CAP. IV. Gli spostati.

La chimica non ha un acido dissolvente come il proletariato intellettuale nel nostro periodo storico.

Poichè l’elettorato pareggiava tutte le classi, e queste resistevano dentro la cerchia del costume aiutate da privilegi e pregiudizi storici, era necessaria una azione disgregatrice, che scomponendo e dissolvendo le vecchie forme preparasse l’avvento della nuova aristocrazia spirituale. Il proletariato intellettuale se ne incaricò.

Il propagarsi delle scuole e il diffondersi della cultura armò la sua prima milizia, che venne grado a grado aumentando nello strato superiore della classe operaia e negli ultimi della borghesia e del patriziato. Un’incredulità ed un orgoglio egualmente egoisti ne furono le due qualità caratteristiche: in ogni famiglia di operai, povera o agiata, una smania invase tutti: uscire per opera di un figlio dalla propria classe avvicinandosi alla ricchezza e al potere. Nessun rispetto delle classi superiori durava ancora, la religione non aveva più efficacia consigliando la rassegnazione alle differenze mondane o additando in alto gli eterni ideali dello spirito: si dispettava il lavoro manuale, una invidia avvelenava le piccole, ingenue gioie della vita spronando alla fatica del lavoro o alle insidie di una corruzione, che abbreviasse la lunghezza del cammino attraverso qualunque scorciatoia.

La bella e rude sincerità del carattere popolano era quasi scomparsa: una vergogna delle proprie origini degradava già i più forti, che volevano ascendere, e rinnegati dalla propria classe li preparava a rinnegare la propria famiglia: così, ovunque potessero arrivare, porterebbero il medesimo astio contro superiori ed inferiori, una scontentezza di sè stessi e di tutti propagando le idee democratiche per odio dei signori e mendicandone la famigliarità, vantandosi di essere borghesi e della borghesia non assimilando che le abitudini ricche e le attitudini industriali, disseminando lungo la strada, a tutte le stazioni della vita, le negazioni di ogni idealità e le vanterie di una pratica, che in tutti i problemi non voleva vedere se non i vantaggi più immediati e non riconoscere altra superiorità fuori della ricchezza e del potere. Questo proletariato aveva però una incontrastabile potenza di penetrazione, attinta alle scaturigini del popolo stesso, nel fondo della sua riserva inesausta. La poca sensibilità, la sicurezza dell’istinto, la volgarità delle predilezioni, e soprattutto quell’indefinibile miscuglio di vigliaccheria e di prepotenza, che compone sempre l’anima demagogica, metteva nella sua opera una meravigliosa facilità: in basso aspirava come una pompa, in alto filtrava come un veleno: l’uguaglianza serviva di egida, l’industrialismo forniva i mezzi, l’elettorato dava ogni tanto una vittoria.

Tale aristocrazia intellettuale nel popolo non era però che negativa: respingeva simultaneamente le virtù delle classi inferiori e superiori, sembrava rompere con tutte le tradizioni gittandosi all’avvenire, mentre invece si precipitava solo sul presente. Il popolo guidato da questi nuovi venturieri non poteva non seguirli: talvolta li ammirava sinceramente come propri campioni, più spesso il suo istinto diffidava della loro coscienza, e la sua forte ingenuità si ribellava alla loro falsa scaltrezza, ma anche allora non cessava da una certa stima per i loro successi e per la disinvolta tranquillità della loro corruzione. Questi campioni diventati maestri, professionisti, nello spasimo di tutte le fami e di tutte le insidie ascendendo non arrivavano però che ad una miseria più umiliante di prima, perchè costretta alla simulazione della ricchezza nella precarietà dei guadagni, dentro i limiti di stipendii, che preparavano ai figli una povertà più insopportabile della antica.

Nella coscienza di questo proletariato intellettuale l’ombra era piena di fantasmi e le parole di sottintesi: i suoi atti, le sue frasi, le sue reticenze, i motivi nella moda del costume morale o politico avevano sempre la stessa tonalità aggressiva e servile: le sue superbie non erano che vanità, il suo odio che invidia, la sua morale che una legalità. Ma la sua intelligenza rimaneva aperta a tutti i suoni e a tutti i venti nei giornali e nei libri, nelle industrie e nel commercio, nella politica sopratutto imparava quanto la modernità elegge o ricusa; era focolare e veicolo; penetrando dappertutto improvvisava contatti e aderenze; siccome preferiva gli interessi alle idee e fingeva nel proprio l’interesse della massa acquistava una forza dalle sue forze. Non era il suo cuore, ma pareva già la sua intelligenza; non meritava ancora una vittoria, e aveva già ottenuta quella di essere accettato come una necessità di tutti gli accordi, temuto come un nemico in ogni lotta.

