CAP. XI. La pena.

Tutti i grandi miti religiosi cominciano dal dramma del peccato e svolgono la vita come una prova di pena: oggi, dopo tante vanterie di teoriche positiviste, il sentimento e il concetto della pena sono ancora interi nell’anima moderna.

Il diritto criminale, superiore ad ogni altro, poichè pone tutto l’uomo di fronte a se medesimo e nel cospetto dell’umanità, parve subire negli ultimi tempi la più umiliante degradazione. Le nuove teorie antropologiche, cominciando dal negare il libero arbitrio e annullando così di un sol colpo la morale, giudicarono la delinquenza soltanto una retrogradazione nativa, o una conseguenza di una qualunque inferiorità di struttura o di funzione nell’individuo. Il bene non era dunque che una convenienza di ordine individuale e sociale, senza contenuto, mutevole non soltanto di modi ma di essenza nelle stazioni dell’individuo e nelle epoche della civiltà. In ogni uomo la volontà, determinandosi per prepotenza di appetito, non era più che un recipiente vuoto e diafano, senza coperchio e senza fondo: la nostra ragione, non più parte alla nostra volontà, si componeva un equilibrio instabile di idee e di sentimenti: il nostro spirito era la somma non il principio della nostra vita, e misterioso anche alle nuove teorie appariva e vaniva avendo atteggiato la fisionomia di un vivente, senza avergli dato una personalità.

Quindi l’uomo era soltanto un animale più alto, che l’evoluzione dell’animalità bastava a spiegare: la sua società si adunava per concordia d’istinti, le sue idee uscivano come farfalle dalla sensazione, la sua coscienza agiva come un centro coordinatore di tutti gli altri centri nervosi. Il suo linguaggio che possiede il verbo, la sua logica che si muove nell’astrazione, tutte le scienze che decompongono la natura, la sua arte che ne ripete la creazione, non erano che conseguenze di un qualche bisogno nella difesa o nella riproduzione della vita.

Tale antica contraddizione riappare quasi nuova: un esame acuto di alcuni fatti prima trascurati le diede sapore ed importanza, nell’insofferenza di tutti i vincoli acuita dalla recente emancipazione la discesa all’animalità sembrò una liberazione dalla tirannide dei vecchi dogmi: nella smania dell’uguaglianza democratica la livellazione dello spirito nella natura fu l’ultima vittoria.

Ma tutto questo giuoco di scuole e di libri non mutava la costituzione spirituale dell’individuo e della società: entrambi seguitavano a vivere nella sfera delle idee e la storia a compiersi come un misterioso sillogismo, l’uomo sentiva di avere un’anima e l’anima di avere una coscienza e la coscienza di essere libera. Tutti i rapporti fra uomo e uomo, generazione e generazione, erano di diritti e di doveri, distinti sempre, antagonisti spesso ai più vasti interessi e ai più intensi bisogni; l’uomo non poteva compiere un’azione senza giudicarla in se medesimo innalzandola ad un universale, gli uomini indissociabili fra loro si univano e cooperavano sotto un reciproco giudizio morale. I loro codici per approssimarsi all’ideale giustizia esprimevano i rapporti umani non della persona concreta ma dell’astratta, pur nell’astrazione tenendo conto delle fisionomie e delle funzioni individuali: i diritti consacrati dalle leggi erano aspetti della personalità, che la lunga fatica della storia aveva potuto rilevare: la giustizia, base e scopo della vita umana, si compiva dentro inevitabili contraddizioni, fra errori d’intelletto e vizi di cuore, ma gli uni e gli altri soffiando come un vento di bufera sulla fiaccola, che arde invisibile nel fondo di tutti gli spiriti, non ne raddoppiavano che lo splendore.

Il diritto penale era una gloria del genio italiano.

Le sue scuole antiche e moderne avevano brillato come un faro sull’Europa e anticipando sulla nostra legislazione modificavano altrove le leggi perchè la giurisprudenza, questa politica della filosofia e questa filosofia della politica, era forse la più caratteristica fisonomia dello spirito italiano. La grande anima del diritto romano sopravvive ancora in noi.

