CAP. IX. La proprietà.

«Chi non ha non è» l’antico proverbio inglese è una delle più limpide e profonde formule filosofiche.

Giuristi ed economisti hanno lungamente cercato la ragione della proprietà sciupando fuori del proprio campo le ragioni secondarie, che adducevano. La sua radice cresce dalla personalità umana, che dovendo riconoscersi nell’esteriorità mette la propria anima nelle cose e vi imprime come suggello un diritto, che le distingue dalle altre. Quindi le cose animate dallo spirito entrano nella società della sua storia, vi acquistano una fisonomia, diventano materia di contratto e talora una personalità giuridica.

Che l’appropriazione sia il primo, inevitabile, modo della proprietà e il lavoro la sua più nobile sicura giustificazione non monta, mentre nè l’una nè l’altro avrebbero potuto crearla; essa è invece il più primitivo dei diritti, una categoria dello spirito come la religione l’arte la filosofia la giurisprudenza: l’uomo nasce proprietario al pari che religioso, artista, scienziato politico. Unico nell’universo egli può possedere mettendo se stesso in una cosa e staccandola come dalla natura per farsene una barriera contro gli altri uomini.

Invano si nega quindi tale potenza e tale necessità dello spirito umano: come tutta la sua vita morale discende dalla libertà, così tutta la sua vita sociale comincia nella proprietà. Prima non vi è che l’indifferenza della natura. Innanzi che lo spirito si svegli negli spasimi di questa significazione esteriore l’approvazione comincia nel bambino annunziando già l’avarizia ed il furto; gli oggetti, pei quali piange e coi quali soltanto si calma, sono ancora nel nostro giudizio inutili alla sua vita, ma in quella tenebra spirituale esprimono una necessità: il bambino vuole come sua qualche cosa, che non risponde ad alcun bisogno fisico e non può ancora essere dalla sua intelligenza ragguagliata colle altre cose: capriccio irresistibile, dunque non tale.

Vi è in tutto ciò un istinto di creazione, se l’uomo unico fra i viventi può reagire sulla natura? Vi è già l’affermazione di quel minimo impero, che tutti debbono segnare intorno a se stessi, e che non manca ad alcuno nè accattone nè imperatore? Ogni uomo infatti è proprietario, perchè nessuno è così povero da non possedere qualche cosa, un rifiuto magari di tutti, raccattato sulla strada, ma che diventa suo nello stesso diritto di qualunque altro tesoro.

Il diritto di proprietà, identico negli individui e sulle cose, non cresce e non scema; può essere diversamente esercitato, sparisce, si trasmette: la legge a seconda dei tempi lo rispetta o lo vìola, è come il diritto alla religione all’arte alla scienza alla politica. Quindi le differenze delle cose vi servono ad esprimere le differenze delle persone, uguali soltanto fra loro nel concetto astratto della individualità; e siccome la verità della vita è superiore a quella dell’astrazione, ogni individuo dovendo significarsi esteriormente dà una prima misura di se stesso nella proprietà. Senza di questa il suo spirito non avrebbe al di fuori una linea inviolabile come al di dentro. I sofismi delle scuole, che per provare l’ingiustizia della proprietà contrappongono la povertà alla ricchezza affermando che il povero non possiede nulla, non meritano nemmeno una risposta, mentre povertà e ricchezza sono due gradi della stessa idea, come la malattia è sempre un modo della vita.

I morti soli non posseggono, perchè l’anima sola ha il diritto di proprietà, e i cadaveri non hanno nemmeno più nome.

Sopprimete l’idea di libertà, ed avrete soppresso tutto il diritto: sopprimete la proprietà, e l’individualità umana non avrà più significazione esterna.

Tutta la sua vita invece si acuisce in tale sforzo.

