CAP. III. Lo Stato.

Lo Stato è l’individualità di un popolo capace di sentire se stesso nella contraddizione della propria continuità e nell’opposizione cogli altri popoli.

Nella coscienza dello Stato sono dunque egualmente vivi i morti e i non nati, coloro che iniziarono la sua storia e quelli che la compiranno, e la contraddizione si rivela nell’urto degli interessi fra la generazione presente e le assenti. Ogni generazione compie l’opera propria dentro l’illusione della sua suprema importanza: così l’egoismo sprigiona fin l’ultime forze e il trionfo diventa più facile nella vanità di meritarlo. Invece il motivo di ogni azione preesiste quasi sempre lontano; lo schema è dato e l’idea già intera; il genio della generazione operante o conclude od inizia, quando invece può iniziare e concludere davvero è raramente e difficilmente grande.

Come e quando cominci lo Stato è difficile constatare.

Nel principio è l’umanità, poi la razza, quindi la nazione: nell’umanità l’antitesi più vasta e profonda esprime i rapporti primordiali colla natura e coll’infinito, ma al nostro pensiero anche adesso l’umanità appare ancora frammentaria: tutto dentro di essa è contrasto, le religioni e le filosofie, le scienze e le arti, i costumi e le leggi, i tempi ed i luoghi: la sua identità invece si rivela nelle categorie logiche e fisiche, l’uomo essendo egualmente uomo dappertutto.

Dentro l’umanità il primo cerchio concentrico è la razza, ancora un mistero dopo tante indagini e tante scoperte; ma le dottrine che battagliano per la pluralità delle razze armeggiano nel vuoto, mentre l’unità del genere umano è irrefutabilmente affermata dalla anatomia e dalla logica. Certamente nella razza è una individualità, dalla quale i caratteri si mantengono attraverso tutte le opposizioni geografiche e storiche; ogni razza ha una coscienza e un pensiero originale, che nella propria espressione limita quello dell’umanità: la geografia influendo sul corpo può modificare lo spirito così che la modificazione vi rimanga incancellabile. La razza è quindi il primo momento nella individualità di un popolo, ma la sua vita è troppo diffusa, perchè questo vi attinga la perfetta coscienza di se medesimo. È come nella famiglia: i suoi membri non diventano autonomi che superandola, senza la famiglia non esisterebbero, dentro la famiglia non sarebbero mai interamente se medesimi.

Ogni popolo serba però della propria razza il carattere essenziale; tutte le creazioni posteriori si ispireranno dalle sue concezioni primitive, nessun popolo anzi potrà forse uscirne mai. Le religioni sono quasi tutte di razza, almeno le grandi, e così i primi imperi, le costituzioni famigliari, gli organismi politici, le attitudini e le abitudini economiche. Lo specchio della razza è la lingua, primordiale espressione e sintesi del pensiero. Si può uscire dalla patria, è impossibile varcare i confini della razza; un bianco non sarà mai un negro od un giallo; una differenza resta anche nelle intimità più semplici del cuore, sulle cime più impersonali del pensiero.

Dentro la razza si forma la nazione: è un altro cerchio più stretto che addensa la propria sostanza e dà alla fisonomia un rilievo più inconfondibile. Ma le nazioni si iniziano quasi tutte nella preistoria, e quindi l’esame delle loro origini rimane quasi sempre impossibile: impossibile sapere veramente tutte le circostanze efficaci sulla determinazione di una individualità nazionale, poichè oggi ancora, dopo tante vanterie, la storia non raccoglie che i fatti massimi, mentre nei minimi sta forse il più essenziale alimento.

Poi le nazioni si coagulano negli imperi, si spezzano e sopravvivono o muoiono nei popoli. Talvolta sembrano consumarsi nella produzione di una sola idea come gli Ebrei, o stancano i secoli nell’inerzia come la China; per alcune la diffusione è nel numero, per altre nel pensiero; vi sono nazioni che regnano soltanto nella religione, o nella giurisprudenza o nell’arte o nel commercio; parecchie elessero per patria il mare, qualcuna oggi ancora è nomade. Vi furono nazioni che si riconobbero soltanto in un imperatore, spesso si allearono in un idolo, più spesso si trucidarono per un dogma.

Ma se la loro individualità fu tanto più visibile quanto più chiara era la loro coscienza, la loro vita invece fu sempre monca, perchè oscura era in esse l’idea della umanità.

