CAP. VI.L’individualismo

La natura creò l’uomo, la storia si affatica ancora nella creazione della sua individualità.

Il tempo di tale fatica cresce al di là di tutti i nostri computi nell’oscuro segreto delle origini e nella tenebra ancora più profonda del fine, al quale vita e storia s’indirizzavano; non sappiamo e non sapremo mai quali fummo ai nostri primi giorni, quando fra i viventi apparimmo nella libertà del pensiero. Perchè l’uomo solo è libero nella natura così da contrapporre l’opera propria alla sua e di negare in sè stesso la vita. Che la storia cominci da una caduta e da un esiglio come nel mito biblico, o piuttosto si sviluppi dalla natura, nella quale la nostra animalità è immersa, e i nostri istinti ci rendono parenti quasi tutti i mammiferi, certamente l’ascensione della nostra individualità fu lenta e dolorosa. Era una legge dello spirito o soltanto la resistenza, che l’animalità gli opponeva? In ambo i casi il mistero resta egualmente tragico, poichè in tale sviluppo l’uomo stesso fu sagrificato all’uomo.

Se dall’impossibilità di non riconoscere un disegno nella storia siamo tratti irresistibilmente a supporle una finalità, tosto il nostro pensiero soccombe alla contraddizione del processo, che sacrifica l’uomo all’uomo ed immola generazioni e popoli alla realizzazione di un solo carattere spirituale.

L’espediente di negare nella storia il progresso lasciandovi le genti solitarie e slegate nel tempo, che riempirebbero a vicenda della propria breve vita, non ci salva dall’angoscia del problema; anzitutto l’evidenza della continuità e del progresso è irrecusabile nel quadro storico, poi questi popoli che non comporrebbero una umanità, le loro cronache che non esprimerebbero una storia, l’unità degli individui che non basterebbe all’unità della specie, le leggi supreme dello spirito che si negherebbero scambievolmente nella frammentaria esistenza delle società, le categorie della logica e della vita, tutto ridiventerebbe anche più incomprensibile. Fuggenti figure di un quadro, nel quale i nostri occhi non possono andare oltre l’ondeggiamento dei primi piani, mentre il pensiero l’attraversa a volo, dobbiamo ignorare il motivo della sua composizione e non comprendere l’essenza delle stesse leggi, che scopriamo, sentendo in ognuna delle nostre affermazioni il limite di una negazione; siamo condannati all’interpretazione della storia pur sapendo che nessun sistema le contiene, benchè la verità della sua logica sia identica a quella della loro: credenti ed increduli ci crediamo egualmente il centro più importante dell’universo nel pensiero, col quale lo creiamo in noi stessi. La coscienza ci dice che soltanto la nostra ideale figura può essere lo scopo della nostra vita, e che ci bisogna vivere nella passione del vero, nell’opera del bene creando colla medesima potenza della prima creazione un’altra volta noi stessi in un’altra anima, mentre la storia ci mostra invece nel suo mobile panorama una strage ininterrotta, l’uomo che strazia l’uomo: tutte le sue pagine grondano sangue e le macchie del sangue restano in quelle, dalle quali le figure disparvero: nella sua voce trema il lamento dei secoli, ne’ suoi trionfi bruciano i fuochi dei martirii, nella sua immortalità i buoni non rimontano quasi mai dalla umiliazione alla gloria.

Eppure il nostro pensiero deve egualmente affermare che la storia è una rivelazione dello spirito a sè stesso, una educazione, nella quale questo si libera grado a grado dalla natura plasmando la propria figura ideale come un modello. Così la perfezione, che ognuno raggiunge, si trasmette nel segreto delle generazioni propagandosi colla religione e coi codici, coll’arte e colla scienza: la graduazione umana è nei gradi di tale opera spirituale: la nostra grandezza e la nostra solidarietà in questa opera medesima.

Dentro l’immenso processo, l’umanità essendo scopo a sè medesima, il risultato rimane negli individui, che si succedono; la coscienza individuale si forma dalla coscienza collettiva con una legge misteriosa di composizione, nella quale idee e sentimenti s’integrano. Da regione a regione, da secolo a secolo, la civiltà passa per vie visibili ed invisibili: una solidarietà profonda si rivela tratto tratto nelle soluzioni dei massimi problemi o si ripete nella struttura dei periodi e nei quadri delle epoche. Per ogni popolo vi è un’opera, che contenuta nella sua individualità si compie nella sua vita; le accidentalità dei corsi e dei ricorsi esteriori possono ingannare il pensiero, molte volte tale opera resterà oscura e parrà dimenticata, mentre sopravvive invece nella continuità delle idee e dei sentimenti, che mantengono la vita nell’umanità. Per ogni popolo quindi la potenzialità storica si esprime nella potenza della sua astrazione: in questa soltanto, nella quantità e nel modo che esso pensò il problema della propria vita, nella religione, nell’arte, nella filosofia, nella giurisprudenza, nella guerra, è il segreto della sua individualità.