La fisonomia è nella linea, nell’accento, nel gesto; ecco la prima manifestazione dell’individuo; ognuno consciamente e inconsciamente vi si adopera ad ogni istante; apparire se stesso, ecco la primordiale necessità. Ma siccome per vivere l’uomo deve operare, all’opera è egualmente indispensabile un segno che la faccia sua, e questo segno comincia sul primo oggetto, che egli possa prendere: la più appassionata fatica sarà nell’imprimere quel segno cosicchè vi resti inconfondibile. Se non fosse sociale l’uomo non sarebbe proprietario, giacchè il segno della proprietà non è contro la natura, ma contro gli altri uomini: infatti il segno del nostro spirito sulla natura ha ben altro significato. Con questo tentiamo di esprimervi il mondo superiore delle idee, con quello di imprimervi la prima orbita della nostra libertà.

Nella storia della proprietà comincia adunque la grande rivelazione umana; l’uomo possedè quale fu: il grado della sua libertà, lo stato della sua coscienza, le forze del suo pensiero si manifestarono nella sua proprietà: gli ordini sociali s’innalzarono sulle sue basi, i sentimenti della famiglia si ritmarono sulle sue differenze: come in un campo chiuso vi battagliarono tutti i suoi vizi e le sue virtù. E nessun diritto essendo più ideale, e la sua realizzazione dovendo compiersi colle forze più brute, le antitesi vi tesserono la più orribile delle tragedie: il simbolo prevalse quasi sempre all’idea, il fatto violò il diritto, l’uomo negò l’uomo.

Nella schiavitù infatti si compì il massimo delitto della sovranità e della proprietà.

L’uomo vi tentò di ridurre l’uomo ad una cosa, lungamente, estenuandosi contro l’impossibile e deformandosi in questo sforzo, nel quale padrone e schiavo rimanevano sempre pari.

Per degradare questo bisognava che quello degradasse prima se medesimo, giacchè l’anima umana era eguale in ambedue, e il diritto soppresso nell’una si contraddiceva nell’altra, mentre la coscienza dello schiavo restava pur sempre libera e lo schiavo possedeva come il padrone. Tale proprietà sarà stata ben piccola, un qualche cosa, che gli altri schiavi gli riconoscevano, che forse egli stesso aveva creato nascondendolo al padrone come ad un nemico. Perchè lo schiavo era un prigioniero: così aveva cominciata la schiavitù, così soltanto poteva durare. Spesso il padrone avrà potuto togliere allo schiavo quella piccola cosa, ma la rapina invece di sopprimere la proprietà non la trasmette che falsamente, e lo schiavo seguitava come prigioniero a nascondere in qualche altra cosa il segno della propria libertà.

Ma se in tutti i tempi il padrone fu legato alla stessa corda dello schiavo, ogni negazione della libertà, da qualunque principio discenda, conclude sempre alla stessa schiavitù.

Adesso nuove utopie, ripetendo le antiche ed affermando la necessità dell’assoluta uguaglianza umana, non si accorgono di riprodurre la schiavitù nel nome stesso della libertà. La parità umana, vera soltanto nel concetto astratto della individualità, impressa sulla vita vi soffocherebbe le facoltà e le differenze individuali facendo dell’uomo uno schiavo incomparabilmente più triste, originale al di dentro, muto al di fuori.

Ma se fuori della società, o almeno nella sua estrema rarefazione, l’uomo può appropriarsi e possedere quasi a capriccio, perchè la sua lotta essendo piuttosto colla natura che coll’uomo non ha bisogno di molto sforzo e marca la proprietà con lievissimo segno, in una società stabile e complessa sforzo e segno debbono invece aumentare secondo il grado e l’intensità della vita sociale, e allora comincia a manifestarsi l’opera dello Stato.

Questa soltanto come individualità superiore ha diritto di stabilire i modi e determinare l’orbita della proprietà. La sua legislazione non crea quindi il diritto e nemmeno lo consacra nel fatto di un sopruso compito dalla forza di una aristocrazia sopra una moltitudine di inferiori, ma pur accettando parte di quel sopruso afferma sempre una giustizia ed un progresso. Come giustizia valuta nella proprietà le differenze da uomo a uomo attenuandole in una astrazione sempre più alta: come progresso impone nelle norme del presente e contro il suo più immediato interesse qualche altra norma per conservare l’opera del passato e preparare quella del futuro.

