CAP. XII. La beneficenza.

Sul limite di ogni sistema politico si leva negando l’anarchia, dentro ogni legge economica è nascosto il principio della beneficenza, perchè nessun governo può organizzare tutta la vita nazionale, e nessuna distribuzione legale della ricchezza compiersi nella giustizia, o compiendosi soddisfare alle esigenze della vita umana.

Questo profondo sentimento dell’insufficienza in ogni principio e in ogni forma fu la ragione istintiva della critica e l’inesauribile motivo della tristezza, che gravò come un’ombra sopra tutta la storia; invano nei giorni più fulgidi il pensiero delirò quindi d’orgoglio e il cuore si inebbriò di speranza, mentre la natura pareva già penetrata sino al fondo dalla investigazione filosofica e l’arte drizzava sui campi della conquista i capolavori del proprio genio. Un vinto rimaneva pur sempre dopo ogni vittoria e una ragione durava intatta nel vinto: ai vincitori invece la vittoria scemava nei risultati, senza che da presso o da lungi per la distesa della moltitudine la vita fosse davvero mutata, come non muta il deserto per lo spostamento delle sabbie, che il vento solleva in piccoli poggi o livella nuovamente sulla immensa pianura.

Nell’anarchia il pensiero protesta contro sè medesimo e, dissolvendo nella critica le affermazioni più necessarie, vi trova come una disperata compiacenza della propria grandezza: poi dalle rovine un sogno si leva a ricostruire un ricovero, perchè la vita più forte del pensiero mantiene sempre le stesse esigenze e prosegue nella creazione istintiva. Vi è quindi un sognatore entro ogni anarchico, come un poeta in tutti i sognatori: ma la poesia della negazione è amara. Se la critica, che distrugge, è forse la più forte, non basta egualmente a sè stessa; impossibile non passare col pensiero attraverso l’anarchia, più impossibile ancora rimanervi nell’azione.

Se qualcuno vi resta, l’anarchia non è più che un nome falso e l’anarchico un pazzo, il quale vuole costruire nel vuoto.

Di fronte all’anarchia, che non riconosce alcuna verità nei principi e nelle forme delle leggi, sta la beneficenza, che accettandole come necessarie le integra coll’arbitrio del cuore per operare nei loro interstizi. Ma se l’anarchia, pura critica, non può compiere alcuna opera, la beneficenza, puro sentimento, si consuma in un’opera istintiva ed irriflessiva: poi sollevandosi anch’essa al pensiero per atteggiarsi in un sistema ricade invece nei limiti e nelle insufficienze della legge. La sua logica cessa di essere infallibile, il suo occhio si vela, il suo orecchio si ottunde: non coglie più a volo il dolore, non riconcilia più la vita colla vita.

La prima verità della beneficenza, il suo principio e la sua forma, imprecisabile ed anarchica, sono nella carità. Nessun poeta potè mai definirla; non è amore perchè l’amore è generazione, non pietà perchè al dolore la morte giova quasi sempre più della vita, non dovere perchè nessuna logica pesa sulla sua spontaneità: spesso non ha bisogno di fede, quasi sempre ignora la speranza.

Tutte le religioni ne fecero una virtù, tutte le filosofie la ricondussero nella categoria dell’amore.

Eppure la virtù non esiste senza lo sforzo, e l’amore per essere tale deve scegliere.

La carità invece può faticare nell’opera, ma nessuno sforzo è nel suo sentimento; essa non sceglie tra i dolori, non ama l’infelice al quale soccorre, lo dimentica quasi nel beneficio stesso, senza un rimpianto lo vede allontanarsi nella morte.

Che cosa è dunque? Non so dirlo: come l’anarchia è la reazione critica del pensiero contro tutte le sue costruzioni, la carità è una reazione del cuore contro il dolore della vita, e oltrepassa l’orbita dell’uomo, discende agli ordini più bassi della natura, sale per le sfere più alte del paradiso, dove la poesia sogna e la religione canta.

Nel mondo antico, quale è arrivato sino a noi per le ombre e le vacuità della storia, la beneficenza non sembra avere molto operato; forse nella sua lotta colla natura l’uomo impegnava ancora più sè stesso che nella lotta sociale, fors’anco l’invarcabile confine delle classi rendeva più difficile il sentimento dell’umana solidarietà. Fra padroni e schiavi il rapporto era come fra uomo e cosa; lo schiavo non aveva pel padrone che un valore patrimoniale, i padroni riuniti in una aristocrazia esercitata da un’assidua contesa d’impero non potevano intendersi nella pietà. Tale sentimento li avrebbe ancora più umiliati che consolati.