Al di sopra di questa ascensione plebea saliva il proletariato borghese più denso di numero, più abile e più forte. La rivoluzione del risorgimento era stata borghese nei principii e nei modi, nell’ideale e nei risultati; la borghesia dunque doveva raccoglierne il premio, che diventò enorme. Per consolidarsi il governo fece una politica di clientela all’interno e all’estero: ogni impiegato diventava come un azionista o un complice; ogni affare concesso, ogni diritto riconosciuto, un interesse che avvinceva qualcuno nel nuovo ordine.

Quindi una ebbrezza di comando, di danaro, di idee, di bisogni sorprese la borghesia; in alto, nei suoi strati migliori sì mantenne girondina, applicò la rivoluzione coi metodi della vecchia rettorica credendo sempre di salvarla dalle mene della chiesa, che non si muoveva più; al disotto, nella sfera degli affari, si gettò sul governo come sopra una preda e sul paese come sopra un campo vergine. L’opera fu vertiginosa, miracolosa all’interno e all’estero: una terza Italia prospera, giovane, capace di fronteggiare i più forti balzò nella storia; ancora una volta il vecchio genio italiano, la mistura incalcolabile, inesauribile della nostra razza, ricominciava un’epoca originale. Ma la borghesia scarsa di virtù veramente civili e militari nel periodo del risorgimento, in quell’altro d’industrialismo liberale vi adoperò soltanto, nè avrebbe potuto essere altrimenti, le più duttili qualità dell’ingegno e quella potenza di mediocrità adattabile, colla quale aveva trionfalmente resistito nei tempi peggiori.

Dal suo fondo invece, come in una esplosione, si avventarono all’alto i caratteri e le forze più vive; la piccola borghesia scavalcò presto la grande e la sostituì anche dove pareva non volerla abbattere. All’indomani della vittoria nazionale la piccola borghesia era già più liberale della grande confusa col patriziato nell’opera: poco dopo accapparrava tutti gli impieghi, riempiva le università, invadeva le professioni: ma sdegnava i mestieri. Democratica per istinto, qualche volta demagogica per necessità, soprattutto smaniosa di far presto, non sentiva vincoli, non riconosceva limiti: l’incredulità filosofica delle scienze la dispensava da una morale, l’industrialismo co’ suoi bisogni di pratica immediata, di grande organizzazione, d’impersonalità nel successo le formava un costume, e la politica una maschera. Il nuovo aspetto sociale si determinò da questo avvento della piccola borghesia; anch’essa era un proletariato intellettuale, ma più intelligente, più acre ed inappagabile dell’altro: odiava meno i signori, perchè più vicino ad entrare nella loro classe, ma adorava anche più vilmente il danaro: aveva meno istinto e più esperienza: si dette presto una apparenza quasi bella, non potè come il proletariato intellettuale della plebe mantenere un certo carattere politico, perchè le disparità dell’epoca l’obbligavano alla contraddizione di tutti i principî in tutti gli interessi.

Il campo per lui più vasto e fecondo fu nelle professioni: quasi istantaneamente il loro carattere mutò: prima erano come una aristocrazia, con modi e virtù tradizionali: dopo non furono più che mestieri, nei quali il lucro giustificava i mezzi e dava la misura più esatta del valore nel professionista. Dal dogma della irresponsabilità nella professione entro i limiti legali si arrivò al delitto larvato e professionale: la concorrenza urgeva, le scuole vomitavano come bocche di forno a migliaia i laureati, figli di minimi possidenti, di grossi o piccoli impiegati, quasi tutti allevati nello spasimo di un lusso non ancora raggiunto o troppo facilmente effimero. Nessuno di loro voleva ridiscendere nella inferiorità del popolo, nessuno sarebbe stato capace di rinunciare alla compiacenza di vivere nel nuovo ambiente, le donne meno degli uomini, i genitori meno ancora dei figli. Bisognava espandersi, salire, conquistare. La cultura li aveva armati, lo scetticismo morale li manteneva in equilibrio su tutte le difficoltà: si sentivano come naufraghi in vista della spiaggia, e il naufragio per tutti incominciava all’indomani della maggiore età. Perdere un giorno era forse perdere tutto.

Mai guerra fu più muta, fredda, senza tregua, senza pietà.

I vincitori si piantavano sugli spalti conquistati e vi si fortificavano, i vinti, e lo erano quasi tutti nella quantità dei bisogni moltiplicata in loro da ogni vittoria, erravano intorno a tutte le trincee, penetrando di frodo, se la forza era insufficiente, con un’opera assidua, minacciando tutte le posizioni dei vincitori; capaci di uno sforzo eroico per un motivo miserabile, incapaci di una solidarietà nella difesa come nell’attacco. Quindi la loro presenza essendo ovunque, la loro efficacia prevaleva. Ma la borghesia dei vincitori era la genitrice di questi vinti, e non poteva non essere la loro complice: il proletariato plebeo vi scorgeva un rivale costretto a diventare un alleato da una uguale necessità di conquista: la febbre della vita moderna, la sua estrema mobilità, la fluttuazione quasi tempestosa di tutti gli interessi aiutavano questa guerra, che ricominciava nella antica, fra tanti singoli duelli, e nella quale ad ogni avversario morto ne succedeva istantaneamente un altro.