L’uomo vive come sente e pensa sè stesso: è sempre la sua segreta ideale figura che gli serve di modello: sono sempre i rapporti, i quali ha potuto ascendere nella astrazione, quelli che si sforza di realizzare nell’opera.

Il posto di ogni popolo nella storia è misteriosamente, anticipatamente fissato nel grado della sua individualità: questa potrà diversamente significarsi, prevalere nella religione o nell’arte, nella scienza o nella guerra, ma l’opera non la sorpasserà mai. Così nel tempo della storia vediamo tutti i popoli compiere lo stesso ufficio civile sforzandosi a preparare qualche idea o le sue condizioni di sviluppo, e in questo sforzo esaurirsi.

La preistoria è il prologo della storia, che sbozza caratteri e figure: tutto vi è rudimentale, l’animalità prepotente esige il sagrificio umano, l’astrazione è appena sensibile nella legge che è soltanto un costume, nella religione che s’inizia in un rito, nella giustizia che si rivela in un lampo, nella pietà che comincia in un tremito e sopravvive in un ricordo. La sopravvivenza appare quindi come la massima pregiudiziale nella preistoria, dentro la quale la guerra è ancora più viva contro la natura che fra gli stessi gruppi umani: laonde tutto lo sforzo urge sui caratteri domestici. Quando il selvaggio non amerà soltanto nell’amore di razza, ma sentirà nella piccola vita del figlio un mistero, l’uomo comincerà a rivelarsi in lui. La preistoria non va oltre l’accenno dei maggiori caratteri umani, nella storia si apre la tragedia.

La storia erompe dalla contraddizione della individualità singola coll’individualità collettiva, dal sacrificio del pensiero e della volontà ad una legge superiore. Ogni dramma scolpisce quindi le proprie figure: tutte le volte che l’universo cresce nel pensiero umano l’uomo cresce in sè stesso, qualunque rapporto stabilito colla divinità muta quelli fra uomo e uomo. E tutto è reciproco: le azioni s’invertono, è la figura del figlio che perfeziona quella del padre, il tipo del cittadino che migliora quello del soldato, la spiritualità degli Dei che solleva gli spiriti umani.

Se la nostra coltura lo consentisse, dovremmo scrivendo la storia cercarne il rapporto nella coscienza degli uomini medii, giacchè le massime figure, uniche visibili, rappresentano nella storia piuttosto le intenzioni che ì risultati. Ma questa ricerca sarà sempre impossibile; ci bisogna quindi tentare tale scoperta nei caratteri più decisivi di una civiltà supponendo che in essi soltanto la folla potè attingere i modi della propria vita. L’impressione di tali caratteri sulla moltitudine sarà stata lenta in tutti i tempi: nessun statuario scolpì come la storia in materia più dura, l’anima umana si lascia scalfire mero del porfido. Da secoli e secoli le più belle verità della morale, le più grandi parole della filosofia furono pronunciate senza che il maggior numero dell’umanità le abbia ancora imparate: da secoli e secoli gli eroi si votano in olocausto perchè l’umanità diventi degna di loro e di sè stessa. Ma indarno. Parrebbe quasi che non l’animalità resista in noi all’azione dello spirito, ma lo spirito stesso. Dopo duemila anni la grande anima dei vangeli non è ancora la nostra anima: malgrado la perfezione astratta dei tipi e dei nostri rapporti domestici oggi la famiglia è ancora un gruppo d’interessi antagonisti, invece di essere la nostra prima unità spirituale.

L’innumere sacrificio umano depone contro l’umanità: tutte le idee vi sono cresciute nel sangue, i fiori più belli dello spirito non vollero altro concime; la nostra solidarietà è pari alla nostra ingratitudine, dimentichiamo il passato e nell’egoismo del presente neghiamo di sottomettere la nostra opera al futuro.

Oggi come sempre, in questa prima universalità della storia, dentro al più grande dei trionfi civili, l’anima della moltitudine non pare cambiata.

Ma l’uomo moderno sorge incomparabilmente migliore dell’antico.