Certamente dal fondo dell’anima la carità in certe ore avrà parlato, perchè la sua voce sola è dolce nella tragedia umana, ma la sua opera non avrà potuto facilmente oltrepassare i limiti della parola e del soccorso causale ed immediato. Infatti la carità mira piuttosto al dolore spirituale, mentre la beneficenza si sforza a diminuirne le cause nella differenza degli ordini sociali.

La nostra erudizione non sa gran cosa sulla beneficenza antica, come si provvedesse ai malati senza famiglia, ai bambini senza genitori, ai feriti quotidiani, ai pazzi, ai ciechi, ai muti. L’ospitalità vi fioriva come una poesia e una virtù, ma aveva complessi motivi di relazioni commerciali e politiche.

Dell’India si sa che aveva ospedali pei cani e non per gli uomini.

Le prime formule moderne della carità squillano come una diana nelle lettere di S. Paolo: al solito il suo pensiero vi si manifesta rapido, violento, preciso, abbagliante. Il principio della sua carità è in Dio, il povero è Gesù medesimo, la carità deve obliarsi, non avere altra gioia che nel dolore lenito, non attendere ricompensa, umiliarsi dinanzi all’umile, essere una poesia ancora più che una virtù, una passione più che un pensiero.

Mai prima di S. Paolo la carità aveva ottenuto più mirabile ed efficace condensazione nella parola e nell’opera.

Il cristianesimo vi appuntò quasi tutto lo sforzo del proprio genio nei primi secoli per sconfiggere tutte le forze del vecchio mondo. Dal sentimento ingrandito della carità derivò l’azione della beneficenza: non contenta di consolare l’anima, o stancandosi nello sforzo di tale fatica, la carità ridiscese ai corpi, ai malati ai bambini ai vecchi: il pessimismo, che faceva uscire dal mondo tanti cuori ritraendoli come in una città invisibile, preparò nei sacerdoti e nei monaci la prima milizia della nuova opera; chiese e conventi furono ricoveri, la maternità spirituale della religione riempì nei cuori i vuoti della vita e della morte. Sul principio fra cristiani non vi era nemmeno più aristocrazia, e una solidarietà lirica e tragica affratellava gli spiriti.

Poi tutta la chiesa perseguitata dallo stato divenne un ospizio.

Quello fu il tempo eroico della carità e l’inizio della beneficenza, che adesso la nostra civiltà deve nuovamente trasformare.

Eppure la carità cristiana, così bella d’entusiasmo e d’abbandono, vedendo Gesù in tutti i poveri e dentro ogni dolore una prova imposta da Dio, restringeva l’umanità nell’orbita della propria fede. L’antagonismo delle religioni determinato dall’antitesi dei dogmi doveva finire alla separazione egoistica dei nuovi credenti: invano le formule più divine venivano ripetute, e i santi e gli eroi tratto tratto le attuavano nel sacrificio, mentre una aridità si distendeva sui cuori e tutte le passioni dell’odio vi si scatenavano ancora. Infatti il cristianesimo costretto ad armare i propri confini per non confondersi nella storia, perseguitato prima, persecutore poi, si disdisse, si contraddisse discendendo dal magnifico sogno della prima universitalità alla lenta cattolica conquista del proprio impero.

Un principio e una originalità di altre forme si introdussero nello stato; anzi più la carità digradava e più la beneficenza si specializzava negli istituti. Ma trasformata in leggi e munita d’organi questa cadde in tutte le falsità e le insufficienze legali: l’egoismo vi si mostrò coprendo colla maschera dell’amore divino il viso bestiale, il delitto vi mercanteggiò l’espiazione, la vanità vi cercò nella durata del beneficio un trionfo dì immortalità. Il clero depositario e governatore vi introdusse i brogli del commercio e le frodi dell’eredità; come sempre nell’irresistibile deformazione di ogni idea, che si realizzi, la beneficenza finì quasi col contraddire la carità.

Naturalmente il motivo religioso prevaleva sul motivo umano: in ogni lascito l’anima era più ricordata del corpo, ma il povero nel lungo rappresentare Gesù aveva ormai persuaso ai benefattori la legittimità della propria miseria. La parificazione in Dio, anzichè diventare uguaglianza umana, forniva un nuovo pretesto a giustificare l’ingiustizia delle più crudeli differenze. Per ottenere l’ultimo trionfo bisognava forse spezzare nuovamente l’orbita cristiana affermando senza Dio, magari contro di lui, l’uomo uguale all’uomo, e che la legge superiore alle antitesi delle funzioni nella vita aveva il dovere assoluto di sottrarre alle conseguenze micidiali della sua lotta coloro, che non potevano lottare.