Ogni nazione legò la propria idea e il proprio carattere nella morte ad un’altra, ma l’unità della nazione non bastò quasi mai a produrre quella dello Stato e a salvare l’integrità dell’individuo. Guardando gli antichissimi bassorilievi, che risuscitano dagli scavi, vi si riconosce un’arte ancora tipica: l’individuo era dunque soltanto nazionale, non viveva in sè, libero contro gli altri.

Se lo stato è l’individualità di un popolo, la sua prima antitesi è nella religione, che formò l’individualità primitiva: nello stato si chiariscono i rapporti dell’uomo con sè stesso e con gli altri, mentre nella religione i rapporti oltremondani costituiscono la più intensa necessità. Il dualismo fra chiesa e stato sta dunque nell’origine di entrambi, nè cesserà prima della loro fine.

Nello stato il carattere è l’idea giuridica, poichè la morale vi si fa legge per opera della volontà, che la munisce di sanzione; anche le religioni crearono leggi e sanzioni, ma il loro significato trascendeva la coscienza del sacerdote e del credente; nelle religioni il centro è fuori, in Dio; nello Stato il centro è fra pensiero e volontà, nel mezzo della vita, sopra un punto della geografia, dentro un anello della storia.

Se la ragione consiste nella compenetrante unità dell’universale col particolare e nell’identica libertà del volere universale e della volontà subiettiva, lo stato esprime tale unità nel proprio momento; lo stato è il popolo nella sua astratta e vivente individualità, ma il popolo circoscritto nell’opera politica, in quanto la politica si compone di rapporti fra uomo e uomo, non fra uomo e natura o fra uomo e Dio. Nello Stato comincia il vero processo della legislazione: prima la legge è un ordine esteriore, la volontà di un Dio o di un despota; nello stato invece la coscienza sente l’impersonalità della legge, ed elaborandola la sovrappone al legislatore ed al suddito. Naturalmente il processo storico parrà per lungo tempo smentire tale principio, ma invece non farà che svilupparlo.

Come individualità di popolo, lo stato è il rivale della chiesa e governa tutti gli altri ordini. La nazione sta in lui come in una cittadella imprendibile, perchè la nazione può soccombere ad una guerra, ma finchè i suoi individui abbiano in sè stessi questa idea statale la nazione non sarà vinta. Scomparsa l’idea, cancellata nella persona singola l’individualità nazionale, nè la religione nè la lingua bastano più a preservarle l’autonomia; le lingue si agglutinano e si fondono, le religioni si diffondono e si spezzano. La nazione non è più.

Lo stato come individualità spirituale non è però tutta la spiritualità di un popolo, perchè la sua religione le sue arti le sue scienze le sue filosofie vanno oltre. Esso è soltanto la sua coscienza operante nella legge, l’invisibile vessillo nelle guerre, la latente sicurezza del confine nella pace.

Fra i suoi individui alcuni possono essere superiori, la massa invece è sempre al di sotto, e tutti debbono egualmente soggiacere alla legge. Questa al tempo stesso è una emancipazione ed una tirannia, come emancipazione discioglie nelle anime i vincoli dell’arbitrio, come tirannia impone loro una norma necessariamente effimera ed incompiuta pretendendo ad una obbedienza assoluta.

Tale è l’antitesi d’ogni legge.

La costituzione fondamentale di uno stato riposa quindi sui modi imposti alle relazioni fondamentali della vita, il dovere militare e politico, l’assisa del gruppo domestico, la dipendenza del lavoro dal capitale, la libertà concessa alla chiesa e all’individuo, la posizione del popolo davanti a sè medesimo e davanti agli altri. Ogni stato è dunque dominato da due necessità essenziali: ha un’opera da compiere in sè e un’altra fuori, entrambe indissociabili nell’aiuto e nella mortificazione reciproca.

Senza questa doppia opera lo stato rimarrebbe inintelligibile. Ma la sua individualità riposa nel fondo dei suoi individui e crea la loro effimera forza; la grandezza di questi non è che una conseguenza di quello, la graduazione stessa della loro potenza nel servirlo, nel contrastarlo. In sè e per sè l’individuo sarebbe non solo troppo piccolo, ma non basterebbe nemmeno a rivelarsi.

Come nella natura così nello spirito le creazioni sono inconsapevoli; lo stato impara quindi di essere tale soltanto nella propria maturità, prima si dissimula sotto altri nomi o cresce fra processi anonimi; generalmente le generazioni più forti furono le prime che formarono lo stato, non quelle che dopo lo perfezionarono. Nella fanciullezza le generazioni sono più compatte, nella loro maturità invece la forza cresce agli individui e scema nella massa: così nella tragedia il personaggio è più grande che nell’epopea, perchè il poema è ancora tutto il coro: così nella pittura e nella scultura arcaica la figurazione è ancora tipica, di razza o di nazione: così la lingua non sa ancora piegarsi alle necessità della lirica e della dialettica.