La storia non mutò il proprio processo, ma l’attenuazione ne appare ormai visibile a tutti. In ogni tempo la schiavitù per la legge misteriosa della contraddizione fu la condizione pregiudiziale della libertà: bisognò che moltissimi fossero schiavi perchè si sviluppassero nell’anima dei padroni alcuni caratteri: come nella preistoria spesso l’uomo dovette essere cibo all’uomo, così nella storia le aristocrazie furono un focolare che i piccoli alimentarono di sè medesimi nell’interesse di tutti; e l’impermeabilità dello spirito umano era tale che un sentimento e una idea non potevano penetrarvi simultaneamente. Spesso anzi per renderli accettabili fu necessario mascherarli con simboli religiosi o armarli di pene, più spesso ancora accompagnarli d’ignobili concessioni a sentimenti o a idee inferiori, dalle quali l’umanità non voleva uscire.

Qualche volta nella elaborazione storica l’idea appare prima che le condizioni della sua realtà sieno preparate, tal’altra invece il terreno aspetta lungamente il seme: come in ogni altro campo le semenze falliscono e le vicende delle stagioni uccidono il germoglio o il frutto: è d’uopo quindi ritentare, rifare colla ostinazione del bisogno e la caparbietà dell’istinto, perchè l’opera finalmente trionfi. Ma anche nella vittoria nulla pare ben sicuro: vi sono sempre ecclissi in tutti i meriggi, perdite in ogni guadagno: tra vincitori e vinti nessuno può giudicare, poi il tempo li cancella, e allora soltanto appare il risultato della guerra.

Quasi sempre l’errore è nella storia la maschera della verità.

Mentre una idea solleva e muta la coscienza di un popolo, la compagine di questo non può mutare negli interessi, nei vizi, nelle passioni che hanno già tessuta la sua vita: quindi la nuova idea, che dovrebbe contraddirli, li seduce invece con qualche sua falsa apparenza servendosi delle loro forze al proprio scopo. La verità procede velata: la rivelazione comincia soltanto nella morte: ecco perchè i viventi non sanno mai il segreto della loro opera. Tutto sembra contraddirsi, filosofia e scienze, libertà ed autorità: la vittoria dell’uno diventa oppressione dell’altro, le bestemmie dei vinti sono quasi sempre giuste come gli osanna dei vincitori, mentre il trionfo si compie invece inavvertito nel fondo delle nuove coscienze. Azione e reazione sono dunque ugualmente necessarie; senza la pervicacia dell’opposizione gli eroi e i martiri non sarebbero, e la loro idea non avrebbe la necessaria irresistibile forza di penetrazione. Quando un popolo è esausto e un’epoca conclusa, una malinconia cade come un crepuscolo iemale: ricordate il tramonto dell’impero romano? Tutta la civiltà affondava, i barbari struggevano senza capire, i cristiani pregavano in un sogno; Roma era morta, il mondo pareva morire con Roma. E invece il sogno cristiano era già la visione di un nuovo mondo, e l’ignoranza dei barbari una verginità, sulla quale lentamente la verità e la bellezza antica rifiorirebbero.

Così nella storia ad ogni individualità, che non può perfezionarsi, succede un individuo, che ne deve sviluppare un’altra profittando di quanto la prima potè davvero assimilarsi: nessuna verità, nessuna virtù viene meno nell’anima umana; mutano solamente tempo, luogo, espressione ingannando spesso i più acuti osservatori. Ma nulla si perde nello spirito come nella natura: questa rifà in alto ciò che sembra distruggere in basso, quello dissolve nella luce ciò che prima mostrava nella penombra.

Come l’arte raggiunge la perfezione nascondendosi nell’opera, la storia si dissimula nei risultati: tutta la sua grandezza è nei mezzi e la gloria nelle catastrofi: poi le vittorie diventano invisibili, senza che la gente vivendone immagini nemmeno quali sacrifici abbiano potuto costare.

La differenza fra l’antica monarchia e la moderna democrazia è nella coscienza della individualità, che noi sentiamo pari a se stessa in tutti i suoi momenti, e che allora rimaneva invece dispari nel sovrano e nel suddito: ma quanti secoli occorsero per pareggiare tale differenza?

Nella schiavitù la catena dello schiavo è saldata al polso del padrone e gli impedisce come all’altro di muoversi nella libertà: l’insofferenza comincerà quindi prima nel padrone che nello schiavo: per emancipare questo bisognerà innalzare quello; l’ideale umano soltanto nella uguaglianza delle anime potrà in entrambi rompere la schiavitù.

Le aristocrazie dominatrici per compensare in se medesime il guasto del proprio privilegio dovettero crearsi un ideale eroico, nel quale svolgere la spira della propria individualità: così un’altra schiavitù con formule, riti, limiti anche più rigidi gravò sul loro orgoglio, che fu libero solamente dentro la necessità di sviluppare il proprio carattere.