Così la carità umana ricomincerebbe oltre la divina.

La grande rivoluzione francese se ne incaricò: adesso tale è il problema.

Della carità non è qui il caso di parlare: come prima, come sempre, è il sentimento più profondo ed oscuro dell’anima umana: sale dalla coscienza del dolore e va al dolore come la poesia alla bellezza, la scienza al mistero, la filosofia all’astrazione; è la solidarietà dell’uomo coll’uomo nel punto stesso, sul quale la vita dividendoli non può separarli, dentro la lotta che li costringe ad esaurirsi l’uno contro l’altro nel segreto delle anime inviolabile a tutti fuorchè al dolore e all’amore.

Ma la carità è anzitutto unità; se appare dalla religione, questa pretenderebbe indarno di contenerla, così sottile ne è lo spirito ed universale il principio, anzi le forme rituali la mortificano più spesso ancora che non la perfezionino nell’opera, come accade alla poesia nel verso, del quale non può fare a meno, nel quale non può tutta adagiarsi.

La beneficenza cristiana era quindi stata tutta nel potere della chiesa. Il benefattore sceglieva col beneficio i modi, la sua volontà durava esterna nel testamento, l’atto giustificava l’intenzione. Siccome la beneficenza non può uscire nella vita dalla forma del dono e nella morte da quella del testamento, accadeva fin troppo spesso che la donazione era soltanto un atto d’ipocrisia e di vanità. Spesso anche il testamento non esprimeva che la suprema incertezza del testatore; nella gamma della parentela l’uomo ama perchè ama, inconsciamente, o non amando accetta senza discutere la solidarietà del proprio gruppo; al di fuori di questo cominciano invece tutte le difficoltà dell’elezione. È difficile, per non dire impossibile, eleggersi un erede per merito o per amore; intuizione ed esperienza ci rendono pur troppo pessimisti, si sente un’avarizia d’interesse in ogni complimento, una cattiva speranza nella devozione, s’indovina, si indaga e si indietreggia finendo col rimanere soli. Quindi si prescieglie un’opera pia piuttosto per la disperazione di non poter proseguire la propria vita in qualcuno che per una vera pietà del dolore umano. Per sentire l’umanità nella sua folla impersonale e amare la sua angoscia anonima bisogna che l’anima s’innalzi sulle cime più alte.

Il cardinale di Richelieu invece diceva: ho imparato ad amare i gatti dopo aver conosciuto gli uomini.

La chiesa dominando dal medioevo sino ai nostri giorni l’immenso patrimonio delle opere pie non seppe mai coordinarlo nemmeno nel proprio spirito religioso, quindi la sua legislazione fu come frammentaria: provvide rudimentariamente a quasi tutti i bisogni, anche più delicati e segreti, ma la sua amministrazione rimase al disotto di ogni critica, e il suo governo aperto alle invasioni di tutti i brogli e di tutte le violenze.

Adesso la beneficenza, diventando funzione dello stato succeduto alla chiesa, deve organizzarsi in un sistema di leggi, che integri quello della lotta per la vita. Nessuno nell’interezza delle proprie forze fisiche e spirituali deve essere aiutato, nessun dramma domestico bastare alla giustificazione di una simile ingiustizia: i genitori debbono provvedere ai figli, i figli ai genitori; se negli uni e negli altri la viltà tradisce il dovere, la beneficenza non può soccorrere, altrimenti il beneficio diventa premio e sprone al difetto.

Non bisogna per una falsa pietà del bambino o del vecchio che lo stato succeda nelle funzioni della famiglia: invece deve integrarla nella sua insufficenza contro il male incolpevole. La beneficenza si svolgerà quindi per tre ordini: coloro che non possono ancora lavorare, i bambini: coloro che non possono seguitare nel lavoro, i malati: coloro che non possono più lavorare, i vecchi. Naturalmente queste tre categorie ne contengono ognuna molte altre, e i bisogni dovranno specializzarsi coi rimedi, ma il principio non muterà.

Questa beneficenza, come diritto dell’individuo e dovere dello stato contraddice all’antica.

Per tutto il corso della storia lo stato espresse la lotta per la vita nella sopravvivenza dei più forti e nell’unità spirituale della nazione; ora una più alta coscienza gl’impone la difesa dei deboli, ma solamente è debole chi non ha in sè medesimo le forze della natura e intorno a sè la difesa della famiglia. Per ogni altra differenza di ricchezza, di forza, d’ingegno, di fortuna lo stato nè può nè deve intervenire.

La carità soltanto serba un tale diritto: guai ancora alla carità, se il suo sentimento non sia davvero infallibile!

