CAP. X. La indissolubilità matrimoniale.

Se il matrimonio rappresenta la sommissione dell’amore alla giustizia, il divorzio vi esprime una rivolta.

Evidentemente nel numero e nella varietà dei temperamenti le insurrezioni contro l’inviolabilità del matrimonio, uno dei massimi istituti sociali, non potevano mancare. La preistoria e la storia raccontano con troppo lugubre minuzia la tragedia dell’umana disciplina, perchè sia ancora permesso di stupirsi a qualche sua scena sanguinosa; ogni congegno politico stritola quotidianamente migliaia di individui inadatti, la delinquenza nella rivelazione dei più moderni psichiatri sembrò scoprire un composto di residui animali e patologici. Se l’uomo è sociale per natura, molti uomini non hanno in se medesimi un grado abbastanza alto di socievolezza per adattarsi al periodo, cui appartengono, e incalzati dalla forza cieca degli istinti, aggirati da correnti irresistibili, si frangono negli argini, che le hanno create.

La morte di molti fra questi inciviliti deriva dalla vita dei più atti e dalla pressione delle leggi, che plasmano le forme sociali. Il sistema storico è inflessibile quanto il planetario, insufficienze e strapotenze individuali subiscono la medesima sorte: il genio stesso incarnando la propria epoca vi rimane spesso solitario ed insociabile, miscreduto prima, tradito poi. Nella scala delle funzioni tutti i gradini sono insanguinati, una medesima bufera vi sbattacchia grandi e piccoli, deboli e forti, e tutti fanno sforzi tragici o grotteschi per aggrapparsi, e coloro, che lo possono, soffrono quasi quanto quelli che vi si sfracellano. L’arte e la scienza, l’industria e il commercio, uccidono forse quanto la guerra: per uno che trionfa, mille soccombono. Ma quella idea, che gli altri non poterono significare nemmeno coi singhiozzi della morte, come non spuntò dal suo spirito così non diviene una forza della sua vita, la quale invece, rimettendo ogni giorno della capacità a portarla, si schiaccia sotto il suo peso.

Lo spettacolo di questi inesauribili drammi non deve però turbare l’investigazione delle leggi. Fra lo schianto della tempesta il pilota può smarrire la propria scienza; ma quella ne verificava egualmente i teoremi: la verità è impassibile.

Nella storia del matrimonio il divorzio non è poi così vecchio. Voltaire affermando ironicamente che fu stabilito col matrimonio o tutto al più il giorno dopo, s’ingannò come tanti altri e lo scambiò per il ripudio. Il mondo orientale, il greco e quello romano non ebbero altro: il maschio vi era troppo superiore alla femmina, il marito alla moglie, perchè questa potesse avere contro di lui un simile diritto. La sua personalità più morale che giuridica non aveva ancora ottenuto riconoscimento dallo stato, la famiglia riassunta nell’autorità paterna rappresentava una monarchia assoluta senza che differenze di razza e di civiltà, variandone l’indole, ne cangiassero il principio: i figli stessi non si contrapposero giuridicamente al padre che molto tardi, e a Roma non si emanciparono mai interamente.

La donna sviluppando la qualità di materfamilias arrivò a possedere parte della dote e ad essere tutrice contro il privilegio maschile, che la sottometteva agli agnati; poi la corruzione dei tempi, le abitudini industriali della vita, la filosofia, la letteratura, soprattutto il nuovo spirito cristiano le giovarono. Questo aveva affermato nell’ideale la parità dei sessi, derivando nel matrimonio un’uguaglianza di doveri, ma per il suo stesso inevitabile antagonismo col mondo pagano la prima affermazione delle due nuove personalità uguali fu il divorzio.

Quindi il cristianesimo, appena assiso nell’impero, cominciò la grande lotta per l’indissolubilità matrimoniale richiamando l’assoluta uguaglianza dei sessi e l’assoluta libertà spirituale sotto la sua assoluta autorità. Per tutto il periodo del cristianesimo il divorzio perde ogni verità come idea: la Riforma lo attua ma non lo contiene, la rivoluzione francese lo promulga ma non lo assimila ai proprii principii, il costume ne trionfa, il numero dei divorzi è ridicolo di fronte a quello dei matrimoni. Invece di una nuova idea è dunque la seconda fase di un fatto, la separazione personale; piuttosto che un diritto appare una concessione.

