CAP. III. Il Danaro.

Camegie, un miliardario americano, ha proposto in un libro il problema del danaro, nel come spendere il superfluo, quando questa sua quantità superi troppo la potenza egoisticamente dispensatrice delle passioni e dei vizii; il libro è riuscito quale doveva, sciocco e volgare: invece il problema del danaro è uno dei più profondi ed originali della modernità.

La forma del danaro ha potuto mutare nei secoli, ma la sua essenza non cangiò mai: esso non è un simbolo come spesso fu detto, ma un fatto, che ne esprime altri infiniti, avendo una fisonomia e virtù propria, leggi dinamiche e statiche: ha stagioni come i frutti, correnti come il mare, linee come il calore: si aduna e si disperde, impassibile ed impersonale, libero nelle vicende della vita e della storia. Colui che potesse interrogare un soldo forzandolo a rispondere, imparerebbe nel racconto del suo vagabondaggio in tutte le tasche e in tutte le mani il segreto di molte generazioni, perchè il danaro entra in tutte le azioni della vita, e dinanzi al danaro l’anima non sa mantenere la maschera. Tutta la ricchezza si unifica nel danaro: esso alimenta egualmente i modi della produzione e della trasmissione: è l’idea più astratta e la forma più assoluta del capitale, che lo sforzo del lavoro ha potuto creare al disopra di sè stesso e contro sè stesso nella impersonalità di un deposito, che le generazioni trasmettono alle generazioni, adoperato dai viventi con la falsa apparenza dell’arbitrio, mentre il capitale non ubbidisce che alle proprie leggi e aderisce al capitalista soltanto, se questo sottometta la propria opera alle sue necessità.

E poichè la ricchezza appare come la migliore garanzia della vita, il danaro diventa il sogno di tutti nel lavoro e nell’ozio, nella giovinezza che si affaccia alla vita e nella vecchiezza, che sentendo di perderla, si aggrappa disperatamente al danaro, nel quale passano per realizzarsi tutte le sue forme. Quando la ricchezza era immobiliare soltanto, il suo poco danaro aveva un valore esatto come sempre nella propria funzione di scambio, ma quasi incomparabile nella sua potenzialità di trasmutazione: per lui l’uomo si emancipava dalla servitù di ogni opera e poteva invece dominarle tutte, mutare luogo e patria, trovare ovunque servi ed alleati, sentendo in sè medesimo la più alta e difficile sovranità, quella che si libra sopra i materiali bisogni e può tenere la testa alta, quando tutti l’abbassano. Mentre le leggi proporzionavano fra loro le genti, se avveniva spesso che la religione le fondesse, il danaro nella propria astrazione rappresentava già la loro prima unità, perchè la legge del danaro era unica e nessuno avrebbe potuto falsarla: infatti quanti vi si provarono subdolamente o tirannicamente fallirono all’impresa. Si può ferire, aiutare forse la ricchezza nei suoi modi di produzione o nelle forme di scambio, non arrestare o imprigionare il danaro: esso ha un istinto che l’avverte di ogni pericolo, quindi si ritrae e si cela aspettando: sequestrato mantiene fra le mani violentatrici la propria natura, sfugge nuovamente aiutato dalla frode o dalla violenza stessa tentata sopra di lui per riapparire più forte e più sovrano di prima, indifferente alle catastrofi che marcano le epoche, impassibile a tutte le lusinghe.

Il danaro ritorna al danaro.

Siccome la sua forza cresce dalla accumulazione e la sua funzione è universale, si aduna dove e in chi meglio può facilitargli l’alimentazione della ricchezza; ma ignora egualmente capitalista e lavoratore. Senza prediligere alcuna opera passa attraverso quelle dalle quali sa di uscire sicuro e maggiore di prima; nel caso contrario regola sul proprio pericolo la propria decima sino ad arrischiare una guerra disperata anche nella sola speranza di una battaglia felice. Indarno filosofie e religioni gli negarono la capacità di fruttificazione affermando la sua sterilità nel capitalista, che non lavora, giacchè il capitale ha una potenza spontanea, alla quale può associarsi quella del lavoro, ma che la supera, come ogni formola è sempre più potente nell’idea che nel fatto: la superiorità del danaro sul lavoro sta appunto nel suo perfetto adattamento ad ogni condizione, nell’impersonalità dei suoi rapporti che lo fanno somigliare ad una idea, nella sua preesistenza al lavoro che senza di lui nelle società avanzate non può nemmeno cominciare; e ciò dal giorno, che nel primo risparmio si accumulò il primo capitale. Senza l’astrazione del danaro il capitale non potrebbe spersonalizzarsi uscendo fuori di sè stesso per agire su tutti i luoghi, in tutti i tempi. La forma della moneta più esprime l’astrazione e più è perfetta. Finchè rimase nei metalli subì la condizione di ogni altra merce, per quanti sforzi la legge facesse a garantirle l’immutabilità, mentre le proporzioni fra i corsi dei metalli mutavano così che la moneta, invece di essere l’unità del capitale ne era appena un campione privilegiato. Soltanto nel simbolo di una parola scritta potè finalmente attingere la perfezione di sè stessa, dello scambio e della sicurezza: e allora i metalli preziosi si nascosero nei sotterranei delle banche, invisibili ed immobili, a garantire il volo della parola, che rinnovava i miracoli del verbo.

