CAP. V. Ascensione e tirannide plebea.

Una originalità occupa la storia moderna.

In quasi tutti i paesi della civiltà bianca il popolo non solo ha conquistato nell’elettorato il diritto sovrano, ma comincia ad esercitarlo in tutte le funzioni: i suoi rappresentanti mutarono già il carattere delle discussioni parlamentari, e dentro le leggi mettono motivi così nuovi che venti anni fa non sarebbero stati nemmeno prevedibili. La politica per lunghi secoli segreto di governi adesso è un esercizio d’idee pubbliche: gli interessi vi agiscono per masse, e la loro materialità diventa quasi sempre la ragione suprema della vittoria. Il governo viene disputato come la più importante delle conquiste: se ne agogna la dignità, se ne pretende il potere; una grande illusione solleva l’anima popolare, che, nell’ebbrezza di questa partecipazione alla storia, crede infantilmente di poterla dominare colla volontà dei propri capricci e i bisogni della propria elevazione.

Il popolo delle città precorre quello delle campagne, ma dovunque, sulle spiagge più deserte, sui monti più solitari arrivano i soffi della nuova ideale primavera, e le coscienze si svegliano come ad un brusco richiamo. Gli operai delle grandi metropoli e dei grossi borghi industriali, che aprirono la marcia, adesso sono già un patriziato munito di privilegi, superbo sino alla insolenza, alacre, sitibondo di vita e d’impero. S’irrigimentò nelle immense fabbriche e dalla dura disciplina, che quasi come nelle galere lo riduceva ad un numero, apprese l’altra più difficile, necessaria a diventare un partito: gli spostati della borghesia gli composero uno stato maggiore, dalle alture solinghe tribuni ed apostoli discesero a branchi: poi i giornali pullularono, e le idee polverizzandosi penetrarono nella massa. Si cominciò dalle società di mutuo soccorso, anodine ed anonime, quindi si composero gruppi politici: ogni bandiera agitava col proprio simbolo o nel proprio colore un programma, dentro i gruppi politici si restrinsero quelli per mestieri, poi la necessità della guerra li adunò, e un presentimento di vittoria preparò le prime alleanze regionali. La borghesia incuorava; il movimento pacifico pareva bello, ma la pace non è la forma della storia. La classe operaia contandosi si sentì forte, il suo numero cresceva quotidianamente; una passione fondeva le anime, mentre la nuova agiatezza pei salari sempre crescenti propagava nel beneficio una dignità insolita e una invidia fecondatrice.

Quando nei primi inevitabili scontri la borghesia, avvisata dall’istinto, scoperse il nemico, era già troppo tardi per la difesa del proprio privilegio; le illazioni dei principii democratici avevano prodotto le maggiori conseguenze, la dilatazione del diritto elettorale dava al numero la superiorità su tutti i gradi sociali. Il partito popolare era compatto, gli altri finivano di distruggersi in un vano antagonismo d’idee e di persone. Di fianco al parlamento nazionale, momentaneamente ridotto ad un’accademia agitata da passioni di anticamera, sorgevano qua e là parlamenti popolari, eletti da una procedura quasi uguale, vibranti di vita, effimeri ma rinascenti, che si contrapponevano al governo centrale comandando o minacciando. E il paese ascoltava attento, quasi presago che da una tale novità qualche gran cosa potesse uscire.

Leghe di mestieri intanto armavano i lavoratori di tutte le categorie in tutti i paesi: una propaganda volgare, faziosa, ma istintiva e quindi irresistibile attaccava sopra ogni punto tutti i vecchi istituti: non solo non si rispettavano più le vecchie autorità, ma esse medesime si umiliavano spontaneamente alle nuove. Teorie ed azioni quasi sempre erano distruttive, nè avrebbe potuto essere altrimenti, i bisogni crescevano più dei salari, una immoralità dilagava nel costume dall’abbassarsi di tutti gli argini e dal rompersi di tutte le dighe. L’incredulità volterriana e la morale industriale della borghesia avevano già preparata questa dissoluzione della fede e della virtù popolana: non era più possibile far credere a quello che non si credeva, essere rispettati al disotto non essendo più rispettabili al di dentro. L’energia plebea era quasi vergine, il vigore borghese declinava quasi estenuato dalla sua immensa opera nel secolo decimonono.