Nessuna personalità femminile palpita dentro di lui; in Germania e in Inghilterra la sua origine storica è maschile, il suo più grosso motivo sta sempre nell’adulterio della donna. L’antico orgoglio mascolino del ripudio vi predomina, ma a poco a poco tutti gli altri motivi canonici della separazione vi entrano, e i divorzi aumentano. La grande famiglia germanica è quella che più ne profitta, la gente slava ne usa appena, il mondo latino se lo interdice. La tradizione dell’indissolubilità matrimoniale rimane quindi una gloria del cattolicismo.

Nullameno vi è una moderna tendenza ad allargare il divorzio, la letteratura lo protegge, i partiti avanzati lo inscrissero nel proprio programma.

Certamente l’individualismo e la famiglia attuale hanno grandi differenze coll’antica: questa per lunghi secoli ascese lentamente, dolorosamente, alla indissolubilità, e nell’ultimo, forse troppo facile trionfo di quello finirebbe disciolta, se i suoi vincoli non fossero indelebili nello spirito umano. Prima della rivoluzione francese, nel predominio assoluto del cattolicismo, il matrimonio era scaduto alla giurisdizione ecclesiastica, cosicchè non restava sopra di esso allo stato che un diritto di censo. Undici secoli di lotta avevano meritato alla Chiesa tale preponderanza, che non sopportava opposizione, e il dogma dell’indissolubilità si era talmente consolidato nell’idea e nel fatto che senza una rivoluzione, la quale sottraesse lo stato alla chiesa, sarebbe stato impossibile persino il discuterne. La rivoluzione avvenne. Lo stato alzandosi al disopra di tutte le religioni dichiarò di contenerle come fatti storici, mentre affermandosi in una più pura idealità liberava la propria azione dai vecchi vincoli di classe o di sistema. Il beneficio fu immenso, la gloria così grande che la storia ne ha poche di uguali.

Naturalmente un matrimonio civile dovette contrapporsi al religioso incaricando la giurisprudenza di trovare la nuova formula, che fu infelice. Il diritto romano aveva già dato due definizioni, di cui l’una sublime e l’altra perfetta « conjunctio maris et foeminae, consortium omnis vitae, divini et immani juris comunicatio »; «viri et mulieris conjunctio, individuam vitae consuetudinem continens »: il diritto moderno lo dichiarò un contratto. L’ascensione gloriosa nell’idea dello stato non si verificava in questa formula, nella quale l’unità della vita rappresentata dal matrimonio veniva considerata come in ogni altro frammento.

Certo lo stato difficilmente avrebbe potuto sostituire i riti poetici del cristianesimo e, mentre questo gli si contrapponeva, trovare pel matrimonio una formula pura e radiante come la sua; ma era forse egualmente difficile discendere più basso, e dichiarare che il matrimonio, questo accordo di due istinti nell’idea dell’amore universale, questa adesione di due volontà che si sottomettevano liberamente alla necessità sociale, questa improvvisa coscienza della serie che si verificava in due singoli al momento di continuarla, era un semplice contratto come la locazione. In tutta l’antichità il matrimonio ebbe significazione ideale, mentre in questa suprema vittoria della filosofia sulla religione, quando l’ideale dissipando tutte le proprie rappresentazioni antropomorfiche emancipava uomo e Dio, e il matrimonio, unica forma di generazione nella quale la ragione venisse a sconfessare il proprio pessimismo e l’istinto a domare le proprie violenze, aspettava più alta consacrazione, un’idea miserabile, una parola ingiuriosa ne furono il battesimo e la benedizione.