Quasi tutta la funzione politica delle grandi nazioni non si compiè altrimenti: al disopra della legge la religione temperava il disaccordo in una più vasta unità, al disotto della legge l’anonima forza della vita avvicinava e livellava i viventi. Ma sempre l’individuo, per crescere ebbe bisogno di guarentirsi dentro qualche coccia: caste, corporazioni, ordini non ebbero altro ufficio: sviluppare in una quantità d’individui un carattere, che diventato permanente si affermava come un privilegio, finchè lentamente, sicuramente si riconfondeva con tutti gli altri.

La più alta espressione politica è dunque l’individualismo.

Finchè l’individuo per assicurare una propria qualità ha bisogno di una legge che lo difenda e limiti, la sua personalità è ancor minorenne: finchè per operare l’uomo deve annullarsi in una folla o per affermare il proprio diritto umano sottomettersi tutto alla propria classe, la sua coscienza è ancora inferiore.

La formola della libertà è l’associazione fra discordi: quale è dunque l’individualismo nella democrazia moderna?

Adesso la negazione più viva di questo appare nel socialismo, che non potè mai diventare un sistema.

Ma la forza di un’idea si esprime appunto nel suo sistema, che poi la storia assimila nella propria creazione; il socialismo, cominciato nella utopia finisce nella critica alla democrazia borghese pur rimanendo chiuso nei principii e nei vizi di questa. Non ebbe moto nè di religione, nè di filosofia, nè di scienza, nè di arte: la parità economica, che egli vorrebbe trasportare dall’astrazione della legge nella realtà della vita, era già contenuta nella parità civile dell’elettorato, e non potè mai uscirne che nel sogno, perchè l’uomo è uguale all’uomo soltanto nello spirito: la partecipazione della classe operaia al governo era già del pari affermata nel principio elettorale e nella giustizia dei nuovi codici: la libertà di tutti gli individui in tutti i gruppi fu la grande conquista della rivoluzione borghese.

Questa disciolse i vecchi ordini, equiparò gli individui nella famiglia, dichiarò inviolabile coscienza e domicilio, lo stato indipendente dalla chiesa, la chiesa libera in se stessa. Adesso il socialismo applica contro l’egoismo borghese le ultime conseguenze della rivoluzione borghese: è una critica e non una creazione. Le sue negazioni non sono che formali e nega la proprietà e la patria, ma non ha nemmeno nel sogno il quadro di una futura umanità senza l’una e senza l’altra: il suo cosmopolitismo è quindi vuoto, e la proprietà da lui negata in alcune forme immobiliari sopravvive dentro di lui nelle forme mobili. Nella storia immagina colla puerilità dei metodi più antiquati un sopruso di pochi forti su molti deboli ed afferma la prevalenza dei motivi materiali sopra gli spirituali; nelle religioni sopprime Dio senza sostituirvi nemmeno l’umanità, che nel recente materialismo storico perde così la propria individualità. L’umanità ingiusta ieri come diverrebbe giusta domani? Che cosa sarebbe la nuova giustizia, dalla quale i morti resterebbero esclusi? Che cosa è una verità senza passato? Nel socialismo stato e governo si confondono: l’uno e l’altro non sono che strumento di oppressioni nelle mani delle classi dominanti: non vi è dunque più storia, giacchè questa si forma appunto col deposito delle verità in tutte le epoche, e tutte sono egualmente vere e tutte compongono l’idea della umanità. Stato e governo invece sono le due più importanti astrazioni realizzate di ogni tempo, due modi della stessa individualità nazionale che a traverso il presente trasmette il passato all’avvenire: il presente può violarle colle sue effimere esigenze, non crearle, non distruggerle.

L’affermazione socialista della lotta di classe non ha alcuna originalità: ovunque e sempre classi, corporazioni lottarono così: era ed è una debolezza dei loro individui ancora incapaci di sdoppiare in se medesimi il proprio immediato interesse di categoria dall’altro più vasto della loro individualità nazionale; quindi falsificandosi affermano soltanto quello. Ma tale affermazione, se così può raggiungere nella lotta maggiore efficacia, è una suprema confessione d’impotenza, e la più profonda abdicazione al governo, che invece è sintesi di vita.

Invece per una delle solite inversioni i socialisti vi partecipano entrando nella necessità della storia, che dissipa tutte le utopie.

Infatti la meravigliosa sofistica di Marx è già abbandonata e quotidianamente la critica socialistica si smente accettando nella pratica quanto nega nella teoria. La stessa potenza d’irrigimentazione, che adesso forma la gloria e la forza del socialismo è una conseguenza e un plagio borghese: prima furono le grandi fabbriche ad insegnare l’alfabeto della politica nelle società di mutuo soccorso e nelle elezioni dando il voto per poterlo comprare.