Guardate la Grecia prima di Eschilo, Roma prima di Annibale, l’Italia prima di Dante, l’Inghilterra prima di Shakespeare, la Francia prima di Rabelais; nella Palestina Mosè fonda la religione e Giosuè lo stato, Saul è l’eroe della sua prima rivolta politica, Gesù il Dio della sua nuova religione.

Allo sviluppo della individualità dello stato furono massimi coefficienti lo spirito cristiano e l’individualismo germanico: col primo l’individuo si era costituito una inviolabilità religiosa, nel secondo la volontà affermava un diritto personale pari a quello della massa; ma la più bella individualità moderna appare nei comuni italiani; la loro orbita era minima, ma la loro concezione insuperabilmente originale.

Romani e barbari, regno ed impero, non vi si mostrano più, l’antica città greco-romana non risorge nel comune, piccolo mondo di uomini nuovi in lotta per nuove libertà, e che posseggono già le due idee universali della chiesa e dell’impero; ma il comune non è che la patria composta forse di poche case, circoscritta ad un minimo territorio coperto e difeso dall’ombra della cattedrale. Apparentemente stranieri l’uno all’altro i comuni sembrano non avere nazione, chiusi nell’egoismo della propria creazione come in una corazza infrangibile resistono a tutti i colpi, si dilatano senza mutare idea; sempre preoccupati di produrre tutto in sè stessi e per sè stessi operano come una negazione delle due unità mondiali, chiesa ed impero, ma per una delle solite inversioni del processo storico sono già lo stato moderno.

Poi gli stati moderni si dilatano. Per necessità di fusione quasi tutti sono monarchici, perchè la monarchia livella e dissolve più rapidamente le differenze barbariche di classe diventate nel più oscuro medioevo quasi rigide come quelle delle caste indiane.

Il dualismo fra stato e chiesa riempie il prologo della storia moderna, esagerato e falso in entrambi; la chiesa vorrebbe indarno imporre tutta sè stessa nella esteriorità politica dello stato, questo prorompendo oltre i limiti della difesa invade il suo campo spirituale, e impone la propria regola non solo alla esteriorità funzionale ma talvolta anche al libero sviluppo dell’idea religiosa.

Lo stato moderno ha soppresso ogni forma di servaggio, collocata nel lavoro la dignità umana, pareggiate le classi nelle leggi, tuffate nel popolo tutte le proprie radici. Quindi nella sua nuova coscienza fissò spontaneamente i limiti del potere e del diritto legislativo; non pretende più a dominare religioni scienze arti filosofie commerci: la sfera superiore non grava la libertà nella sua sfera inferiore degli individui, così il diritto privato è nettamente distinto dal diritto politico. Il potere dello stato si individua nella costituzione essenzialmente rappresentativa; invece dell’assemblea per masse una camera di eletti, perchè l’istinto del popolo passando attraverso le coscienze degli individui superiori si epuri e si prepari meglio a diventare impersonale nella legge. La nazionalità è la forza più viva nello stato moderno, le più grosse città non vi son più che municipî, ogni attività ha differenti organi e la divisione del lavoro individua le funzioni; al di là di sè stesso lo stato riconosce un diritto delle genti, ha cancellato dal proprio codice il diritto di perseguitare il ribelle politico oltre i confini, concessi allo straniero tutti i diritti civili. Oggi nessun sogno d’impero universale è più possibile per l’invincibile resistenza della individualità personale e statale: l’utopia invece canta nei voti per la pace universale e per l’alleanza di tutti i governi.

Così lo Stato moderno potè fondarsi umanamente; è ancora superiore all’individuo, ma sapendo di non esistere che per il suo sviluppo; antagonista nella storia, ma con la coscienza che l’individualità di questa lo limita e lo supera: non è nè ateo ne credente, nè borghese nè plebeo, la sua unità comprende tutte le differenze della nazione, la sua individualità le coordina nella politica; è uno e multiplo, si consuma e si rinnova in ogni istante per lo sforzo e nello sforzo di essere pari alla propria vita.