Tale sconfitta sarebbe ben umiliante se la rivoluzione francese fosse limitata al tempo della sua esplosione, invece di svolgersi come la vediamo da un secolo e per un altro la vedranno senza dubbio i nostri nipoti. Simile definizione del matrimonio civile fu invece una parola di battaglia, che la giurisprudenza gettò sul viso della religione sentendo forse oscuramente in se stessa, che nessuna formula infelice poteva compromettere così grande conquista. Infatti prima ancora che la chiesa raccogliesse il guanto di sfida, la giurisprudenza negò negli articoli successivi la propria definizione. Nel diritto romano come nei posteriori le prime condizioni di ogni contratto sono la reciproca indipendenza dei contraenti e il loro dominio sull’oggetto; le maniere della procedura non mirano che ad impedire la frode e a determinare fin dove giungano la proprietà o il possesso. Ogni contratto è quindi rescindibile per lo stesso accordo delle volontà, che lo hanno stretto; lo stato non vi interviene che come un’estrema necessità, la quale forza l’arbitrio dei contraenti all’ubbidienza delle loro affermazioni.

Il contratto è di diritto privato, invece nel matrimonio fu di diritto pubblico.

Lo stato vi entrò non solo nel nome dei figli, persone o personalità che potevano mancare senza che il matrimonio fosse meno valido, ma come terzo più altamente interessato dei coniugi stessi: e si arrogò il diritto di stabilire le possibilità e le impossibilità, le forme ed i casi. La sovranità privata degli individui venne recisamente negata, giacchè una ragione oscura prevalse alla loro ragione chiaroveggente fissando a priori le circostanze per le quali un coniuge avrebbe potuto lagnarsi giustamente dell’altro fino al diritto di rompere la società coniugale.

Invano l’evidenza dell’illogismo suggerì ai giuristi il ripiego di chiamarlo un contratto sui generis, senza nemmeno spiegare il motivo di tale eccezione; ma la colpa fu ancora più del momento filosofico e politico che della giurisprudenza, se non si potè allora cogliere esattamente la differenza fra i veri contratti e gl’istituti sociali. Nei primi come in campo chiuso dominano la ragione e l’arbitrio particolare: il fenomeno subordinato alla gran vita sociale vi agisce così liberamente che la sua libertà è una condizione imprescindibile di questa medesima vita. Lo stato non può contraddirlo: il suo veto sarebbe un assurdo, spiegabile solo storicamente, quando costretto ad una incarnazione dinastica ne sopportava! i dolori, e confondeva la propria ragione impersonale coll’effimero capriccio del despota.

Negli istituti sociali invece nulla è arbitrario, ogni individuo vi appartenne o vi appartiene nella forma determinata dal loro sviluppo: la sua ragione e la sua volontà vi possono recalcitrare, ma quella forma è superiore ai suoi sforzi, perchè si organizzò prima e muterà fuori di essi: la ragione singola e l’interesse privato non arrivano quasi mai a comprenderne la struttura, ad impararne la storia. Stato e famiglia, proprietà e legge, religione e patria non sono nemmeno concepibili come contratti: per discuterli e votarli sarebbe abbisognato possederli prima, il presente avrebbe dovuto sapere il futuro, e i momenti della vita sarebbero svaniti nella sua identità.

La chiesa colpita al cuore dalla dichiarazione del matrimonio civile fu pronta alla risposta, ma pessimismo e unità cristiana essendo stati trionfalmente negati, il matrimonio, momento sintetico della vita, doveva esprimerne la nuova idea positivamente. La chiesa aveva posto il centro fuori del mondo, e la rivoluzione senza poterlo spostare doveva affermare nel mondo una ragione ideale: negare il cristianesimo non era però negare tutta la religione, come pretesero con pari accanimento teologi e giuristi. Questi trascinati dalla logica della definizione e dall’entusiasmo della vittoria dichiararono che il matrimonio come contratto doveva essere rescindibile: nuova contraddizione, che conchiudeva tutte le altre, nelle quali il contratto era stato negato. Infatti questa rescindibilità concessa allo stato e non ai contraenti, era soltanto una transazione politica, la quale confondendo diritto pubblico e privato doveva poi prestarsi alle esagerazioni di tutte le teoriche. Logicamente la rescindibilità è l’ultimo termine della libertà: lo stato non può arrogarsi di sciogliere il contratto che non potè imporre: solo i contraenti, che ne sono il principio e la fine, debbono giudicare della sua convenienza. Lo stato intervenendo nel loro accordo non è che un intruso, nel loro disaccordo giudica dove sia il danno o la frode senza intromettere un tirannico diritto proprio.