Il diritto penale, che spuntò nel diritto civile di Roma, aveva attinto la più alta perfezione nell’idea cristiana; la morale soltanto poteva infatti alzarlo di grado, non essendo il diritto penale che una esteriorizzazione della morale. Il giudizio morale è in noi un modo della ragione. Il nostro giudizio si ferma ad una valutazione, che spesso non dobbiamo nemmeno esprimere, o esprimendo non potremmo munire di sanzione, quando siamo pari nel grado; dispari invece, nel rapporto da superiore ad inferiore, come fra padre e figlio, il giudizio conclude nella condanna o nell’assoluzione. Ma come ogni delitto comincia in un peccato contro una legge, che offendiamo in noi stessi prima ancora che nella sua forma esteriore, così ogni tribunale è un riflesso di quello, che portiamo nella nostra coscienza. Talora vi può essere conflitto fra la legge profonda dello spirito e quella superficiale della società, fra il tribunale visibile e il tribunale segreto, ma al disotto della sua antitesi comica o tragica l’unità rimane infrangibile.

Invece un’altra irreducibile contraddizione contrista il diritto penale contendendogli i metodi della scienza e la verità della morale. La legge deve fatalmente nel codice classificare delitti e delinquenti isolandoli e quindi falsandoli: il giudizio d’istruttoria nello sforzo di ricostruire la scena delittuosa è costretto a servirsi solo di frammenti, che ricomposti mutano fisonomia e significato; il processo svolgendosi sui dati dell’istruttoria vi aggiunge i problemi dei testimoni, che non sanno o sanno male, s’ingannano o ingannano, con tutte le differenze e le insufficienze della, loro natura. L’ambiente del tribunale non è più quello del delitto, il duello fra accusa e difesa snatura argomenti e parole: finalmente l’accusato è un mistero. Egli può essere colpevole, ma se lo è, l’essenza della sua colpa ha ragioni misteriose anche per lui: il delitto come ogni altra azione è un filo in una corda, un anello in una catena. Tutta la vita individuale e sociale di quell’uomo vi passò e decise, ma come conoscere, riassumere, giudicare una vita? Legge e scienza vi sono del pari impotenti, e tuttavia la legge deve applicare una pena. Tale equazione, inesatta aprioristicamente, peggiora poi per influenza di infiniti altri elementi esteriori, senza che lo spirito umano possa mai sperare d’impedirlo.

Come il delitto è un peccato, che la nostra volontà realizza fuori di noi, così la pena legale è una esteriorizzazione dell’altra, che sopportiamo dentro, non già soltanto quale compimento logico della legge stessa o un motivo per spingere altri al suo adempimento, ma come una cicatrice rimasta dentro lo spirito nel punto ove la legge fu ferita, e che seguita a sanguinare finchè il pentimento non la chiuda compensando l’offesa. La quantità di questa non è dunque nella grossezza dell’azione, ma nell’intensità del torto, che sentiamo di avere commettendola; il suo danno esteriore può essere piccolo o grande, reparabile o irreparabile, decidere quasi sempre della pena, perchè la legge nel proprio giudizio va dal di fuori al di dentro, e spessissimo non può penetrarvi, tuttavia il danno non è la misura del delitto.

La legge giudica come può, condanna come deve, poichè la pena è un momento inseparabile nella legge come nel delitto; il giudice nel giudizio non è più un uomo bensì un rappresentante dell’umanità; la condanna chiude il circolo del delitto rimettendo il colpevole dinanzi a se medesimo e all’ideale.

Se la legge non condannasse moralmente, non sarebbe legge: se il peccato realizzandosi esteriormente non incontrasse la pena, muterebbe natura; l’errore intellettuale si sconta nell’inutilità della sua fatica o in una più greve fatica delle sue conseguenze; l’errore morale si espia nella pena dello spirito, la quale ci mette in conflitto colla logica della nostra vita, poi colla pena della società costretta a porsi in conflitto con noi e ad invertire contro di noi i propri rapporti.

Il prigioniero nella cella è l’immagine del rimorso chiuso nella sua coscienza.

Ma il rimorso può anche non essere, e allora il delitto fu soltanto formale: o il condannato essere innocente, e allora lo spirito umano gli si inginocchia davanti singhiozzando del proprio errore e della propria impotenza. Invece la pena è ancora più necessaria nella legge che nella società.

Infatti la sua efficacia pubblica è ben scarsa.