L’operaio moderno non è ancora che la larva del cittadino: qui è tutta la sua originalità. Per diventarlo davvero gli converrà superare se stesso riconoscendosi sovrano nel sacrificio del proprio egoismo allo stato: e questo sarà. Intanto il sogno di una immediata conquista lo sospinge puerilmente all’opera: una vanità lo emancipa dai padroni senza farlo ancora padrone di se stesso, un istinto di primavera lo porta a tutte le novità: si sente libero, ma incapace di sostenere il peso della nuova libertà pretende alla tirannia. Egli solo vuole essere creatore, egli solo sovrano: il mondo gli pare di ieri, nato con lui: il numero gli diede l’illusione della forza, dalla coesione momentanea del partito gli viene un sentimento altero di unità. Per sentirsi anche più libero non crede in Dio ed è rimasto superstizioso dinanzi ai problemi e ai misteri, che soprafanno la sua anima; nella spavalderia di tutte le giovinezze proclama il libero amore, colla ingordigia di un lungo digiuno grida che la società deve mantenerlo anche se non lavori. Nega la guerra alla frontiera e minaccia d’insorgere quotidianamente su tutti i punti. La sua dottrina è più breve di un decalogo, e in ogni articolo sta un diritto: la sua ignoranza invece è centuplicata, appunto perchè comincia adesso a sapere, urtandosi a difficoltà, che prima per lui non esistevano. Si lagna perchè sta meglio.

Il suo ideale è la borghesia, che gli è sopra.

Tutto è borghese nella classe operaia, il linguaggio, le idee, i costumi, gli abiti, i sogni della ricchezza, gli espedienti per giungervi, la piccola incredulità, l’energia del lavoro, la rettorica nella politica, l’egoismo nella famiglia, la volgarità nel sentimento e nell’opera. Infatti la borghesia pare disarmata dinanzi al nuovo nemico, che è ancora lei stessa: giornali, tribunali, parlamenti sono pieni di deferenza a tutte le pretese di questo anche se formulate colla più insolente o ridicola vanità: non fu la borghesia ad armare il proletariato, ad insegnarli la filosofia del danaro e l’ironia contro tutte le fedi? Adesso non sa quindi difendersi: non si battè abbastanza nella rivoluzione, quindi non osa nemmeno concepire la battaglia per difendere una libertà donata da vittorie straniere.

Così l’ascensione operaia si fa più rapida ed artifiziosa: la demagogia borghese la guida, la monarchia le sorride, il clero assiste ancora inerte o quasi, mentre dall’alto il Vaticano riafferma intrepidamente l’autorità, che i re non sanno più rappresentare. La recente ricchezza consente molte mutazioni, ma siccome si compiono gratuitamente sono poco efficaci. Troppo spesso il bisogno viene scambiato col desiderio, più spesso ancora non si bada se al desiderio corrisponda la capacità del dare e del ricevere. Infatti la distribuzione del nuovo benessere accade moralmente a rovescio: i più beneficati sono quelli che già stavano meglio: ai più poveri nessuno pensa. Ma la ragione di questa differenza è ancora nel principio borghese di questo rivolgimento.

Non è davvero popolare: ecco perchè manca di originalità.

Non si tratta nemmeno di una conquista, che la classe operaia compia sulla borghesia, ma di un nuovo strato, che il patriziato operaio vi aggiunge.

Eppure ciò basta a spostare tutti gli ordini, e dopo le guerre napoleoniche la rivoluzione borghese non avrà avuto momento più importante di questa ascensione operaia: la grande, vera rivoluzione verrà.

Noi assistiamo ora ad una conclusione, piucchè ad un inizio: una rivoluzione si annuncia sempre sulle alture: religione e filosofia, scienze ed arti, suonano la diana: invece qualche chiarore appena sorride all’ultimo orizzonte.

La storia non può costruire fuori della coscienza; le abbisogna una fede che stringa tutto l’uomo, una morale che risponda a tutte le domande secrete, una forma che sorga dalle profondità della vita. Il socialismo non ebbe ancora nè martiri, nè eroi: le negazioni non creano, la critica stessa non basta a demolire. L’incapacità dell’idea socialista ad assorgere in un sistema ne rilevò il vuoto: le sue negazioni erano tutte superficiali, accettò la filosofia materialistica senza nemmeno accorgersi che teoricamente era contro di essa, proclamò un ideale di giustizia negando la tragedia umana e mettendo la felicità nella soddisfazione dei minuti bisogni: ai problemi che sorpassavano la vita, pretese di non rispondere dimenticando i morti e affidando il trionfo della verità ai non nati.