Il divorzio non può dunque concepirsi filosoficamente che in due modi, o come un diritto dei coniugi non concesso ma riconosciuto dallo stato, o come un rimedio ai guasti della famiglia, nella quale lo stato ha diritto sovrano di intervenire. Nel primo caso è di diritto privato, nel secondo di diritto pubblico: al di fuori di queste due concezioni non vi è che tumulto di argomenti e contraddizioni di prove. Ma qualora il matrimonio sia rescindibile per mutuo consenso, considerando le difficoltà di giudicare in un disaccordo dei coniugi, sarebbe forse più savio partito per lo stato abdicare un intervento, che nessun diritto giustificherebbe più. Così resterebbero due sole forme, l’amore e la generazione; quello un fatto individuale; questa un fatto sociale, giacchè colla nascita nuovi individui entrano nel numero e nella battaglia della Storia.

Lo stato, semplice amministrazione, scriva dunque nell’interesse generale i nomi di chi entra e di chi esce: la vita è una bufera di atomi, che cacciandosi per un canale vengono segnati all’ingresso e all’uscita.

Il dilemma è inevitabile: o l’individuo effimero ubbidisce allo stato eterno, o lo stato diventa effimero come l’individuo: o l’amore diventa matrimonio perchè l’animale si faccia uomo, o il matrimonio ridiventando amore emancipa l’animalità, che aveva soggiogato. La legge inesorabile della illazione non dà tregua; lo stato negato nella famiglia vi perde il suo organo più importante, e nella società si ammollisce la compattezza. Questa verità fu sentita da tutti gli oppositori del divorzio, che ne sciuparono la forza. Il divorzio contiene infatti nella propria idea questo effetto, ma l’indissolubilità non sarebbe davvero la legge suprema della famiglia, se la sua negazione in un codice bastasse a disciogliere la famiglia stessa.

Ogni legge è l’essenza del fatto e si rivela gradualmente nel suo sviluppo: la legalità non esprime quindi tutta la legge, spesso anzi la contraddice, ma finisce sempre per verificarla.

Il divorzio, come non fu un’idea della Riforma e della rivoluzione francese, così non è un diritto della sovranità individuale o una conseguenza del contratto di matrimonio, ma un diritto dello stato, un rimedio, che questo avrebbe diritto di applicare all’istituto matrimoniale, se esperienza e scienza si accordassero nel riconoscerlo efficace.

Ma troppo spesso nella discussione di una legge si ripete ancora l’antico errore, che separandola dai fatti la considera come un ideale esterno imposto loro dall’intelletto. Appena nella media, cioè nell’immensa maggioranza degli individui, si verifica la costanza di un fenomeno, la legge si alza apparentemente al disopra di esso per assoggettarlo; e poichè gli estremi della media lo contraddicono, grava violentemente sopra di loro per trasportarli verso il centro o impedire che lo scompongano colla propria fluttuazione. E siccome allineando l’umanità si troverebbe che tutti gli uomini hanno la medesima statura fisica ed intellettuale, giacchè la loro differenza da individuo a individuo è appena di una linea, la legge rimane giusta con tutti costringendo nel nome di questa impercettibile graduazione i più lontani, alti e bassi, a livellarsi cogli altri. Allorchè nello studio della legge si cerchi dunque il momento di mutarla, filosofia e scienza debbono giudicare d’accordo coll’istinto e col costume.

Nella questione del divorzio le sofferenze ingiuste di molti individui non contano, perchè l’amore libero miete un numero anche maggiore di vittime.