La borghesia non avrebbe potuto pretendere a classe chiusa; le mancava a questo la virtù del sangue, e il suo stesso principio democratico le stava contro: la monarchia era poco più di una insegna, l’aristocrazia soltanto una decorazione.

Il popolo cresceva.

Nel passato egli non era che una massa, alla quale l’aristocrazia sembrava dare nome, e il governo leggi senza nemmeno la necessità di spiegarne il motivo. Indarno il popolo era invece tutta la nazione, e tutto il suo genio si rivelava tratto tratto in qualche grande individuo.

Una inferiorità spirituale lo condannava ancora alla miseria della schiavitù: religione e filosofie lo opprimevano egualmente, arti e scienze si servivano della sua sostanza alla propria opera come di una materia greggia; l’agricoltura beveva tutto il suo sudore e la guerra tutto il suo sangue. Il progresso della storia quasi sempre non gli giovava: soltanto in alto, nella sfera degli eletti, lo spirito saliva purificando, mentre giù nell’immensa palude popolare tutto rimaneva come immobile, il dolore e il pensiero. Quando Gesù pareggiò gli uomini in Dio e morì proclamando il trionfo degli umili sui superbi, parve che una subita forza sollevasse la vecchia anima della moltitudine: dalla confusione oscillante del suo numero uscirono in processione i martiri e balzarono gli eroi: una giustizia e una pietà dagli alti gradi sociali piegava i cuori e le menti verso gli infimi ad aiutare coloro, che vi singhiozzavano e vi morivano: ma come nella visione di un poema o nella illusione di un dramma il quadro rifulse e vanì. Anche nel cristianesimo, dopo il cristianesimo, il popolo rimase umile ed umiliato, povero e servo, costretto a chiedere il lavoro per elemosina, a sentirsi materia e strumento nell’azione di ogni governo, nell’opera di tutti gli Stati.

Se malgrado la lunga terribile prova la sua anima non si esaurì, in tale resistenza era il trionfo non del popolo ma della storia, perchè il popolo è la matrice, della quale solamente può uscire tutto ciò che rinnova ed è nuovo: invece se il popolo avesse come il giumento della favola piegato sotto la soma, la storia si sarebbe arrestata.

Ma nè la religione seppe consolare tale tragedia, nè l’arte significarla: perchè?

Vi è altrove una giustizia che comprenda i dolori senza nome, il martirio senza figura, l’olocausto senza numero? Vi è qualcuno al disopra di noi, che possa averlo voluto imponendo al nostro pensiero di non capirne il mistero e al nostro cuore di non poterne evitare lo spasimo?

Le rivelazioni del cristianesimo avvicinavano però con uno sforzo crescente il giorno della grande equazione storica nelle classi, assottigliando quotidianamente la base delle gerarchie ed aumentando nel popolo la forza di penetrazione. Finchè le aristocrazie furono davvero spirituali e combatterono innanzi al popolo per conservargli la vita, questo doveva ubbidire e morire sotto di loro; ma dopo il rinascimento, nel dileguare dell’ombra e nel trasformarsi dell’opera medioevale, la funzione aristocratica precipitò rapidamente. Contro di essa la monarchia si appoggiava sul popolo centralizzando e unificando, il nuovo assetto pacifico e civile consentiva maggiore importanza al valore dell’individuo come tale, la rivincita del pensiero laico sul pensiero religioso aiutava. Oggi nessuna aristocrazia ha una anima e nessuna classe una fisonomia inconfondibile: vi è conflitto d’interessi piuttostochè contraddizione di caratteri, eredità di fortuna non di comando, differenza di cultura anzichè di educazione: qualunque individuo, comunque nato, può lottando, conquistando, arrivare sulle cime della ricchezza e del potere: ogni delicata natura di donna apparire nella dignità della dama, ogni carattere altero esprimere la nobiltà del gentiluomo.