Intanto la retorica del bene pubblico allargava la propria sinfonia: non si parlava che di popolo, di umili, di poveri, senza che nessuno volesse più vivere fra questi; mentre coloro, che si cacciavano nei rischi della delinquenza pur di salire, erano ammirati nella vittoria, aiutati con ogni forma legale o illegale nella sconfitta.

Infatti non erano che i più temerari nella banda.

La legalità sola restava, perchè di una verità è sempre più facile negare la sostanza che distruggere l’apparenza, ma la sua preterizione si allargava ogni giorno più nella sofistica.

Ma forse nella storia non vi fu mai più rapida e meravigliosa diffusione di cultura e di ricchezza.

L’industrialismo aveva distrutto col danaro le superiorità storiche, l’elettorato pareggiava quelle dello spirito, bisognava essere ricchi per mantenersi ricchi, comandare per essere riconosciuti superiori. Quindi il proletariato intellettuale finì di disgregare gli ultimi baluardi fra classe e classe: i figli dei domestici frequentavano le stesse scuole dei figli dei padroni, in tutti gli istituti i rappresentanti arrivavano pari da tutte le distanze; la eleganza della vita moderna non comportava più differenze visibili nel costume, l’educazione non segnava più la propria linea fra gentiluomo e plebeo. Nell’arte, nel commercio, nella industria dominava la folla: non si domandava più ad un uomo donde venisse, nè chi fosse, ma che cosa faceva: la solidarietà di classe era spezzata, fra i membri della stessa famiglia la gara dell’interesse allentava i vincoli dell’affetto. I sacrifizi dei genitori per l’educazione dei figli, anzichè esprimere l’amore, significavano una speculazione per la vecchiezza degli uni sulla gioventù degli altri, che l’ingratitudine rendeva quasi sempre falsa: non vi fu quasi più giovinezza, a scuola si pensava già all’impiego: la celebrità nei giornali si sostituì alla gloria nel popolo, la vanità del successo all’orgoglio del capolavoro.

Mentre il socialismo organizzava già le prime milizie, l’individualismo trionfava nella disgregazione sociale, senza che l’individuo si alzasse nella coscienza di una nuova superiorità; ma la storia non potrà mai disegnare con abbastanza vivezza il quadro di questo proletariato, che i suoi pochi artisti, pur rompendo la coccia classica della letteratura nazionale, non seppero vedere: nella preparazione del risorgimento l’Italia aveva trovato Manzoni, e se ne vantò troppo: nella grande vittoria finale le mancò Balzac.

Questi soltanto avrebbe potuto essere il poeta di tale momento.

L’aristocrazia italiana aveva caratteri più veri di quella francese, giacchè le nostre provincie erano profondamente diverse per natura e per storia, ma anche per l’aristocrazia la prima unità fu un proletariato intellettuale, che rivelò tutto il segreto della sua decadenza. Nel proletariato plebeo e borghese il moto era di ascensione, le forze più brute che corrotte, e la possibilità della vittoria si organizzava ancora nel tempo democratico. Il proletariato aristocratico invece fu il più imbelle e il più vile, perchè l’aristocrazia era stata la più colpevole contro la patria nella rivoluzione del risorgimento: i suoi eroi non vi avevano rappresentato che sè stessi, la classe era rimasta lungi, al disotto, nell’ombra dell’ozio, negli intrighi delle corti. Quindi il pareggiamento patrimoniale imposto dalla nuova legge la perdette; del comando non aveva più nè la forza nè l’autorità; al lavoro mancava di attitudini, la rivalità di lusso colle immediate ricchezze industriali precipitò la sua rovina. Costretta a cedere accattò gli impieghi e vendette i blasoni ingegnandosi a mantenere la propria importanza con un decoro, che non aveva più nobiltà: molti dall’affettazione della eleganza passarono a quella dello scandalo vivendovi di risorse senza nome, o penetrarono nella politica di governo e di piazza come un morbo. E una efficacia veniva loro dal vecchio prestigio del nome, da una corruttela più sottile, da un cinismo più altero: mescolati fra borghesi e plebei mettevano spesso un accento nella loro voce, una giustificazione nelle loro pretese.

Ma un rimescolio profondo rinnovava intanto tutta la società.