La famiglia è l’unico sistema di allevamento umano, che vita e storia abbiano trovato, l’indissolubilità fu la tendenza e lo scopo della sua marcia ascendente; la famiglia prepara lo stato e vi prepara i proprii membri, perpetua la razza, garantisce sino al possibile 1’esistenza, il carattere iniziale dei coniugi vi tramonta in quello dei genitori. Il suo centro sta alla periferia nel bambino, il suo interesse è superiore e contradditorio a quello de’ suoi membri, il suo ufficio di allevamento più fisico che spirituale nella preistoria, più spirituale che fisico nella storia. Quando lo stato era liquido, la famiglia era labile: quando lo stato si solidificò, la famiglia si stabilì; entrambi sono reciprocamente indissolubili e hanno indissolubili rapporti coi proprii membri. La parentela, vincolo di sangue, è indissolubile: il nome, vincolo storico, è indissolubile: il temperamento e la coscienza, che essi ci hanno dato, sono del pari indissolubili.

La famiglia sola può educare il fanciullo; coloro, che vorrebbero sostituirle lo stato, contraddicono psicologia e storia; in quella capovolgono le leggi dello spirito mettendo l’idea prima del sentimento, in questa vorrebbero ritornare alle primissime fasi, quando la famiglia non ancora organizzata aveva bisogno della tribù per l’allevamento dei bambini.

Tutti i rapporti fra i suoi membri sono indissolubili: si è sempre egualmente genitori figli e fratelli, paternità e maternità non si lasciano e non si riprendono: la maternità fisica fu l’atto di un’ora, la maternità spirituale dura tutta la vita. L’amore, libero fin che resta animale, diventando umano si fa schiavo; le sue conseguenze sono le sue catene. Ecco la sua gloria, specialmente quando si muta in martirio.

La paternità è invece spirituale nella coscienza e nella legge: evidentemente un fatto fisico l’iniziò, ma la natura o Dio non vollero che potesse essere precisato. L’uomo non è padre, crede soltanto di esserlo: egli non può sapere che di essere stato l’amante di quella donna, quindi si costituisce padre del suo bambino per la fede in lei, che gli dice: tu, solamente tu! Per tale spiritualità egli è dunque il capo della famiglia, l’anima più alta e più tragica: spesso alleverà i figli d’altri, quasi sempre l’amore della donna lo avrà ingannato, e giustamente, perchè essa avrà mentito nell’interesse del bambino dandogli per padre il proprio marito. Il padre dà quindi il nome, il sangue, anche non dandolo; è la forza che alimenta il gruppo domestico, l’educatore che nel fanciullo prepara il cittadino, mentre la donna nel bambino non può preparare che il fanciullo.

La sovranità nel gruppo è quindi paternità, e questa ancora più indissolubile della maternità appunto perchè spirituale soltanto. L’amore della madre è tenerezza che consola, quello del padre severità che perfeziona: si ha bisogno di amare la madre, ma una necessità anche più profonda di stimare il padre.

Per un orfano la morte della mamma sarà stata la prima sventura; la morte del padre invece avrà nella vita del figlio tutto mutato, costringendolo anzi tempo ad essere la guida di sè medesimo e punendolo atrocemente negli errori, che il padre gli avrebbe risparmiati.

La famiglia considerata in sè stessa, al disopra dei suoi membri, scinderebbe dunque col divorzio la propria unità; tutti i popoli la espressero confusamente nei riti matrimoniali: perchè rinunciarvi adesso? Il divorzio in questo caso dovrebbe essere un progresso nel sistema di allevamento, un ideale più alto.

Nessuno fra i sostenitori del divorzio osò ancora rispondere a questo argomento: provatemi che il divorzio perfeziona nei coniugi il carattere dei genitori, e concedo il divorzio. Infatti la famiglia avendo per scopo supremo i figli, la sua struttura e la sua legge debbono essere preordinate all’interesse di questi: qualunque cosa lo contraddica vi diverrà un vizio, nessun diritto di coniuge verso l’altro potrà mai prevalere alla unità del loro dovere di genitori.