Così la sua forza fu soltanto nell’interesse economico, e i suoi risultati maggiori nell’aumento dei salari. Certamente v’era un progresso anche in questo, ma la coscienza popolare non ne fu mutata. Nessun ideale si sostituì a quello cristiano, nessuna morale vi compose più altamente i rapporti del cuore; uno scetticismo acre e beffardo irrise invece a tutte le fedi, che già sollevarono il mondo; un fantastico dovere sociale succedette ai più profondi doveri umani di padre e di figlio, di coniuge e di cittadino. La società doveva diventare una provvidenza integratrice di tutti i disordini e di tutti vizi: all’individuo doveva bastare di esistere per avere ogni diritto.

Invece l’individuo diminuì: l’esercizio dei nuovi diritti non gli alzò l’anima, spesso l’aumento dei salari sostituì una miseria ad un’altra, quasi sempre la partecipazione politica ridusse l’elettore ad un automa. Infatti nella smania e nella necessità della irregimentazione il partito impose a tutti una dottrina che non aveva: ogni dissenso fu detto rivolta, ogni opposizione dichiarata tradimento. Le espulsioni fioccarono, i maggiori e i migliori ne furono colpiti: i congressi funzionarono come concili e fallirono come parlamenti.

Ma un sottinteso minaccia anche più profondamente la coscienza socialista. Come ogni altro partito estremo, esso doveva reclutarsi dappertutto, poco vagliando, assolvendo il passato di ogni individuo pur che si arruolasse, non domandandogli di realizzare nella propria vita le affermazioni dei propri principi. Così credenti ed increduli, bigotti e dilettanti, lavoratori e parassiti, capitani e soldati, tutti rimasero nella loro condizione affannandosi a salire senza una rinuncia per stabilire almeno dentro al partito quella parità economica, nel cui dogma combattevano. A coprire tale contraddizione si disse che le rinuncie singole non gioverebbero e il mutamento si compirebbe intero nel suo inizio, quando stato e governo fossero caduti nel potere del socialismo.

Il sogno catastrofico di Carlo Marx era vanito anche nelle menti più infantili, e il suo ultimo ufficio rimaneva nel permettere il sottinteso dì una incredulità borghese in coloro stessi, che si dichiaravano nemici della borghesia, mantenendo negli operai il miraggio di una vera rivoluzione. Invece diminuivano così la verità e l’apparenza dell’idea socialista: i ricchi vi restavano ricchi, i poveri poveri senza che in nessuna delle loro coscienze il primordiale e supremo bisogno di realizzare nel fatto il principio imponesse la sincerità della azione.

Tuttavia vi è una bellezza in tale nuova formazione. Qualunque possa essere la ripugnanza a certe sue forme, qualche gran cosa accade nell’anima popolare: sotto il principio borghese ne spunta un altro: nel vuoto della fede, nell’oscurità della morale, una luce già brilla. L’immensa massa operaia è in cammino: schiava ieri, libera oggi, benche cliente di altri padroni improvvisati che il suo istinto indovina e presto rinnegherà, sente in se stessa una insolita importanza e dentro questa importanza una responsabilità.

Assetata di vita la cerca intorno non sapendo ancora che le sue sorgive sono nel fondo dell’anima.

Oggi reclama il comando, ma dovrà imparare prima la libertà.

La borghesia vi spese qualche secolo, il popolo più numeroso e pesante non potrà malgrado l’accresciuta facilità di tutte le idee impiegarvi molto meno. La sua coltura sarà sempre troppo scarsa e la preponderanza del numero troppo pericolosa nelle decisioni: persuaso che nel principio democratico la maggioranza esprime la ragione, difficilmente si rassegnerà a cercarla più in alto; inappellabile come suprema giurisdizione per lungo tempo ancora non sentirà il peso della responsabilità. Ma nelle assemblee popolari specialmente la maggioranza non può quasi mai significarsi contro l’audace turbolenza delle minoranze. Poi dalla falsità del primo concetto ne derivò un’altro peggiore: che l’interesse immediato del maggior numero era l’interesse più vero.

Invece nella vita e nella storia non fu e non sarà mai così.

L’interesse più vero è quello che contiene l’ideale più alto e determina il più profondo spostamento. Quindi le necessità del presente non sempre possono prevalere a quelle del futuro, ed un problema di politica interna ad un altro di politica intercontinentale. L’aumento dei salari è certamente un bisogno della classe operaia, ma la sopravvivenza delle industrie, che dovrebbero darlo, sarà sempre una pregiudiziale d’interesse anche più profondo. La miseria spesso è una espiazione individuale, più spesso ancora una conseguenza irresponsabile in tutti di spostamenti storici nella produzione e nella distribuzione della ricchezza: se lo spostamento è effimero si può resistere sul medesimo punto salvando prima il capitale e poi il lavoro; se invece lo spostamento rimanga tale, allora la miseria assume un ufficio più alto, determina come motivo supremo l’emigrazione traendo dalla insufficienza di un luogo una potenza per un altro. L’interesse immediato cieco e sordo di una classe operaia imporrebbe invece la manutenzione dei propri salari sino alla fuga o all’annichilimento del capitale, e l’aumento indefinito della popolazione entro un’orbita senza elasticità.