Nelle gerarchie la dipendenza è oramai più di ufficio che di persona: bisogna superare per prevalere, non si arriva più senza essere superiore, o si comanda obliquamente col danaro comprando momentaneamente qualche gruppo di infimi. Il popolo una volta prosternato davanti ai propri padroni, oggi sa di essere più che una classe, si preoccupa delle imposte, discute la guerra, penetra in tutte le amministrazioni, non soffre più i vincoli, e rompe oramai quelli di patria. Ha i propri giornali, i libri, una letteratura: vuole confondersi cogli abiti ai ricchi, si prepara un decoro nella casa, esige pensioni alla vecchiezza, una educazione ai propri figli, un soccorso legale ai propri invalidi. Una fierezza gli tiene alta la testa e gli ha mutato il sorriso in un ghigno, disprezza le fortune immeritate, sberta su tutti i gradi le incapacità intellettuali, improvvisa spiegazioni a tutti i problemi, si precipita violento di confidenza in se medesimo contro tutti i misteri.

Attraverso le distanze e gli antagonismi diplomatici i popoli hanno già sentita una solidarietà umana e storica: il flusso e riflusso delle emigrazioni, che culla i più audaci fra i più poveri, da continente a continente, la facoltà di poter creare ovunque la propria fortuna, l’indifferenza a vivere e a morire dappertutto, educarono nello spirito popolare una nuova superbia. Quella delle antiche aristocrazie derivava appunto da funzioni militari e politiche superiori al popolo, questa sale nel popolo da una coscienza più forte umanamente, da una più profonda libertà nel luogo ove si nacque e nel mestiere al quale si fu allevato.

Città e campagne cangiarono di aspetto, non più il castello e il tugurio, il palazzo e la casipola: nei ritrovi tutti entrano pari, in ogni discussione nessun superstite rispetto di persona arresta la parola di una opinione: oramai è difficile indovinare negli individui la classe di origine, e i caratteri che possono aiutare questa classificazione sono secondari.

Nel pubblico il popolo prevale: decide tutto, lusso e moda, arte e politica, feste e lutti; le classi superiori non osano contrastare e non lo potrebbero, gli stessi individui più alti ed originali si ritraggono piuttosto che urtare. Il grande sogno della democrazia, che trovò in Mazzini l’ultimo poeta bello, si è avverato: la democrazia trionfa nel popolo e fra coloro, che furono aristocratici, nei parlamenti e nelle corti: la storia diventando universale si fa popolare: monarchie e dinastie sono già una maschera sul viso di un qualche ministro plebeo. Il popolo solo è imperatore.

Ma questo imperatore somiglia troppo gli antichi.

Il suo pensiero è ancora un capriccio appena cessa di essere un istinto, la sua volontà s’interrompe ad ogni suggerimento e prorompe ad ogni sensazione: l’illusione del numero gli ha dato le vertigini dell’onnipotenza, la novità dell’impero gliene impedisce il decoro. Coloro, che pretendono consigliarlo, non sono quasi mai della sua classe, non esprimono la sua lunga tradizione, non parlano la sua lingua: saliti o discesi dalla borghesia ne hanno i vizi e non le poche virtù, l’abilità senza il pensiero: improvvisati anch’essi mancano della preparazione indispensabile al governo e ignorano le fatalità dello stato. Identificando quello con questo, immaginano puerilmente il problema della storia come un problema di legislazione: senza passione nè di dolore, nè di ambizione scambiano il comando per l’impero, le pretese di una categoria per un bisogno della nazione. La povertà della coltura non è più in essa compensata dalla sincerità dell’istinto e non ancora dalla ricchezza dell’esperienza. Invece un ottimismo di festa attutì in loro il senso tragico oscurando la coscienza del dovere sociale: una insufficienza di liberti li fa riottosi alla legge e riluttanti al sagrificio: ogni loro negazione non è che uno sgravio dal peso della morale o da quella anche più grave della logica. Quindi condannano come vecchi tutti gli ideali: al rigore e alla limpidità della morale religiosa contrappongono una confusa condiscendenza della natura, al dovere del padre il diritto del coniuge, alla devozione del soldato la libertà del cittadino, alla responsabilità dell’eletto l’irresponsabilità dell’elettore. Delle scienze non accettano che le applicazioni, dell’arte il piacere: parlano di coscienza, e non mirano che a scaricare sulla società ogni obbligo dell’individuo, pretendendo nulla meno d’imporre l’incoscienza oscillante delle maggioranze alla coscienza di coloro, che più in alto dirigono ed ammaestrano.