La bella parola di Gesù «la tua mano sinistra non sappia il dono della tua mano dritta», l’altro precetto egualmente bello « la carità deve chiudere gli occhi e aprire le braccia» non sono veri che nell’eroismo. La carità è al disopra della legge, però la sua opera compiendosi nella vita vi produce conseguenze soggette alla critica; e se non falla davanti a sè medesima prodigando soccorso agli immeritevoli, o raggiunge anzi la perfezione preferendo i colpevoli agli innocenti, nella società la sua azione può determinare un pericoloso aumento di mali.

La recente troppo facile larghezza nel soccorso ai bambini, ai malati, ai vecchi, non ha prodotto altro vero risultato che di rilassare o tagliare gli ultimi vincoli domestici. Per qualche bambino, che poteva essere incolpevolmente senza scarpe e senza colazione, si istituirono società di patronato e refezioni scolastiche, che furono premio all’egoismo dei peggiori parenti, giustificazione alla negligenza degli altri, mentre il fanciullo si sentì nel cuore diminuire il dovere di figlio. Poi dai bambini il danno ricadde sui vecchi, giacchè col moltiplicarsi dei ricoveri crebbe l’ignominia dell’avarizia domestica nei figli, che non vollero più provvedere ai padri.

Ma la rettorica democratica seguita a vantare tali ricoveri come tanti eden; invece i vecchi sono così insociabili che non possono vivere insieme, e la peggior vita domestica ridiventa per loro preferibile a quella del migliore ospizio. Non li avete mai visti? Non ricordate di aver parlato con qualunque? Prima l’impossibilità di scacciarli li rendeva tollerati in una vita tollerabile.

Poi in questa sostituzione del dovere di stato al dovere domestico non è possibile mantenere alcuna misura; la vanità dei preposti al beneficio cresce dal numero stesso delle concessioni, la politica vi si mescola, i ricordi della carità cristiana aiutano, i clamori delle utopie sociali incalzano; si afferma che ad ogni infelice basta essere tale per avere diritto al soccorso, che il decoro pubblico non può permettere la oscenità pietosa di certi scandali, che la società è madre di tutti, il bene sempre bene.

Invece una funzione legale non è e non può essere che nella precisione della forma: al di là si corrompe.

Nel presente periodo industriale, fra tanta ascensione di idee e di uomini, la morale non superò certamente l’antico limite cristiano. Nel volgo l’incredulità fu quasi sempre emancipazione del dovere, lo scherno alle pene e alle ricompense d’oltre tomba rese più facile l’irresponsabilità del male acuendo sino allo spasimo la bramosia dei beni immediati: l’uguaglianza della sovranità politica pareggiando nel costume classi ed individui accese in tutti più viva la passione della vanità, così che il non raggiungere la comune eleganza fu più doloroso del sapere il proprio padre in un ricovero di mendichi.

Non poteva essere altrimenti: ogni idea, ogni periodo sociale ha le proprie bassezze.

Non vi è più aristocrazia, ma la dignità umana scema nell’interpretazione di sè stessa senza che nemmeno i partiti d’avanguardia ne diano l’allarme.

Infatti quale di questi fece ancora della beneficenza una questione pregiudiziale nel proprio programma, mentre pei poveri, pei più infelici, che tutti fingono d’amare e così pochi amano, vi è già un patrimonio di un miliardo e mezzo, col quale potrebbero quietarsi le più stridule miserie? Tale patrimonio frazionato, polverizzato in un numero folle di motivi e di istituti, non serve oramai più che ad alimentare la propria burocrazia; le sue rendite assorbite per quasi tre quarti dalle spese di amministrazione vengono per l’altro quarto distribuite col capriccio e nel capriccio; le delegazioni comunali e provinciali non vi portarono che una indifferenza di egoismo individuale o una qualche subdola passione d’intervento politico. Nessuna legge vi potrà provvedere, se non liquidi tale patrimonio gettandolo sul mercato per trasformarlo in rendita pubblica. E adesso il mercato è forse abbastanza ricco per sopportare la prova.

Ma anche in questo caso sarebbe difficile rifare la distribuzione del grande patrimonio per provincie e per comuni provvedendo nella più necessaria misura alle tre grandi categorie della miseria umana, il bambino, il malato, il vecchio. Egoismi di religioni e di città insorgerebbero brandendo tutte le bandiere, perchè nell’egoismo tutte le idee e tutti i simboli ridiventano pari.

La filantropia non vi ha forse sostituito la carità?

