CAP. IV. Lo spirito nazionale.

La massa non basta ad un popolo per costituire il proprio stato, se la coscienza avendo raggiunto l’ultimo vertice non senta ugualmente sicura in sè stessa le necessità del passato e dell’avvenire: quindi lo stato prima di attingere nella legislazione la più alta realtà di se stesso, preesiste in uno spirito composto d’istinti caratteristici e di differenze costanti, che atteggiano e colorano già tutta la via della nazione. Tale spirito è una nota nel concerto dell’umanità, una intonazione di suono e di colore, alla quale nè il presente nè il passato possono ingannarsi; e quando sarà vanita, qualche cosa forse ne resterà ancora come di un’eco nella memoria, di un olezzo nel crepuscolo della sera sulle cime dei monti.

La differenza fra i vari spiriti nazionali funziona nella storia come uno dei suoi maggiori principii e delle forze più vive: la loro potenza si misura sulla quantità dell’ideale umano e sulla originalità della sua espressione. Ecco perchè la Grecia così piccola di territorio occupa tanto spazio nella storia del mondo, mentre la China vi è ancora soltanto il più vasto territorio; ma ogni popolo per quanto grande, come non ha che un solo spirito nazionale, così dentro di questo non può elaborare che una sola idea veramente universale. Non vi è esempio di nazione, che abbia avuto due volte il primato mondiale con due idee differenti, e l’Italia stessa, che pare smentire tale verità, invece la conferma. Roma cattolica è nel medioevo una più profonda unità del mondo che non la Roma del diritto pagano, ma il popolo italiano non è più un popolo dominatore universale, e nemmeno il popolo latino; un altro sangue, un altro pensiero gli hanno dato una fisonomia e un’anima nuovamente originale. Fra Dante e Virgilio la differenza è di due mondi, fra lo spirito italiano e il latino l’antagonismo è di due popoli.

Nessuna menzogna dunque più inutile e volgare di quella predicata recentemente dai retori esteti per la resurrezione di un mondo e di una gloria latina, poichè nell’arte soprattutto l’Italia contraddisse e superò Roma; nessuna delle opere originali italiane nel medioevo derivò dallo spirito latino: la civiltà e l’erudizione pagana non erano allora che un mantello sopra una cuna, o una ganga dentro la quale invece di una statua aspettava un’anima.

L’arte italiana è superiore alla latina di quanto questa inferiore alla greca.

Qualunque valore di popolo è quindi nel presente, nella sua vita attuale, nella forza animatrice della quale dispone, e che mantenendo il presente fa rivivere il passato: soltanto in questo modo le antiche civiltà si perpetuano nei monumenti, nelle lingue, nei costumi, nelle istituzioni.

Così la potenza di un individuo non cresce da una concentrazione solitaria della propria personalità in sè stessa aspirando verso le lontananze della storia passata o futura, ma dalla misteriosa facoltà di mettersi nel mezzo della vita per appropriarsela ed esprimere con un’equazione anche più misteriosa fra istinto e genio, in una forma precisa, tutto quanto contiene di originalità. Strappate Annibale Aristotile Dante Napoleone Hegel Garibaldi dal loro tempo, e diventeranno istantaneamente un’enigma; la loro opera identica al loro spirito lo è ancora più al proprio periodo, perchè nessun pensiero per quanto grande può pensare quello dell’umanità oltre i confini di un tempo e di uno spazio.

L’individualità è una forza fatta di limiti: il genio di un popolo si rivela in quello dei suoi massimi uomini, cosicchè la loro fisonomia è appena un lineamento della sua, e la loro opera più creatrice quella, che più inconsapevolmente attinsero all’istinto e meno deformarono nello sforzo della riflessione.

Tutte le filosofie della storia cercarono già di marcarne i maggiori momenti adunando nella loro spiegazione tutti i motivi della geografia e le scoperte dell’erudizione: ma si disse che la costruzione filosofica della storia era uno dei tanti arbitrii del pensiero ancora più pericolosi che inutili. Eppure senza vedere nella storia un disegno è impossibile tracciare una sua linea, e dietro l’apparenza di un qualunque disegno più impossibile ancora non ammettere un principio.