Così una disciplina sovverte già l’ordine nella funzione, e una vanità bruna ed infantile fa credere al popolo più minuto che nell’inferiorità del lavoro manuale sia tutta la forza e la verità della produzione. Raggiungere al più presto il maggior grado d’importanza e di agiatezza, ecco l’ultimo teorema del popolo: essere il primo senza la responsabilità di essere migliore, ecco il suo nuovo paradosso.

Ma se intorno a lui, sotto e sopra di lui, mestieranti e parassiti si arrovellano a persuadergli questi errori, la sua anima è troppo antica e profonda per soccombere. Adesso il popolo non appare ancora che una vanguardia di colori e di voci; i suoi gruppi si urtano ad ogni passo, le loro bandiere si confondono, mentre nelle prime file avanzano i guastatori: bisognerà lungamente attendere, sopportare, prima che il popolo vero, placato in se stesso la smania del proprio avvento, stabilisca i nuovi ordini. Adesso nella bufera delle negazioni passionate le poche affermazioni traspaiono deformi: l’irreggimentazione cominciata nelle grandi fabbriche prosegue nelle grandi leghe operaie: le cooperative, che dovevano esprimere la reciproca devozione nella differenza dell’opera e della retribuzione, non sono che bande, nelle quali i più incapaci, quindi i più numerosi, impongono ai migliori il proprio livello, pretendendo di negare il libero lavoro altrui e capovolgendo l’eterna legge sociale del massimo salario col minimo lavoro. La solidarietà sociale distrutta teoricamente dalla concezione che lo stato sia soltanto organo della classe superiore, scompare fra lega e lega, socio e socio; s’impongono gli scioperi a capriccio, più a capriccio i boicotaggi, si odia l’esercito come una gendarmeria governativa, si esige l’impunità per la prepotenza contro la libertà del lavoro, si nega il diritto del cittadino e l’uguaglianza dell’uomo all’operaio non consociato, che ne sostituisce un altro: non si permette alle più alte opinioni di essere contrarie ai più bassi interessi, e al pensiero di rimanere superiore al sentimento.

Una tirannide minuscola, inetta e timida, organizzata nella falsità dal nuovo patriziato operaio arresta già la magnifica ascensione del popolo e travia la sua coscienza. Nulla infatti è gratuito nella storia, e nessuna originalità senza tragedia. L’avvento popolare, poichè dovrà aprire nel mondo la più grande delle epoche, esigerà i più lunghi e dolorosi sagrifici: non si sostituisce una classe o una razza che superandola: il popolo non riempirà quindi di se stesso la propria storia nazionale che esercitandone tutte le funzioni ed alzandone tutti gli ideali.

Ma non apparvero ancora nell’arte, nella scienza, nella religione, i segni della modernità popolare; la democrazia della piazza invece di creare copia dalla democrazia borghese, e mentre questa colla propria originalità fece del secolo decimonono il primo secolo mondiale, quella si chiude nei piccoli egoismi di categoria abdicando ai pericoli e ai dolori della gloria.

Parrebbe quasi che nello sforzo di questo momentaneo arresto tutta la vilezza della vecchia servitù rimonti a galla nella coscienza popolare. Il soffio ardente della lirica mazziniana aveva già sollevato l’anima plebea così che l’impeto eroico di Garibaldi potesse travolgerla nel sacrificio della guerra: e allora sullo sfondo grigiastro della borghesia si rilevarono mirabili di bellezza molti eroi poveri ed ignari: adesso in tanta appariscente conquista di salari o di gradi politici lo spirito popolare non ha quasi più orgoglio individuale e dignità di classe. Mentre si accusa la borghesia di avere tutto immolato alla conquista del danaro, questo soltanto è rimasto un ideale nella mente e nella vita del popolo: selezione ed elezione politica retrogradano; una invidia vigila gli eletti e falsifica ogni loro atto, mutila le loro parole, arresta la loro opera: la teoria della sovranità popolare intesa ipocritamente nell’infallibilità delle assemblee più basse impone ai pochi capaci di una vera opera intellettuale la più supina obbedienza alla incapacità bruta degli elettori; e poichè quelli resistono, le condanne di ostracismo fioccano ad ogni ora.