Ma lo stato deve individuarsi: se non si fosse fin troppo abusato in questo ultimo tempo dei paralleli fra la natura fisica e la spirituale, l’uomo e la società, si potrebbe dire che lo stato è lo spirito e il governo il suo corpo. Nello stato lo spirito è della nazione, nel governo invece la volontà prepondera spesso sullo spirito ed esprime essenzialmente l’effimero di una generazione: tutto ciò che è idea nello Stato si manifesta come interesse nel governo, ma siccome l’uno non appare che dall’altro, questo tende ad assorbirlo tutto nella propria opera, e il governo sembra alla moltitudine lo stato.

Vecchie e nuove scuole di sofisti cercarono già di identificarli, mentre nessuna differenza fu mai più profonda che fra loro. Nello stato l’individualità si afferma nel più alto carattere dell’idea nazionale; la sua volontà è istintiva e intuitiva, il suo interesse uno nella contraddizione delle generazioni. Nel governo invece tutto è immediato e tangibile; il suo pensiero la sua passione la sua volontà si alternano nei momenti di una generazione: lo stato esprime la concretezza storica, il governo la realtà della vita. Per lo stato il maggior problema è di tradurre nello sviluppo della individualità nazionale la maggior quantità di spirito umano secondo il ritmo fatale della storia; nel governo l’eterna invincibile difficoltà è l’epurazione di tutti i falsi pensieri e le più false passioni, che dalla vita effimera di una generazione si lanciano all’assalto dei massimi organi politici per prevalervi egoisticamente.

Se ogni stato umanamente non può essere che monco nel confronto dell’umanità, ogni governo è falso davanti allo stato, più tristo ancora che falso dinanzi al popolo. La sua direzione rappresenta sempre una conquista d’invasori, forti o abili, meglio temprati nella volontà che nel pensiero, capaci di molto osare perchè hanno bisogno di permettersi molto di più.

Lungamente la coscienza confuse stato e governo, la solita lotta tra materialismo e spiritualismo v’imperversò peggio che altrove; prima infatti che la legge fosse nella coscienza una rivelazione invece di un ordine, era difficile distinguere dentro la funzione legislativa la volontà dal pensiero, e vedere nel governante un mandatario invece di un padrone. Quindi la tirannia ripetè senza esaurirla in tutti i secoli la serie delle proprie mostruosità, e il tiranno non vi fu mai più orribile e dannoso che nella irresponsabilità del numero.

La storia ricorda anche adesso con ammirazione spaventevoli despoti, ma non potè mai ammirarsi nel quadro di una demagogia.

Infatti nel governo il carattere e la forza derivando dalla volontà, l’individuo deve meglio riuscirvi di un gruppo; la contraddizione più profonda e più apparente dei nostri governi rappresentativi si rivela nei suoi massimi organi legislativo ed esecutivo; in quello la pluralità dilatandosi diminuisce il valore dei propri individui e smarrisce quasi il senso della responsabilità, in questo la sempre più oscillante brevità del tempo nell’opera non consente alla volontà che un esercizio di capricci e dì espedienti. Poi nella passione dei concorrenti politici il potere legislativo non è che il prologo del potere esecutivo; si comincia dall’abbassarsi davanti agli elettori sognando di tornare sopra di loro colla potenza del comando; la generazione eseguendo nell’opera legislativa il proprio inconsapevole compito non si preoccupa che di sè stessa, non vorrebbe subire le conseguenze del passato, sottostare alle necessità dell’avvenire.

Adesso, in questa modernità così nuova e così illustre, il doppio problema dello stato e del governo è sottoposto alla stessa pregiudiziale: nello stato epurare la idea, nel governo il comando: all’individualità nazionale imporre la grandezza per meta e l’eroismo per mezzo, nell’individuazione del comando mettere una volontà capace di resistere alle oscillazioni di tutte le velleità, e così superba da preferire la violenza alla lussuria, così consapevole da non sentirsi contenta che nella solitudine della propria altezza.

L’Italia è monarchica. Il suo re dovrebbe sentirsi l’estremo della più lunga serie regale, il più moderno fra i sovrani d’oggi, poichè nel secolo XIX nessuna resurrezione fu pari alla nostra; la monarchia, che non vinse abbastanza nelle battaglie, dovrebbe avere in sè stessa la fede che aduna, l’orgoglio che solleva.

E invece?

Il popolo, che un eroismo di pochi fece libero, e la piccola assidua opera di tutti adesso fa quasi ricco, dovrebbe guardandosi nel passato sentirvi ancora la gloria immortale in uno spasimo di nuova grandezza.

E invece?

Share on Twitter Share on Facebook