Il carattere di un popolo, il suo spirito nazionale bisogna cercarli nei modi, coi quali il suo pensiero espresse i massimi problemi. La sua originalità non può essere che nella preminenza accordata ad un problema sugli altri, nell’intenzione colla quale lo tentò, e nell’intonazione generale della sua opera, che si colora e si atteggia dalla preferenza di un qualche principio o di una qualche passione. Così la storia delle religioni delle arti delle filosofie delle legislazioni riveleranno i segreti antichi meglio che non la solita cronaca delle vicende politiche; le qualità negative interpreteranno in un ritratto quelle positive, poichè fisonomia e carattere appaiono nella vita non tanto per quello che sono quanto per quello che non sono. Dopo il mondo romano quindi nessuna antitesi più evidente che il mondo italiano, quale la lunga incubazione medioevale lo aveva fatto.

Ma se nell’Europa il mareggiare delle invasioni sembra quasi ubbidire alle leggi fisiche della gravitazione che a quelle ideali della storia, nell’Italia, ove a Roma dura ancora l’idealità dell’impero e splende più pura e universale l’altra della chiesa, le discese dei barbari si rischiarano d’improvvise incandescenze sottoponendosi quasi con umiltà di olocausto a questi due supremi poteri. Senonchè il loro tumulto è così sanguinario, le loro battaglie così effimere, le loro stratificazioni sul suolo italiano così confuse, la loro inconsapevolezza così profonda, le loro catastrofi così ritmiche che nè cronisti nè filosofi nè vincitori nè vinti possono afferrarne l’idea e valutarne il risultato.

Al momento, nel quale si attendono le conseguenze più previste nel dramma dei personaggi e nella tragedia dei popoli, altre invasioni irrompono, nuovi prologhi scompongono gli epiloghi, e la narrazione si interrompe nello sbigottimento di un altro racconto. Goti Longobardi Franchi Alemanni si succedono cacciandosi schiacciandosi sovrapponendosi l’un l’altro; Normanni Angioini Aragonesi Francesi perpetuano queste invasioni, che interventi pontifici e discese imperiali trasformano in disastri periodici. Ogni mattina i popoli sembrano ricominciare la trama della propria storia: le loro città si trasformano in teatro di glorie straniere, i loro campi servono a battaglie cominciate nella Scandinavia nella Germania nella Francia nella Spagna.

Quindi una confusione inestricabile di forme e di periodi politici rende inintelligibile la storia di tali tempi. I governi improvvisati sul suolo ancora tutto pregno di elementi romani e solcato da tutti gli strumenti della nuova religione sono comunali, feudali, normanno in Sicilia, bizantino a Venezia, teocratico a Roma, regio a Pavia: e si irrigidiscono i fragili ducati, si stemperano in labili repubbliche, si sminuzzano in gruppi abbaziali, urtandosi coi più impreveduti contrasti, nella più abbacinante fantasmagoria.

Un dualismo riprodotto ovunque dalla più eterogenea molteplicità rovescia l’alta Italia sulla bassa, municipi contro municipi, città contro città, castelli contro castelli; gli odii si invertono per rianimarsi, le guerre divorano le generazioni, gli eserciti talora compaiono indipendenti dai popoli, questi nondimeno vigoreggiano fra convulsioni troppo lunghe per essere un morbo; l’anarchia rinnova tutti i governi senza soccombere ad alcuno. E chiesa ed impero sembrano sempre le sole due idee, i due unici poteri invincibili.

Ma ogni forma è federale.

Mentre nel mondo romano tutto è unitario e l’individualità del cittadino quasi immedesimata con quella dello stato, nel medioevo un particolarismo isola tutti i centri e gli individui vi acquistano un rilievo straordinario. Nessuno di quei piccoli stati ha più uno scopo simile a quello di Roma; l’antica urbe inconsapevolmente fu prima universale che nazionale, giacchè la tarda conquista d’Italia vi ebbe minore importanza di molte altre guerre straniere; invece nei nuovi comuni nessun’idea è così larga e nessun’ambizione così tenace da preparare l’unificazione italiana. Indarno la fortuna militare e lo sviluppo della ricchezza sembrano dame qualche accenno; acuti diplomatici, invincibili condottieri ne tentano parecchie volte l’impresa, ma la medesima sconfitta livella tutte le loro differenze. Forse la mistura eccessiva della razza aveva cancellato nel temperamento il carattere unitario, lasciandolo nell’astrazione del pensiero entro le due forme antagoniste della chiesa e dell’impero: forse la nascita stessa dell’individuo moderno non lo consentiva.