Le statistiche criminali, che come tutte le statistiche pretendono di rivelare un segreto della vita, al solito non esprimono che conclusioni arbitrarie; la morale di un luogo o di un tempo non può essere significata da statistiche, le quali cifrano soltanto alcuni fatti e dalle cifre traggono affermazioni sulla totalità della vita. L’abbassarsi di certe categorie delittuose non prova un miglioramento nell’animo umano, perchè la sua perversità può crescere altrove, non lasciando conteggiare i guasti della propria opera: non è vero che la frode sostituita alla violenza sia sempre un progresso, non è vero che la diminuzione del numero delle condanne constati un rinnovamento nella coscienza pubblica. La criminalità è uno degli esponenti, non il maggiore e il più esatto della malvagità umana: nella criminalità stessa la graduazione d’importanza, dovendo badare più al danno che all’intenzione, falsifica la gamma della responsabilità: i processi contengono l’alea di un giuoco per la giustizia e per gli accusati: una maschera copre il volto di questi, una benda gli occhi di quella.

Così fu e così sarà.

La pena nella propria realizzazione soccombe alla medesima antitesi.

Dovrebbe, servendo alla difesa sociale, preparare nel condannato le condizioni di una guarigione morale, e non può: la segregazione dalla vita comune, la coazione dei modi della vita carceraria, l’impediscono. La segregazione inebetisce e consuma lo spirito, la comunanza propaga il contagio dei peggiori; la condanna appare quasi sempre ai condannati come una partita perduta per inferiorità di fortuna o di condotta nel giuoco, l’avvenire fuori del carcere presenta difficoltà maggiori di quelle già inducenti al delitto, dentro al carcere l’inutilità della esistenza vi sopprime colla speranza, la forza di qualunque trasformazione. Oramai tutti i sistemi furono sperimentati senza che le conclusioni mutassero; i più perfezionati dettero i peggiori risultati: come dolore, i condannati soffrono più nei nuovi reclusori che nelle antiche galere: come elevazione spirituale, tutti i mezzi di educazione fallirono nella vanità o nell’ipocrisia.

Il migliore di tutti i modi era il lavoro, perchè il più prossimo alla normalità della vita, ma contro di esso insorsero le avarizie del lavoro libero, e il governo non osò; di tutte le condizioni, quelle all’aria aperta nell’opera agricola, erano le più propizie, ma gli ostacoli a questa specie di mezza libertà sono ancora troppi. Intanto i reclusori rappresentano un raffinamento intellettuale della pena e uno dei soliti insuccessi della pedagogia.

Mantenete il condannato vicino alla vita: invertite le sue abitudini di uomo il meno possibile, siate severi senza collere e pietosi senza abbandoni; trattatelo da uomo che deve assolutamente provvedere a se stesso, permettetegli tutte le libertà compatibili colla prigionia, tenetelo sempre di fronte al proprio problema: un sistema carcerario non può fare di più.

Educare, migliorare artificialmente, con modi scolastici, è impossibile; eliminare dalla pena il dolore non si può e non si deve, ma questo sia più spirituale che corporale. Difficilmente il condannato ritornerà un uomo: tuttavia basti alla società che la forma della pena non glielo abbia impedito.

La pena è il ponte, che la legge gitta al delitto perchè valichi il proprio abisso.

Se la società cessasse di avere organi di giustizia, la pena esisterebbe egualmente fuori e dentro di noi; la legge della vita, violata dal delitto, gli rimane egualmente superiore e lo doma smentendone i calcoli, suscitando dalla sua opera stessa le opposizioni, che debbono limitarla e punirla. Vi è nella vita una giustizia profonda, infallibile, che nessuno può formulare, che l’arte sorprende qualche volta e rivela in un quadro: nessuno vi sfugge. L’espiazione raggiunge sempre il colpevole, quasi sempre la pena è un taglione spirituale; il pubblico non ne avverte i momenti, si lascia ingannare dagli aspetti, scettico e sdegnoso proclama spesso, quasi con iattanza, l’impunità di certe colpe, che scontano invisibilmente la loro effimera vittoria.

Se così non fosse, se una pena non ci lacerasse dentro e un’altra non ci attendesse fuori nella normalità stessa della vita violata, come, dove, la legge avrebbe potuto inventarla? Perchè ad integrare le insufficienze apparenti dei suoi giudizi l’istinto ed il pensiero umano si sarebbero sempre appellati ad una giustizia invisibile?