Nella proprietà i massimi problemi sono quindi i più astratti, l’eredità delle persone e la personalità delle cose: nell’eredità il diritto sopravvive all’uomo, nella personalità delle cose il diritto dà loro un’anima ed una fisonomia. Tale potenza non è però che dello stato, individualità vivente oltre i limiti della vita individuale, che ereditando nello spirito da tutti i morti può riconoscere un erede a tutti i morenti, e costretto ad esprimersi per simboli, dare se stesso ad una cosa, perchè viva negli individui più lungamente e più alto di loro.

Così la proprietà attraverso i secoli non ha ancora essenzialmente mutato: come problema, la certezza della sua soluzione è nell’istinto: come fatto la storia ne raccontò intera la logica e la sofistica: come legge il suo teorema fu doppio, concepire l’uomo sempre più astrattamente per meglio valutarne i rapporti, imporre all’individuo il modo di proprietà più utile all’interesse sociale. Ma questo non poteva essere inteso per quello di cooperatori in una data proprietà, e neppure per l’altro dell’intera generazione adunata intorno alla loro opera, ma quale interesse ideale dello stato come vita e come storia.

Le leggi della proprietà furono dunque un principio e una conseguenza della vita e della storia: l’antagonismo fra padroni e servi, fra capitale e lavoro, meglio che una differenza di forza fra due classi espresse una necessità ideale maggiore di entrambi. Tale antagonismo non è infatti che il momento di un antagonismo più alto fra popolo e popolo, fra generazione e generazione. L’individuo chiuso nel proprio egoismo si ricusa a quanto lo contraddice; l’operaio non sa che ogni opera è gravata d’ipoteca storica, e poichè la vide realizzarsi col lavoro delle proprie mani vede preponderante la propria cooperazione. Il capitalista, adoperando come istrumento il capitale, forma idealizzata e quindi superiore del lavoro, s’immagina che il proprio capitale soltanto abbia spiritualmente creato quell’opera, mentre invece ogni capitale non è vivo se non perchè immerso nella vita nazionale. L’egoismo. del lavoratore e del capitalista non solo non possono esprimere la verità del lavoro e del capitale, ma spesso ne contraddicono l’interesse colla falsità dei calcoli e colla violenza delle passioni.

Nella proprietà la furia di queste e l’invincibile logica delle idee resero più intensa la tragedia, che le differenze materiali della vita atteggiarono sinistramente, e la quantità delle vittime riempì d’orrore come un campo di battaglia. Quale prima affermazione dell’individualità dovette quasi sempre essere la pregiudiziale della forza in tutte le questioni di diritto: come assisa storica invece fu la condizione assoluta di tutti i progressi spirituali, e nel loro beneficio giustificò il proprio danno.

Ma se tutti gli egoismi della vita si sfrenano nella proprietà come dentro un’arena, quello più doloroso, che lottava contro la morte, vi ottenne la prima vittoria nell’immortalità. Che altro infatti è l’eredità inventata dall’egoismo della proprietà e consacrata dalla sua legge? Egoista, l’uomo è costretto ad associarsi qualcuno in ogni opera, ma uomo vi sente un nemico, quindi l’egoismo stesso lo spinge a lavorare pei figli, soci nati dalla sua vita e che le necessità della razza vi rendono parassiti; lasciar loro i proprii beni dentro la propria volontà dovette dunque essere la prima grande vittoria dell’egoismo. Poi la natura avrà aiutato, e la famiglia consolidata nella eredità si consacrò nella religione dei morti.

Oggi ancora la sua base è nell’eredità, e il suo più forte vincolo nella morte.