Non rimanevano più nè gentiluomini, nè borghesi, nè plebei: la differenza più vistosa era nel patrimonio, il valore più certo quello che ognuno poteva darsi. La rivoluzione, l’industrialismo, la democrazia non avrebbero potuto affrettare questo movimento senza l’opera dissolvitrice del proletariato intellettuale. Il suo acido corrose i cuori e i blasoni, i sentimenti e le idee, i costumi e gli ideali: se la sua opera fu quasi tutta negativa, preparò come sempre la rivelazione di un nuovo carattere e l’avvento di un’altra società. Attraverso ogni differenza questi spostati del proletariato intellettuale potevano fra loro riconoscersi ad uno stigma, la modernità dell’egoismo e l’incapacità di comporsi armonicamente in qualunque ordine. Ma essi portavano la nostalgia di idee e di sentimenti nuovi: non rispettavano quasi nulla e così abituavano a comprendere tutto, non credevano che in sè stessi e insinuavano un dubbio struggitore in tutte le vecchie fedi: attraversando tutti gli strati vi lasciavano un’orma ed un germe: volevano tutti vivere intensamente, divorando quasi l’avvenire nel presente, e così intercettavano le influenze del passato. Nulla resistè alla loro azione disgregatrice e livellatrice: la famiglia e il municipio, la chiesa e lo stato, la scuola e la vita dovettero subirne la influenza: la loro banda si accampò nella stampa circuendo, saccheggiando, ubbriacando il pubblico: la politica si dilatò come una arena senza steccato e senza giudici, aperta a tutti gli scontri delle idee e degli affari, ma quelle dovevano diventare questi per trionfarvi; parlamento, senato, corte soffersero la stessa scalata: gli statisti colla solita arrendevolezza piegarono arte e coscienza al pubblico e alla stampa, gli scienziati si abbassarono nelle professioni, i sacerdoti contemporaneamente attaccati anche dalla grande critica filosofica non seppero nè resistere nell’ideale, nè vincere nel costume. La delinquenza discendeva dalla violenza nella frode dissimulandosi nella legalità, e le statistiche vantavano questo come un progresso morale; il cosmopolitismo degli affari annullava la virtù di patria, la necessità di vivere bene toglieva il bisogno di vivere in alto: la vittoria di essere uomo in questa nuova guerra di grandi idee, di piccole cose, di mezze coscienze, di successi effimeri, di grandezze apparenti, di uguaglianza democratica e d’individualismo egoistico, dispensava dall’essere gentiluomo, e diminuiva al limite della legge il dovere del galantuomo.

Ma dentro questo proletariato intellettuale cresceva una minoranza più attiva, grave nei propositi, più vigile ancora nell’avvedutezza. Mescolata alle turbe saliva con esse, ma si fermava allogandosi a tempo, e in ogni stazione esercitando la stessa influenza novatrice; e invece di distruggere disegnava qualche nuova forma. Erano questi gli uomini veramente moderni, che con una genialità primaverile arrivati in alto iniziavano le più difficili imprese, disimpegnando le più nobili funzioni; rivoluzionari nel pensiero non rinnegavano nè il passato nè il presente: componevano già una piccola aristocrazia, che simpatizzava colle antiche, senza arrestarsi nell’opera o deviare dal cammino. Qualche volta dovevano dissimulare la loro superiorità morale per necessità d’intonazione, spesso lasciandola intravvedere si attiravano i soliti sarcasmi dei furbi contro gli ingenui, più spesso ancora erano sorpassati nella carriera, ma lentamente una stima cresceva intorno a loro dall’opera dei più forti, che con eguale processo compivano grandi opere.

Il proletariato intellettuale non poteva essere soltanto negativo nemmeno nel momento della sua massima azione, giacchè tutte le forme storiche anche le più critiche rivelano già una affermazione. Puramente negativo sarebbe stato meno efficace: una minoranza doveva quindi giustificare la vera modernità per vincere così le ultime resistenze.

Adesso il carattere dell’uomo moderno è abbastanza rilevato perchè tutti lo sentono: la nausea della volgarità sale a tutti i cuori, il dissolversi delle ultime aristocrazie storiche solleva ovunque rimpianti. Ma se le tombe della terra restituirono qualche volta i propri cadaveri al miracolo della resurrezione, i morti dell’ideale non riapparvero più.

— Non è qui, è risorto! — disse l’angelo a Maddalena.

Non bisogna domandare al passato la risurrezione della aristocrazia.

Così Renan s’ingannò forse nel più sincero dei propri libri riadditando alla Francia coperta dalle rovine del secondo impero, insanguinata dalle stragi della Comune, la salvezza in un ritorno al passato, nella devota aspettazione di un miracolo, che risuscitasse il valore dell’antica nobiltà: ogni virtù invece è fiore del proprio giorno, ogni bellezza la gioia di una sola stagione.

Il proletariato intellettuale degli spostati non è che una vanguardia: l’aristocrazia spirituale verrà.

E allora pochi nella farfalla riconosceranno il bruco.

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