penetrare, l’anima del popolo vi è chiusa per sempre, poichè fuori di questa lingua non potrà mai dire la propria parola inconfondibile; invece l’individuo mutando luogo o magari non mutandolo potrà accogliere nell’orecchio gli idiomi di altri popoli, ma se il suo spirito profondo debba esprimere un qualche carattere del proprio tempo, a tale alta funzione sarà necessaria la lingua della patria, prima unità dello spirito nazionale.

Nel mondo antico il concetto d’umanità, essendo ancora troppo oscuro, la sua ombra faceva da sfondo alla figura radiosa della patria, dentro la quale l’individuo non avrebbe quindi raggiunta mai l’assoluta libertà di se stesso. L’umanità sola poteva liberare l’individuo contrapponendolo pari allo stato. Tale liberazione fu annunciata nel cristianesimo, che primo fra le religioni osò davvero dichiarare gli individui uguali, ma il cristianesimo era pessimista, e per liberare l’individuo dovette disciogliere il mondo riducendo la sua vita storica soltanto ad un pellegrinaggio di prova imposto da Dio all’uomo. Senza discutere qui il valore di tale teoria, basterà osservare che questa liberazione si contraddiceva in se stessa, poichè fuori del cristianesimo non rimanevano nè verità nè libertà. Quindi all’indomani del trionfo cristiano si accese la lunga guerra tra il pensiero religioso e il pensiero laico per una più alta emancipazione affermando l’umanità e l’individuo al disopra di tutti i sistemi necessari al loro sviluppo. Oggi i concetti di umanità e d’individuo non hanno più bisogno nella loro astrazione e nella loro concretezza di nessuna patria e di nessuna religione: l’umanità ha una coscienza, nella quale si riconosce pari a se stessa in ogni luogo del presente e in ogni tempo del passato: l’individuo, poggiato soltanto sopra se medesimo, si sente un uomo intero.

La sua libertà è assoluta ma pari alla sua umana necessità; nessuno può imporgli una fede o una legge , alla quale il suo spirito non abbia volontariamente cooperato; nessuno imprigionarlo dentro il confine di una patria o la forma di un governo: egli può eleggere la propria dimora e il proprio lavoro, vivere amare morire ovunque il capriccio della volontà o la propria tragedia lo sospinga.

Ma questa libertà è dentro una necessità: libero deve adesso volere ciò che prima gli era imposto, accettando per nobilitarle in una più alta interpretazione quelle forme e quei dogmi, coi quali la storia gli salvò anticamente la vita.

Perchè nella storia nulla fu falso e tutto dura rinnovellandosi nello spirito. I modi e le forme, che il diritto antico imponeva all’individuo, non erano come tardi e falsamente fu poi spiegato, una tirannia egoistica della minoranza padrona del potere e intenta soltanto a dominare e ad ingannare; l’intangibile divinità dei dogmi, la deificazione dei re, l’assolutismo delle leggi esprimevano, invece la consacrazione di idee necessarie alla vita e rampollate dal suo istinto. Dunque vere. Ma il grado del loro sviluppo non poteva essere superiore a quello medesimo della massa, quindi nell’individuo mancando la potenza di sentirle intere in se stesso aumentava nella politica la necessità d’imporle come un ordine esteriore e di ottenerne colla forza l’adempimento. La religione fu allora la più terribile delle tirannie, perchè rappresentava il massimo sistema d’idee, che il popolo aveva prodotto e non poteva sorpassare: al di fuori di tale religione il suo spirito si sarebbe smarrito e disciolta la compagine della sua storia: i grandi individui ribelli dovevano essere degli eroi e dei martiri preparando colla loro negazione un mutamento superiore, ma la libertà della coscienza religiosa non era nemmeno in essi, perchè intendevano soltanto a sostituire dogma con dogma.

La patria, per limitare in questo capitolo l’esame alla sua idea, era una divinità più tirannica forse delle altre, un fatto più pesante sulla coscienza, più rigido nelle forme, più tagliente nei contorni. Schiacciava l’individuo e lo respingeva straniero: il suo interesse saliva fosco e solenne dal danno di tutti gli altri popoli, la sua politica era unilaterale, il suo orgoglio omicida. Quasi sempre unificata in un re accettava nel beneficio di questa unità tutte le mostruose insufficienze ed esorbitanze del suo capriccio; incapace di uscire dalla forma monarchica uccideva il tiranno e ne alzava un altro, i suoi confini stringevano del pari uomini e dei.

Ma la patria dura eterna.