Apparentemente l’Italia doveva all’Europa quest’ultimo immenso servigio di costruire un altro tipo umano, e a tale costruzione non era più necessaria alcuna mortificazione individuale, dacchè tutte le idee universali avevano già ottenuto il proprio avvento. Ogni confine diviene quindi barriera: la passione patriottica s’intensifica nell’angustia dei limiti, la lotta degli elementi nuovi è senza tregua e senza pietà, eppure la vita si moltiplica. L’arte inventa nuove forme, la politica esaurisce tutti i tipi di governo, democrazia e tirannia lottano di fecondità; una inesauribile potenza salva sempre la nazione dall’assorbimento straniero. L’unità dei comuni infrangibile nella piccolezza vi trova una bellezza immortale; la monarchia non può attecchire, l’aristocrazia feudale viene divorata, e quella che sorge dalla sua ultima trasformazione è avventizia, aiutata e logorata dall’avventura militare o diplomatica.

Ma in questa lunga minuscola ed incantevole epopea il carattere e lo spirito italiano si sono già formati, mentre l’Europa ancora barbara è divisa in grandi masse monarchiche esagitate dalle ultime irrequietudini delle immigrazioni. Nell’Italia invece fioriscono tutti gli schemi delle civiltà, e ogni sangue della nostra mistura vi si rivela; Venezia e Genova sono due unità mediterranee, che hanno il centro sul mare, Milano addensa la Lombardia, Firenze rinnova l’Attica ed Atene: Roma rimescola per secoli il popolo nell’anarchia e, non potendo sottomettere, ne è sottomessa: Torino vigila e sogna lontanamente sotto le alpi: Napoli è una capitale quasi sempre senza regno, perchè la sua è soltanto una forza di seduzione; in Sicilia arabi e normanni si dibattono e ne fanno come un paradiso abitato dai demoni; sulla Sardegna la feudalità sola raggiunge una vita superiore, che la barbarie nativa aiutata dall’isolamento arresta.

L’unificazione è ancora impossibile nel rigoglio delle forze regionali per lo stesso impeto secreto della loro creazione, che il livello dell’unità soffocherebbe. Bisognerà prima che la magnifica fermentazione si esaurisca e i grandi comuni diventati signorie coll’assorbimento dei piccoli si assodino nella forma dei principati raddoppiando così le difficoltà della unificazione; e allora invece la civiltà italiana si arresterà, e la nazione composta a massimi gruppi federali apparirà più debole contro le grosse monarchie straniere.

Ma tutta o quasi la civiltà medioevale sarà stata italiana: italiane le due idee dell’impero e della chiesa, italiana l’originalità del comune e del cittadino; certamente altrove, nell’Europa, si trovano forme e sviluppi similari, in nessuno però una novità così originale. Il medioevo non ha che una poesia e Dante ne è il poeta, una filosofia e S. Tomaso ne è il legislatore: ogni erudizione viene dall’Italia, l’Italia trae dal nuovo costume il nuovo diritto illuminandolo colla tradizione vivente del diritto romano. Sotto il comune vi è l’antico municipio, l’Italia crea nel monachismo le prime falangi della conquista spirituale: le sue chiese sono più originali delle gotiche che sembrano riprodurre nella pietra le nordiche foreste, appunto perchè debbono lottare e respingere l’arte romana; la nostra lingua è la prima formata in una bellezza perfetta e rimarrà insuperata, il nostro lusso è una poesia che rivela delicati segreti sotto l’apparente ferocia del costume: la nostra aristocrazia ha uno spirito civile nel quale si sorpassa, e il nostro popolo un sentimento che lo innalza pari alla aristocrazia. Sono cristiani e cattolici, ma la loro fede non inceppa mai la loro politica: si direbbe che si liberino dalla passione religiosa facendo belle le chiese e le madonne; quindi nessuna guerra religiosa in Italia come altrove. Quando l’Europa bandisce le crociate, gli italiani vi scorgono un affare: quando s’insanguina nella contesa dei dogmi, l’Italia sorride. Il suo pensiero è già abbastanza incredulo per accettare la religione come una spiegazione necessaria ed insufficiente: il cuore nel popolo è di fanciullo, ma la testa di uomo. Egli non pensa non sente non vuole non esprime davvero che la vita individuale nel periodo tumultuante abbacinante di una generazione. Il comune stesso non è che un individuo poco più grande degli altri: bisogna possederlo o morire, ma la vita è bella appunto per le sue stragi, per l’incanto dei sogni spirituali, per le tragedie del loro risveglio, nell’eroismo e nell’amore, nel verso che canta, nel gesto che uccide, nella politica che rinnova, nell’arte che crea.