Gettate una rosa nel pantano, lasciatela putrefare, e raccoglietela ancora per fame una decorazione; ecco la carità diventata filantropia. La carità, dimentica sè stessa, cerca il dolore per consolarlo, non vuol sapere che è invincibile; non distingue fra dolore e dolore, si abbandona alla prima pietà, sorride contenta nel primo conforto. La filantropia invece fu la virtù di un vizio in coloro, che negavano la religione per odio dei suoi torti storici senza avere penetrato il suo segreto. Quindi visse nell’esteriorità: come un mantello di teatro coperse le macchie sugli abiti degli attori, che si ritiravano dalla vita: diventò blasone alle vanità bisognose di far dimenticare la propria origine, compiè l’apostolato fra le mercuriali, profittò della nascita come di un motivo idilliaco, si drappeggiò nelle gramaglie come in un abito di gala. Atei, ribelli, democratici la vantarono come una modernità, ed invece era più antica della carità, se l’ombra fu prima della luce.

Nel vecchio proverbio la mano che dà è al di sopra di quella che riceve; nella filantropia invece il gesto fu disegnato più largamente nell’aria perchè si vedesse più da lungi la mano del donatore. Poi la ricchezza industriale gonfiandola ne fece una delle forme più caratteristiche della propria epoca: nulla potè quindi resisterle, l’antica delicatezza si ottuse e la carità si nascose. La politica parve aiutare riconoscendo nella filantropia come una decima, che la ricchezza pagava alla miseria; i ricchi, i gaudenti ne furono allegri, perchè tale decima davanti alla loro coscienza giustificava molti torti, calmava indefinibili inquietudini. Essi sapevano fin troppo che la legittimità della loro ricchezza non era senza peccato e che il suo comando non esprimeva abbastanza nè un pensiero, nè una volontà. Al disotto la nuova immensa massa umana aveva già dei clamori di gorgo, che si apre e si chiude voracemente: al disopra il cielo era vuoto.

La borghesia costretta dalla propria fortuna ad assumere l’impero della storia ne aveva soltanto il genio industriale; la sua bella tradizione era troppo lontana, il suo eroismo rivoluzionario già consunto, il costume senza nobiltà, il carattere senza quella rigidezza, che essendo limite al di dentro può segnarne altri ad altri.

La filantropia fu la sua carità.

E volle quindi che del proprio danaro non un suono, non un raggio andasse perduto. Il trionfo laico contro la chiesa aiutò nondimeno la trasformazione della beneficenza: brefotrofi, ospizi, ospedali, istituti si rinnovarono in una lindura, con una agiatezza insperata, ma il povero meglio trattato fu più straniero di prima, mentre la filantropia non amava, non curava davvero che i filantropi. Il perfezionamento esteriore dei modi se giovò ai corpi, non giunse alle anime, la nuova milizia sostituita a quella antica della carità si compose soltanto di impiegati e di professionisti.

Quale e quanta sia stata davvero nei risultati la vittoria della filantropia sulla carità è difficile accertare nell’abbondanza stessa dei documenti per la loro poca sincerità; ma fra ricco e povero forse la distanza spirituale non si allungò mai più disperatamente. Che avranno pensato, sentito gli abbandonati, i malati, per quelle dame, che credendo di dover loro un qualche aiuto avevano bisogno di acuire di allargare la gioia della propria festa, profondendovi tesori e distraendone per loro solo pochi centesimi? A chi i più riconoscenti, nei quali lo spasimo condensa il bisogno della devozione, avranno potuto mandare dal cuore il muto grido, l’indicibile parola?

Purtroppo il dolore soltanto va al dolore; solamente gli occhi, che hanno pianto, veggono negli altri occhi le tracce delle lacrime.

La filantropia è la carità di chi non soffre, non ama, non pensa: non si può chiederle più di quanto possa dare, non bisogna condannarla nella sua opera, nella nullità del proprio segreto. Come tutte le idee istintive e le forme spontanee essa è una virtù nella fisonomia di un’epoca, nel carattere di una classe; borghese ed industriale non doveva avere le belle doti della aristocrazia e della religione; poteva più facilmente allargare la borsa che il cuore, dimenticare la vanagloria del dono che sentirne l’insufficienza.

Il suo egoismo ingenuo, la sua prodigalità calcolata, la sua volgarità superba sono essenzialmente del nostro tempo, ma forse non lo oltrepasseranno.

— Perchè sorridi tu sempre così a quella vecchia signora, che non ti ha mai dato un soldo? chiedeva sull’uscio della chiesa un mendicante ad un compagno.

— Ma il suo sorriso è così triste e mi fa così bene!

Forse nessun giudizio somiglia così a quello di Dio come il giudizio di un povero.

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