Adesso il danaro non è ormai più che una firma.

La sua potenza è quindi pari alla sua astrazione: nella gamma dei capitali i migliori sono quelli che possono volatizzarsi, tutto tende così a diventare moneta: il genio economico inventa ogni giorno altri modi per spersonalizzare il capitale, il circolo della ricchezza invertendo un teorema della meccanica e dilatandosi diventa più veloce: un moto affatica le vecchie legislazioni per liberare i passaggi della ricchezza, la mobilità e la facilità della vita moderna non concepiscono più il capitale che in una rotazione sempre più rapida, la quale obbliga il capitalista ad uno sforzo sempre maggiore condannandolo a più frequenti errori e a più tremende espiazioni.

Nella vita sociale non vi è altro oggetto che possa somigliare al danaro, il quale valutandoli tutti li dissolve: nella vita individuale l’indipendenza deriva dal danaro, senza del quale nessuna azione è possibile: ricchi e poveri bisogna possederne per non decadere nella servitù: chi non sa provvedere ai propri imprescindibili bisogni è schiavo: ma la differenza fra uomo e uomo sta tutta nella quantità e nella qualità di questi bisogni.

La ricchezza è libertà negativa nell’ozio e positiva nella facoltà dell’opera, che senza il danaro rimarrebbe impossibile: non altro. Vizi e passioni della ricchezza non acquistano nè forza, nè libertà: la differenza di decorazione non assicura nemmeno loro un vantaggio di sicurtà e di bellezza: il danaro non può nella sfera dello spirito che comprare forme false, sapendone la falsità.

E dove la ricchezza per facilità di mercato si accumula troppo superando la facoltà spendereccia dell’individuo, improvvisa in lui per una logica inversione la forma forse più dolorosa della miseria: così il miliardario possedendo nel proprio danaro la possibilità di comprare tutto quanto è vendibile, espia questa inutile superiorità nella condanna di dovere desiderare soltanto ciò che il danaro non può dare. Un povero invece è più vicino alla gioia: i suoi desideri sono dentro al danaro, che domani o posdomani un caso della vita potrà gittargli come un dono: l’altro, l’onnipotente della ricchezza, vivrà in una solitudine fredda, senza nemmeno quella luce ideale, che consola i grandi solitari del pensiero.

Ma il fenomeno dell’immane ricchezza moderna non è originale, come si pensa.

Originale è la sua formazione, che una volta derivava sempre da una rapina militare o politica. Adesso la mondialità del mercato permette una celerità di accumulazione quasi fantastica: i mezzi di comunicazione e di azione non somigliano più agli antichi: è possibile indovinare a distanze di oceani le condizioni di un mercato, dominarlo con un ordine, disordinarlo con un espediente: si possono irregimentare a diecine di migliaia gli operai, fondare sull’oscillazione delle merci un impero commerciale.

Infatti le immense ricchezze sono dovute piuttosto al commercio che alla industria, ma la quantità del danaro non prova sempre quella dell’ingegno: forse cento milioni guadagnati sul mercato italiano rappresentano maggiore potenza intellettuale che un miliardo americano. Però questa nuova inverosimile ricchezza esprime anch’essa un progresso morale. La violenza non vi è più possibile e poco la frode, giacchè sopra un mercato troppo vasto, con una clientela sconosciuta, l’inferiorità o peggio ancora la falsità della merce non danno la vittoria. Questa potrà per privilegio di natura o di legge imporsi per qualche tempo, ma l’incalcolabile forza della libertà nella concorrenza ristabilisce presto l’equilibrio della verità.