Tale paradosso funziona pericolosamente in tutti i governi democratici: non si osa affermare che nella politica capitale e lavoro debbono essere due astrazioni egualmente necessarie, e che la società nella propria giustizia non deve proteggere l’uno contro l’altro, ma a seconda dei momenti preferire questo a quello: che la libertà è lo scopo e l’essenza della storia, e quindi nessuna violenza è legittima contro l’interesse generale. Imporre uno sciopero equivale idealmente ad ordinare un saccheggio, impedire il lavoro è come compiere una rapina: non si osa resistere colle armi alla violenza; le truppe debbono per lunghe giornate assistere passive a prepotenze, che sono già una guerra civile, incruenta ancora per la viltà degli assaliti e la complicità del governo con gli assalitori. È già diventato un dogma l’intangibilità degli operai: qualunque di loro soccomba in un tumulto, diventa un martire: per quanti soldati vi muoiano difendendosi, tutti saranno dei carnefici, che i ministri stessi rinnegheranno alla tribuna. Di grado in grado si è affermato il diritto allo sciopero negli organi più vitali del governo: scioperano ferrovieri, gendarmi, carcerieri, marinai, infermieri, medici. Si sa che i comuni cedono e che i governi annuiscono.

Questa abdicazione dello Stato determina uno sviamento nelle coscienze: la tirannia vinta nell’alto con lunga ed eroica guerra della libertà risale dal basso: in nome del libero pensiero si cacciano le suore dagli ospedali e i sacerdoti dalle scuole; nel nome del libero amore s’impone la precedenza del matrimonio civile sul religioso, e si consente contro il segreto della natura all’inganno femminile la ricerca della paternità: la propaganda per la pace si muta in una negazione del dovere militare, la guerra è a tutte le superiorità, mentre il nuovo patriziato operaio si munisce di nuovi privilegi proclamando la bancarotta del vecchio mondo, nel quale rinnova invece le più vecchie forme.

Industrialismo e socialismo nel presente periodo storico dovevano preparare la futura classe operaia, formandovi una aristocrazia del lavoro, e per quanto contraddittorie queste due forze si integrano mirabilmente. Ma entrambe mortificarono la libertà: gli antichi modi della schiavitù nelle corporazioni riapparvero dentro le leghe, l’antagonismo delle classi sembrò approfondirsi nel passato quando parti e partigiani non consentivano nè sentimento nè concetto di unità. L’industrialismo spostò il primato della ricchezza e annullò quasi l’operaio nell’immense fabbriche aumentandogli il benessere materiale, il socialismo soccorse al bisogno ridando una personalità alla massa operaia.

Ma il problema vero è quello di un popolo nuovo.

L’ora della rivolta ideale sta per suonare.

L’individualismo fu sempre la forma più perfetta della storia, nella quale l’individuo è lo scopo supremo; quindi in questa sua maggiore età il socialismo potrà ancora proseguire nell’opera aiutando colla violenta disciplina i lavoratori ad acquistare una embrionale coscienza collettiva, non spingersi più oltre o più alto. Il beneficio delle sue conquiste affrettate ed artifiziose appare già dubbio anche fra il popolo: è falso strappare diritti, che non si sanno esercitare; pericoloso forse ottenere un benessere materiale, cui non corrisponda un progresso spirituale. Il grande teorema della libertà è la responsabilità di tutti verso tutti e di ognuno verso sè stesso: non si può, non si deve colla scusa di un aiuto forzare l’elevazione di alcuno; lasciate l’individuo nella propria responsabilità: nessun ostacolo artificiale contro di esso, nessuna provvidenza speciale per lui. Non si nega, non si falsifica la storia; ogni generazione è costretta a mettervi il quadro della propria vita e a mettervi soltanto quello che la sua potenza d’opera consente. Non è vero che l’utopia d’oggi sia la verità di domani: l’utopia invece è negazione della storia, la poesia di coloro che non sono poeti, il sogno di tutti quelli che non sanno agire.

Bisogna difendere la libertà.