Il potere popolare invece di salire è ridisceso: i condottieri non sono più dinanzi ma di dietro la turba; la parola decisiva è la più bassa, l’intenzione più efficace quella che sguinzaglia un appetito o giustifica una inferiorità.

Non una idea, non una forma in questo primo avvento popolare che non sia copiata dai modelli borghesi: non un poeta, che abbia gettato a volo una strofe, un pensatore che tenti di affermare nella impersonalità di un sistema l’originale verità di questa rinnovazione popolare. L’edificio sofistico di Carlo Marx è rovinato senza che un altro sia sorto come scuola e come tempio: oramai le alture della utopia sono deserte, non si crede più nè a sogni, nè a condottieri, e abdicando alla necessità dei principii s’invoca soltanto la organizzazione soldatesca del numero.

La borghesia, inferiore nella propria rivoluzione, adesso più numerosa e più ricca, non sa difendere in se stessa i grandi principi liberali, e sapendolo non l’oserebbe: timida allora dinanzi alla guerra collo straniero, è timida ancora davanti ad ogni minaccia di rivolta, mentre nel popolo è anche più scarsa la passione e debole la coscienza rivoluzionaria. L’una di fronte all’altro paiono quindi due caricature di un duello senza armi.

All’immunità del re si è sostituita quella della plebe: la libertà è senza fedeli, il diritto senza difensori: nessuna tirannia quindi più vacua ed ignobile di quesito improvvisato governo plebeo, che comanda dentro la legge e contro la legge: nei conflitti fra capitale e lavoro gli operai possono abbandonare il padrone, non questo licenziare quelli: nei contratti di lavoro gli operai sono rappresentati da uno stato maggiore irresponsabile, che possono sempre sconfessare e che sconfessano: il governo finge di essere neutrale consentendo la licenza di tutte le minacce e l’arresto di tutti i lavori.

Popolo e borghesia, matrigna ed erede, l’uno di fronte all’altra sono egualmente senza virtù d’idea e valore di guerra: questa esaurì i grandi ideali, quello non ancora seppe comporre il proprio.

Alla borghesia occorsero quasi due secoli per arrivare dal rinascimento alla grande rivoluzione francese, e prima rinnovò tutto lo spirito umano: il popolo non ha ancora avuto alla vanguardia che pochi utopisti. L’arte così pronta a cogliere le novità primaticce non ha saputo scrivere un capolavoro popolare, la coscienza plebea esprimere un sentimento più profondamente umano, più squisitamente delicato di famiglia o di patria, d’onore o di sacrificio, che nei tipi illustri della aristocrazia e della borghesia. Il difetto di originalità nel movimento ne rende quindi artifiziosa la forma, e guasta l’arte al primo contatto: guardate Tolstoi, Zola, Anatole France; le loro ultime opere a intendimenti popolari discesero sotto la mediocrità.

Negli antichi dispotismi il tiranno poteva essere un genio, nella minuscola tirannide di questa ora il despota collettivo od anonimo non ha nemmeno la tragica grandezza del delitto e l’irresistibile poesia della morte: incapace di battersi non sa nè comandare nè obbedire: senza carattere crede di avere vinto ogni qualvolta ottiene una concessione.

Le rivoluzioni non avvengono così.

Borghesia e popolo sono ancora dentro questa grande fase dell’industrialismo: il popolo esiste già politicamente, ma la sua anima è di fanciullo e la sua vita di accatto.

L’aforisma costituzionale «il re regna e non governa», che fu l’epitaffio della monarchia, adesso pare invertito «il popolo governa e non regna». Ma la sua vacuità non è diventata che più sonora; manca sempre la parola nella voce, l’accento nella parola.

Aspettate.

«Et verbum caro factum est».

Allora soltanto comincerà la rivoluzione popolare.

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