La pena è una necessità logica dello spirito, forse il più profondo bisogno della nostra colpa: ci è indispensabile soffrire per creare, ogni parto di pensiero o di utero strappa grida di angoscia; più indispensabile ancora ci è il soffrire dopo la colpa per sentirne l’orrore, per risalire dal dolore alla vergogna e risorgere nel pentimento. Coloro, che nel male veggono una malattia soltanto, non sanno bene che cosa sia la salute: coloro, che nel delinquente riconoscono un irresponsabile, ignorano che libertà e responsabilità sono la stessa idea in due parole, e che senza questa idea l’uomo non è più un uomo.

Adesso è cominciata una reazione contro l’invasione padulosa dell’ultima scuola criminale; l’illogismo dei suoi princìpi appare anche ai più miopi nei guasti dei risultati: se non vi è nè libertà nè colpa nell’uomo, se la società deve soltanto difendersi dai delinquenti e non può punirli, non deve nemmeno giudicarli. Il giudice sarà quindi un medico, che dal di fuori indovinera il di dentro diagnosticando nella inutilità di una cura non consentita nè dalla natura nè dalla scienza.

Si sa che la medicina finisce alla diagnosi: invece l’antropologia criminale si arresta un po’ prima, essendo ben più difficile il suo esame per caratterizzare dagli organi l’azione e indovinare dal corpo l’anima. Poi a che prò tutto questo? Che cosa è più la legge sociale, se gli individui non sono in sè stessi spiritualmente liberi? Quale può essere la responsabilità della legge in un mondo, che non avrebbe più morale? La difesa sociale contro i delinquenti per essere logica deve interrogare il proprio utile, e allora questo esige la soppressione di coloro, che non possono più essere utilizzati; se la legge indietreggia, ciò vuol dire che vi è ancora in essa il principio spirituale della responsabilità e della pena. La logica è inesorabile.

Passiamo oltre.

La legge del diritto penale non potrà mai conciliare le proprie antitesi nel giudizio e nella pena; ma questa legge copre come un’egida la società e brilla nel fondo dell’anima come una lampada sacra. Alla sua luce vediamo salire dall’oscurità le tentazioni del peccato e comporsi, prorompere armate le figure del delitto: nulla può spegnerla, nè le bufere della superbia, nè il pianto della paura: di notte e di giorno quella luce veglia in noi, forse non si smorzerà nemmeno nella tomba.

Il colpevole sfuggito per le ombre della legge si sente illuminato al di dentro da questa lampada, che gli mostra tutto il delitto nelle origini impossibili alle significazioni della parola, nei modi più inavvertiti ed atroci, nei risultati più imprevedibili e contrari. Indarno egli ha vinto davanti al tribunale della legge, più indarno quello della società ignora ancora: egli sa. La menzogna è impossibile nella sua coscienza; il suo occhio non può sottrarsi al fascino di quella luce, e il quadro del delitto appare dentro un incantesimo, dal quale egli stesso non uscirà più.

Il rimorso non è che lo spavento di questo quadro, e la confessione una necessità di questo rimorso. Egli parlerà: parlando è come se chiuda gli occhi: mostrando a qualcuno quel quadro gli sembra di non essere più solo a sopportarlo. Che importa il tradimento? Se i delinquenti non avessero questo bisogno di confessarsi, i processi non sarebbero quasi possibili: il cristianesimo indovinò il dolore dell’anima umana, quando fece della confessione, questo grido di spasimo, la prima parola del pentimento, e vi rispose con una segreta divina assoluzione.

Il colpevole solo può distruggere la colpa in sè stesso, egli solo darsi una pena pari al delitto; la legge criminale è come una legge di guerra, veste la propria milizia e la divide in ordini, ma la virtù del combattimento non verrà dalla legge.

L’anima parla ed ascolta altrove.

Tutte le sue leggi ne fanno una sola e tutte le sue pene un solo dolore: come il suo pensiero ha bisogno di sapere, il suo cuore ha bisogno di giudicare: come nell’arte l’anima è teatro creatore e creazione, così nella colpa è giudice accusato e carnefice. Deve soffrire per capire, espiare per risorgere.

Il mito del peccato originale, che fa della vita una pena, è ancora la più profonda interpretazione del dolore umano.

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