La coscienza è intensa ma individuale.

Dante rimarrà il massimo indice d’Italia: il suo poema è composto di aneddoti e ogni aneddoto è una tragedia, l’individualità vi dura immutata nel paradiso come nell’inferno, la sua forza sta egualmente con Dio e contro Dio. Ecco la massima rivelazione italiana. Accanto a lui Boccaccio ride e deride nella novella; ancora lo scherzo individuale, ancora la vita nel piccolo cerchio, chiusa intera in se stessa. Poco dopo Petrarca creerà la letteratura e ucciderà l’arte, se un uomo potesse ucciderla; invece la grande arte muore nel trecento. Dopo, il getto originale è già esausto; Tasso rifarà come Virgilio un’epopea di scuola, Ariosto un poema eroicomico, con personaggi immaginari sopra un palcoscenico fatto di parole.

La coscienza nazionale non era ancora, ecco perchè fra tanta abbondanza di drammi manca un trageda come Shakespeare.

La moralità era soltanto quella consentita dall’azione, e che Guicciardini e Machiavelli codificheranno estraendola dalle biografie dei grandi individui.

Nel fondo il carattere nazionale è scettico, ma di uno scetticismo temperato dal buon senso e dal buon gusto della vita: lo spirito nazionale invece è individualista, non sente, l’immanenza degli universali, condensa le forze nell’oggi, sul punto più vicino; ogni vittoria deve essere immediata, ogni trionfo verificarsi nella pratica. Quindi un’abilità paziente abitua a tutte le forme, il popolo sa di essere un vivaio, l’aristocrazia di dover vivere nella virtù del comando, e per orgoglio ama l’arte quasi spregiando gli artisti; il popolo invece sente in loro la propria ascensione. Ma ignora i letterati, perchè non sono quasi mai artisti, e vivono fra le ombre di un altro mondo.

Il fervore dura sino alla fine del cinquecento, poi la decadenza precipita. Le ultime tirannie sono quindi senza bellezza, e le estreme contese dei massimi principati senza interesse; Genova non impera più sul Mediterraneo, Venezia si ritrae dall’Adriatico, su Napoli dominano da lungi gli spagnuoli, sulla Lombardia si alternano tedeschi e francesi. Allora il Piemonte comincia a discendere verso l’Italia.

L’ultima lotta di preponderanza per la futura unificazione sarà quindi fra Napoli e Torino, ma non potrà accentuarsi perchè il regno pontificio separa come una muraglia cinese i due contendenti.

In questo periodo ancora l’Italia vive di privilegi scientifici ed artistici, significati da grandi individui: presta i condottieri a tutti gli eserciti, manda musici architetti pittori scultori dovunque: i suoi scienziati sono increduli prima degli enciclopedisti, Vico vede primo la storia universale, i gesuiti per difendere Roma diventano italiani, ma il carattere e lo spirito nazionale non ne vengono mutati. L’Italia soltanto non crederà a Roma, e piena di sacerdozio non sarà bigotta, scettica manterrà sempre fede a sè stessa, satura di poesia non avrà dopo Dante per lunghi secoli un altro poeta nazionale.

La sua popolazione sarà discesa sino a sei milioni, il più grande dei suoi storici conterà a sei mila le sue rivoluzioni, senza che nessuna decadenza abbia mai potuto esaurire la sua anima e nessuna miseria inaridire il suo grembo. Poi dinnanzi a Napoleone tutto nell’Italia apparirà caduto, e dopo Napoleone tutto comincerà a risorgere.

Oggi ancora l’Italia è il paese meno religioso e più assennato, teme le grandi cose e ricusa collo scherno le piccole; col nuovo governo tratta come coi passati, lo alimenta e passa oltre; la sua popolazione è la più feconda, da vent’anni gitta mezzo milione di emigranti a tutte le lontananze, in America ha ormai improvvisato due nazioni, in tutte le capitali estere i nostri operai sono i migliori.

La repubblica è morta nel sogno di Mazzini, la monarchia prosegue nella dinastia, il papato rientrò finalmente nel pontificato; le classi sono disciolte, i partiti, che costrussero l’Italia, già dimenticati. Il popolo solo vive.

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