Oggi nessuna legge vincola più l’uomo al suolo, i confini nen sono che una linea doganale, il suo diritto è sottoposto alla libera coscienza di ogni generazione che lo dilata e lo restringe mutandone i rapporti coi cittadini e cogli stranieri: lo stato non assorbe l’individuo, il governo non può sopra di lui compiere prepotenze, perchè nell’individuo vi è già tutto l’uomo e nell’uomo l’umanità.

Nullameno la patria, questa unità costante nel tempo e nello spazio, è l’origine e il fulcro di ogni vita individuale, appena l’individuo innalzandosi acquista valore di rappresentante, scoppia in lui il problema di un’equazione fra le proprie qualità rappresentative e il segreto di quelle, che nella massa non sanno singolarmente esprimersi. Se fra le une e le altre non sia quindi una storia comune, e il sangue e l’istinto non le sospingono alla stessa meta, il rappresentante non potrà davvero rivelare i rappresentati; nessuna sincerità d’intenzione o di studio in quello gli permetterà di intendere le voci mute o contradditorie di questi: mancherà nell’individuo l’identità d’interesse colla massa, e nella massa quella fede cieca e sorda che segue un uomo o magari lo sacrifica, ma non sapendo fare a meno di lui nell’amore come nell’odio. Certamente non mancano esempi di stranieri, che dominarono popoli stranieri, però nessuno di tali avventurieri fu rivoluzionario nella vita di un popolo lasciandovi tracce durature: furono invece meravigliosi ed effimeri adattamenti determinati da incidenze e coincidenze individuali ed esotiche. Nella vita quotidiana, pubblica o privata, la proporzionalità e l’adattabilità di rappresentanza è sempre nel sangue: nella famiglia nè il padre nè la madre possono essere sostituiti, nell’arte il contenuto è sempre di popolo e l’artista deve essere suo per esprimerlo: nella politica, la maggiore delle arti, l’opera essendo ancora più profonda ed inconsapevole, soltanto la vita prepara sul medesimo terreno rappresentanti e rappresentati e li stringe nei modi indissolubili di una stessa tragedia.

Nelle supreme funzioni come la scienza, o nelle basse come il commercio, l’individuo invece è libero nell’impersonalità del pensiero o dell’egoismo: nella scienza lo spirito deve anzitutto dimenticare se stesso, nel commercio l’interesse deriva da una differenza di merce e di mercato indipendentemente dal venditore e dal compratore.

Non così l’industria e l’agricoltura, legate fatalmente al suolo della patria e costrette a subirne tutte le vicende: quindi il commercio nella sua più astratta espressione, il danaro, è libero quanto la scienza, che può contraddire l’interesse patrio e magari averne il dovere. Il commercio non fu, nè sarà mai patriota. Quando certe leggi lo vincolano, ne trionfa colla frode; è una potenza come di parassita e di fisco esercitata sul produttore e sul consumatore.

Ma in qualunque opera di creazione l’uomo è soggetto alla necessità del sangue e del periodo nazionale; se l’opera serve soltanto all’ordinaria manutenzione della vita, è quasi libera come il commercio; se invece la trasforma, non vi si potrà sottrarre. Tutte le forze e le forme della vita stessa lo stringeranno in una rete invisibile ed infrangibile: suggestioni e miraggi inganneranno il suo spirito per condurlo ove deve andare e forse non vorrebbe.

Senza la vanità del nome e l’amore dei figli l’egoismo si stancherebbe presto del lavoro necessario alla famiglia: la patria è una famiglia ideale, più antica e più duratura. La solidarietà umana ci condanna a sentire nel giudizio degli uomini il premio e la pena, giacchè per noi soli ogni fatica diverrebbe insopportabile.

La patria nel periodo presente, che apre davvero quello della storia universale, diventa più intensamente di prima allo spirito un rifugio dalla solitudine nell’umanità: impossibile isolarsi; è sempre la stessa corsa della vita, ma lo stadio stringe tutto il mondo. Bisogna nella sua arena avere qualcuno, che ci applauda sperando nella nostra vittoria.

Il patriottismo moderno sarà quindi più spirituale dell’antico: non si tratta più di negare gli altri popoli, ma di superarli in una grandezza, che non si misura a territorii, con una forza che le armi non bastano ad esprimere. Se per la Russia può essere un vantaggio il non avere un passato, perchè ciò garantisce anche meglio l’avvenire della sua originalità, per l’Italia l’essere già stata due volte universale e l’aver saputo risorgere è arra di gloria e responsabilità nuova d’impero.

Una terza Italia senza un significato ideale nel mondo sarebbe il più assurdo miracolo della storia moderna, una risurrezione senza vita, una riapparizione di fantasmi, che passano soltanto.

Troppo poco.

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