La personificazione dell’eredità ottenne nel diritto romano la prima forma perfetta, dalla quale altre derivano moltiplicandosi; vi erano già stati e vi furono i peculii, la dote, tutta la gamma dei diritti reali, gradazioni e sfumature nel principio e nei fatti. Quindi le cose stesse si animarono alla vita delle persone: persona fu il tempio, la scuola, l’ospedale, il faro, il campanile: la nave errante sul mare divenne territorio nazionale, le acque oscillanti sulla riva lo continuarono sino ad un invisibile confine dentro il mare stesso: il tempio ebbe diritto di asilo, il domicilio venne dichiarato inviolabile.

Nullameno la coscienza umana insorse sempre contro l’istituto della proprietà nello sforzo, se non di rovesciarlo, almeno di diminuire nel suo dolore sociale il dolore umano.

Ma la proprietà stette.

Le più audaci negazioni contro di essa non oltrepassarono il limite della forma immobiliare; l’altra, quella mobile, che l’uomo poteva stringere nella mano o portare seco, fu invece da tutti consentita. Infatti la proprietà immobiliare non poteva essere costituita che dallo stato, individualità suprema e supremo sovrano del territorio nazionale, che costituendola sapeva già nel proprio istinto i risultati della sua esperienza. Come individualità contraddittoria a quella degli individui, lo Stato doveva sentire che i beni immobili non avrebbero potuto dare il massimo frutto se non esercitati dall’egoismo individuale, nell’illusione di un comando quasi assoluto e nella passione dell’eredità. Esercitati per delegazione, nello antagonismo fra interesse e dovere, il loro reddito sarebbe invece disceso sotto l’ultimo minimo della più povera necessità.

Questa soltanto fu la ragione dello stato, perchè l’uomo è così.

In lui il dovere non ha che una potenza negativa: consiste nel non fare, si compie nell’astinenza: il dovere positivo, se una qualche passione come l’amore dei figli o l’ambizione della patria non aiuti, rimarrà senza iniziative, mancherà di fede e di speranza. L’uomo è fratello ma avversario dell’uomo; socievole, non può fare a meno della società per realizzarvi il proprio individuo, però realizzandolo ha per primo bisogno nella lotta cogli altri la vittoria: quindi il suo sforzo è nella preponderanza. Se l’opera individuale vi sarà consociata dalla forza superiore della vita e disciplinata invincibilmente dalla storia, non si può pretendere che all’opera stessa sia motivo consapevole l’amore e l’interesse sociale. Anzitutto nell’interesse dell’individuo effimero l’interesse generale non potrà mai coincidere: sperare che l’amore invece di avere il centro nell’individuo lo abbia al di fuori, nella folla, è vanità di sentimento e di pensiero: volere soppressa la guerra individuale per pietà dei feriti e dei morti, significa ignorare la fatalità della vita e della storia: livellare il genere umano nell’identità rudimentale dei suoi individui, impedendo loro la sconfitta ed il trionfo delle proprie differenze, vorrebbe dire uccidere il germe per evitare le disuguaglianze dei frutti.

Quindi tutte le concezioni utopistiche si riducono a due, comunismo ed anarchia: nel primo il pessimismo consiglia la schiavitù di tutti allo stato per impedire il danno della lotta fra tutti: nella seconda l’ottimismo persuade la morte dello stato nella fede che ogni individuo sappia alzarsi alla stessa idea, e come questo sovrapporre l’interesse pubblico all’interesse personale, sentire e pensare nella sfera della storia.

Passiamo oltre.

La fatica della storia fu invece nell’umanizzare l’egoismo purificandolo nelle più immediate idealità.

Adesso l’ascensione operaia rinnova nei miraggi della speranza le vecchie utopie, e le esigenze delle nuove passioni non sono minori che in altri tempi, anzi la forza della loro negazione si aiuta dalla spersonalizzazione stessa del lavoro. Quasi tutta la massa dei prodotti è oggi anonima; la divisione del lavoro ha come polverizzata la cooperazione, l’opera non esprime più l’operaio, che non l’ama non potendo vedere in essa se medesimo. Quindi non vi sente che il peso della fatica e la leggerezza del salario. La sua sovranità infantile e plebea soffre già le vertigini dell’antico dispotismo, si crede assoluto, giudica il proprio come un interesse nazionale, scambia la somma dei grossi numeri per l’unità. Nega e sogna.