Il giacobinismo parlamentare ha nuovamente proclamato il dogma della onnipotenza legislativa, l’illusione socialista vi aderì, la viltà borghese tacque. Invece la legge constata; è regola esteriorizzata, sale dal fatto, non vi discende. Lasciate libera la vita, essa soltanto crea: non promette niente a nessuno e cede soltanto ciò che si sa strapparle. Beneficenza, carità non devono andare che agli invalidi. Le differenze superstiti sono ancora legittime nelle conseguenze del passato, e muteranno se il presente susciti libere forze contro di loro, altrimenti si riprodurranno anche se momentaneamente cancellate: il capitale è più alto del lavoro nella astrazione, perchè rappresenta tutto il passato, mentre il lavoro è soltanto il presente; la loro lotta è la più profonda fra tutte le necessità. La concorrenza esprime quella selezione, che Darwin sollevò troppo in alto nella legge della vita: tutti gli individui vi si debbono consumare, poveri o ricchi, deboli o forti, grandi e piccoli, perchè la concorrenza sola può forzarli a dare tutto quanto la natura o Dio posero in loro. Diminuite la concorrenza e diminuirete l’attività: risparmiate l’uomo e l’avrete indebolito.

La vita deve essere un’alea.

L’uomo è il fratello e l’avversario dell’uomo; deve combattere con tutte le forze delle sue passioni, non può riposare: vincitore oggi sarà vinto domani: ha un istinto infallibile, che lo guida come individuo e come popolo: non tentate d’insegnargli il proprio segreto, perchè non l’apprenderà. L’uomo sa davvero soltanto quello che impara da sè stesso: ogni corporazione diminuisce i propri membri, invece l’associazione li ingrandisce: bisogna persuadersi che la vita soltanto educa la vita, e che le scuole tutte non servono che a mantenere privilegi di diplomi o tradizioni di mestieri. Arte, scienza, filosofia, industria, agricoltura s’imparano, non s’insegnano: ovunque si crei, capitale e lavoro debbono essere liberi nella loro guerra senza tregua, senza pietà: se il capitalista viola la legge del capitale, la miseria lo punisce; se il lavoratore ricusa le leggi del lavoro, questo diventa impossibile; la giustizia è nella verità della loro contraddizione, che la vita impone egualmente a tutti.

Affermate invece la nobiltà dell’uomo: bisogna che tutti, o almeno i migliori sentano come vi sia una viltà nella forza, che una corporazione comunica ai propri membri annullando in se stessa la loro responsabilità: che pretendere un privilegio è confessare una inferiorità, che per essere democratici è necessario un orgoglio ancora più alto che nelle aristocrazie e nelle monarchie.

La rivolta ideale proclamerà l’individualismo.

Questo accetterà la tragedia senza pretendere di sopprimervi l’ingiustizia e il dolore: la felicità come non fu, non sarà; sarebbe anzi suprema ingiustizia l’esigerla. Tutte le generazioni sono uguali fra loro come gli uomini; i mutamenti, che appaiono grandi a distanza di secoli, si compirono inavvertitamente in loro, così che ogni generazione ebbe forse la stessa somma di lavoro e di dolore. Nessun problema decisivo per l’umanità sarà risolto. Mentre nella vita cresce l’agiatezza si affina la sensibilità, e il dolore quindi non scema; se la coscienza si rischiara, le grandi ombre del male si ritraggono, ma nella nuova penombra il peccato agita più visibili tutte le proprie forme, e la nostra responsabilità soffre di queste come già di quelle.

L’uomo vive di lavoro e nel dolore: tutte le opere, dispari nel risultato, sono uguali nel merito, tutti gli uomini pari nella libertà della propria impresa, e per tutti la libertà non può essere che nella coscienza di una necessità superiore. Gli interessi individuali saranno sempre subordinati a quelli di gruppo: il progresso spirituale si affermerà accettando tale necessità invece di subirla. Giova sperare che le scienze possano mutare i modi dell’industrialismo, rendendo la personalità all’operaio nel lavoro; fino a quel giorno l’irregimentazione dovrà durare, e la coscienza della libertà soffrire in tale contraddizione.

Ma così, solamente così, l’individualità ancora vaga negli individui comporrà loro una fisionomia.

Non falsare la lotta umana con inutili espedienti di legge, lasciare libero l’individuo per imporgli tutte le responsabilità: non pretendere di sostituire la religione colla scienza, la concorrenza colla cooperazione, la famiglia col libero amore, la patria col cosmopolitismo, la gloria colla celebrità: volere nell’uomo tutto l’uomo, colle angoscie della sua fede, coll’eroismo della sua carità, col calcolo della sua ragione, col suo istinto e col suo genio, che fanno di tutte le generazioni un uomo solo: proclamare che la verità è soltanto nell’ideale ma dentro un mistero, nel quale il dolore mette una voce e il pensiero un lampo: amare nella speranza del bene, quando la gioventù sorride: amare nella pietà del male, quando la vecchiezza non sa nemmeno più piangere: salire a tutte le bellezze, credere, a tutte le virtù, consentire tutti i sacrifici offrendosi intero alla vita e accettando la morte come un premio: ecco la rivolta ideale.

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