Al solito questa tendenza al divorzio non significò che una fra le tante negazioni del’individualismo moderno, ancora troppo dispari fra volontà e pensiero. Il bisogno di affermare la propria libertà contro ogni limite e ogni potere suscitò tutta una folla di false teorie liberali; l’illusione, che la legge fosse soltanto nell’intelletto e che la volontà sola potesse realizzarla, provocò nella rettorica democratica questa nuova tesi della liberazione dal giogo domestico: si voleva amare senza le responsabilità della generazione, essere cittadini senza quelle dell’allevamento famigliale. Invece tutto vi è libero ma ugualmente necessario; la vita passa creando e struggendo, schiaccia i genitori nell’interesse del figlio e punisce ritmicamente la ingratitudine di questo colla ingratitudine di un altro figlio. Credere che la famiglia si perfezioni col divorzio non è un errore, ma una menzogna: nella famiglia i coniugi non esistono più essendo il loro carattere assorbito dalla loro funzione di genitori; se vi esistessero, la famiglia non sarebbe più tripla, padre, madre, figlio, ma quintupla coi due coniugi. Qualunque dramma, insanguini o spezzi la loro vita, non deve prevalere contro quella della famiglia: poi il dramma è egualmente in tutte le leggi, in tutte le funzioni.

Il divorzio non è che la ribellione dei coniugi al loro dovere di genitori.

La legge, concedendolo, premierebbe questa incapacità morale a danno di altri figli.

Certamente la legge non può impedire a questi coniugi di unirsi fisicamente e di generare nuovi infelici, ma la legge non ha nè la potenza, nè il dovere di impedire il peccato: deve invece mantenere nell’interesse di tutti alto e puro l’ideale. Ai figli delle false famiglie potrà sempre dire: la vostra sventura non fu mia colpa; a quelli, dei quali avesse invece consentito ai genitori l’abbandono col divorzio, non saprebbe rispondere.

Oggi quasi tutte le nazioni hanno però accettato il divorzio.

Tale argomento non manca d’importanza, appunto perchè ne ha troppa in basso.

Politicamente la sua spiegazione è nell’intensità e nel modo dell’individualismo moderno: la sovranità democratica, per ora troppo spesso plebea, adula se stessa nella volontà e nella libertà, la nuova assisa sociale oscilla fra le rovine dell’antico e le incompiute costruzioni del nuovo, un ottimismo grida buono l’uomo e capace di frenare in se stesso tutti gli istinti animali, senza coazione di legge: una fretta ci precipita avanti, un disprezzo ci attenua nell’anima anche quelle autorità, delle quali non possiamo gittare il peso.

Fu sempre così, nè potrebbe essere altrimenti.

In ogni rivoluzione si nega il centuplo di quanto si debba distruggere, e poco dopo si riafferma tutto quello che fu negato soltanto per facilitate la distruzione necessaria.

La famiglia diventò indissolubile e tale resterà: il costume correggerà i divorzi, un grado più alto nella coscienza e nell’intelligenza persuaderà tutti che i genitori immolando il proprio dovere alle passioni di coniugi commettono il più vile ed osceno dei delitti. Padre e madre non sono più che due schiavi davanti al bambino: essi l’evocarono a questa inutile ed inconsolabile tragedia, essi udendolo piangere misteriosamente si guardarono negli occhi e si sorrisero in una promessa di amore più profondo per quel piccolo smarrito. Non espiava egli già l’effimera ebbrezza del bacio, che lo aveva creato? Davanti a lui si sentirono quindi uniti irreparabilmente, indissolubilmente: quel bambino era l’opera loro, involontaria, ma fatale: non uscirebbe dalla loro vita nemmeno morto. Bisognava dunque farsi un dovere dell’inevitabile, una gioia dei dolori salienti dal sacrificio come un fumo da un’ara, pensare, agire per questo piccolo, che esigeva non sapendo ancora domandare. Abbandonarlo nella vita sarebbe più tristo che l’averlo ucciso prima, perchè dal ventre uscisse come un’immondizia: affermare il diritto della propria vita contro la sua, sarebbe ancora più sciocco che ingiusto.

L’amore non è che generazione, il matrimonio che allevamento; chi li ha accettati non può più ricusarli, perchè il futuro affondò già l’artiglio nel presente: ogno bambino è trionfo ed espiazione per i genitori.

Il Signore chiese a Caino:

— Che cosa hai tu fatto di tuo fratello?

— Sono io forse il suo custode? rispose tremando il fratricida.

Ma Adamo seguì Caino nella maledizione e lo custodì.

Share on Twitter Share on Facebook