Ma attraverso tutte le attuali contraddizioni l’individuo moderno resta l’individuo eterno: vuole prima se stesso, si irreggimenta nei mestieri o nei partiti, perchè vi sente crescere dai contatti la forza della propria individualità; alla propria contraddizione gitta fuori dalla verità e dalla vita ogni avversario. L’interesse è la sua suprema ragione. Meno barbaro di una volta possiede maggiore quantità di piccole idee e sente meno le grandi: nega la patria per affermarvi meglio il diritto della propria classe e della propria generazione; respinge Dio e re senza sapere ancora sostituire in se stesso il pensiero dell’uno e l’autorità dell’altro: proclama la fratellanza, ma non vuole altro fratello che il proprio socio, e questo socio è sempre egualmente il suo rivale.

E la proprietà davanti a lui è lampada a tutte le farfalle della speranza, faro a tutti gli oscuri viaggi del pensiero: ma la rivoluzione moderna dovrà presto finire di spogliarle gli ultimi privilegi per presentarla libera e nuda. Così tutti saranno uguali davanti a lei, e la quantità della sua conquista esprimerà la graduazione delle forze conquistatrici.

In fondo non fu mai diversamente.

A ogni generazione ogni individuo si trova sempre dentro la stessa lotta, abbandonato dal caso della nascita sopra uno scalino della vita. Intorno a lui poco può mutare, egli deve vivere, salire, conquistare, come vizi e virtù gli consentono: grande o piccolo, forte o debole, il suo problema resta il medesimo. Un’idea ha sempre trionfato, quando una rivoluzione si compie spostando qualche gradino della scala; ma tutte le brutalità e le falsità della nostra natura vi si raccolgono nuovamente. Se ad una conquista saranno pochi gli ostacoli della legge, crescerà invece il loro numero dei concorrenti: se la vittoria sarà di vantaggi materiali, le forze più impure vi saranno state le più decisive: se invece glorificherà un’idea, il vincitore sarà sempre un martire o un eroe, in ambo i casi la prima vittima dell’idea stessa. Attraverso tutti i secoli la disparità di ricchezza non fu mai che una graduazione della più facile forza di conquista in un uomo o in una classe, e tale rimarrà nel futuro. Oggi le classi non hanno oramai più privilegi, la corsa alla ricchezza si compie nella libertà senza che il suo risultato possa molto cangiare: soltanto la lotta sarà più accanita e il premio più presto consumato.

Infatti nessun proprietario può rimanere più ozioso, e nessun imbecille può conservarsi ricco; l’attacco è di tutti a tutto, per conservare sono indispensabili quasi le stesse qualità che per conquistare. Il danaro, forma astratta della ricchezza, alleggerisce tutte le altre e ne facilita tutti i trapassi.

Ma il danaro va dritto alla intelligenza e alla volontà senza attingere mai le cime più alte.

Guardate in basso.

La proprietà è impero: nessun debole comanderà quindi nella propria casa, perchè 1’imbecillità è una miseria, la quale precipita verso le altre; ogni imbecille ha già perduto se stesso prima di perdere tutto il resto.

Soltanto la proprietà, mobile od immobile può essere base e difesa alla vita degli individui nella moltitudine; soltanto il suo orgoglio, la sua responsabilità, la sua inviolabilità danno la potenza di dominare se stessi, e quella piccola dignità, che comincia dal rispetto a un ideale.

Bisogna forse fare di ogni individuo un re per avere in lui un uomo: la prima sovranità era nel padre, il primo regno cominciò nella proprietà.

— Scansati, è il mio posto al sole: e così nacque la proprietà, commenta Pascal.

— Scansati, non mi togliere ciò che non mi puoi dare: rispose Diogene ad Alessandro, ritto dinanzi a lui, contro il sole.

Il vecchio cinico non aveva che il lembo di terra, sulla quale stava sdraiato, ma gli bastò per sentirsi pari all’imperatore.

Più alto il sole era un dono degli dei.

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