Il miliardario è un tipo attuale: pare un re e invece non è che l’antico pubblicano: non può essere un produttore, perchè la produzione preoccupa tutto l’uomo e non va oltre l’orbita della sua azione personale: deve essere un mercante, capace di pensare tutto o quasi il mercato e d’imporvi una decima nei trapassi della merce. Così, solamente così, dall’immensità del teatro, con una minima pressione sopra un numero straordinario di punti è possibile la conquista di un miliardo nel breve giro di una virilità. Tale fatto, poichè esiste, è dunque legittimo: qualunque sia la sua forma individuale, il risultato ne profitta alla massa come tutte le sintesi: la sua sovranità è un vanto della democrazia, che sorridendo vede gli ultimi imperatori trattare da pari a pari coi primi miliardari: ma questo impero del danaro non ha una idea, e invece di una passione non contiene quasi mai che un vizio. Bisogna a questa sovranità come a tutte le altre una potenza di astrazione e di impero sopra sè stessi: dimenticare gli uomini e le cose per non vedere che alcune serie delle loro combinazioni, volere la ricchezza per la ricchezza nella vacuità del possesso, giacchè adoperandola si discende nell’azione e questa non consente più la rapidità vertiginosa della accumulazione. L’avaro è dunque il tipo scheletrico del miliardario: una avarizia che è un orgoglio, una dominazione infima che degrada i propri sudditi senza innalzare il sovrano: una potenzialità inerte quasi, che si logora nel proprio esercizio e muore finalmente nell’assidua, inutile conquista dei mezzi.

L’uomo pensa o opera: in ambo i casi crea; il miliardario invece è condannato a sentirsi minore dei propri risultati, a non poter desiderare più che fuori del danaro, a non saperlo dominare dentro una idea superiore.

Il libro di Carnegie non ha altra origine: questo fabbro è finito nella nausea della ricchezza: ne gittò i brandelli nella beneficenza delle miserie e degli studi confessando così di non bastare ad un’opera pari al danaro: chiese all’ammirazione dei poveri e dei deboli i compiacimenti di una superbia, nella quale non poteva arrestarsi, e proclamò paradossalmente che morire senza avere speso la propria ricchezza era la prova più umiliante della incapacità.

Invece questa prova è nel non essere pari ai propri miliardi maneggiandoli come Napoleone I la spada e Gambetta la parola, creando in qualche luogo un qualche piccolo, breve lineamento di storia.

La magnificenza moderna del danaro è nel grado della sua astrazione. Esso, l’eterno mobile, non si muove quasi più: esso, l’incredulo, non vive oramai che di fede. Il credito, questa suprema virtù del commercio, che ne centuplica le forze, è penetrata anche nel danaro ridotto ad una carta, ad una firma: la sua potenza negativa ha eguagliato tutte le funzioni sociali degradando o depravando anche le più alte: oggi si pagano persino i deputati, e nessuno ne sente più l’onta. Ma la sua potenza positiva compose l’unità del mondo; il danaro sintetizzando il commercio, spersonalizzando il capitale ha unificato i più opposti interessi coll’imposizione del medesimo ritmo: adesso vi sono ancora nazioni, non mercati in ritardo. Il danaro è il veicolo dell’idea, dove passa lascia un solco: la civiltà non possiede arme più terribile, acido più dissolvente, istrumento più creatore.

L’espansione e le forme attuali del credito sono fra le glorie più belle della modernità.

All’antico credito, che campava di ipoteche, è succeduto il nostro, che vive d’ipotesi ed agisce come un calcolo spirituale: nel commercio si valuta l’uomo ancora più della sua ricchezza, nella valutazione di una casa commerciale il coefficiente morale supera quasi sempre quello economico. Tutto il commercio rotola sul credito, giacchè i depositi delle banche sarebbero insufficienti a garantire le sue operazioni: l’astrazione ha spiritualizzato anche le forme più infime e pesanti.

Così, forse per la legge fatale del binomio, in questa civiltà industriale mai l’anima fu più vile davanti al danaro.

Ma tutti coloro, che non vogliono forzando sè medesimi alzare il centro della propria vita nel sentimento o nel pensiero, debbono soggiacere all’idolatria del danaro, taumaturgo di tutti i creduli, sultano di tutti gli schiavi. I vizi lo adoreranno sempre, le passioni urleranno verso di lui maledicendolo ed invocandolo, finchè il loro fuoco stesso non le purifichi: le donne lo sognano come i bimbi sognano i giocattoli, gli uomini lo gettano alle donne pagando così ciò che in loro è senza prezzo, l’amore o la sua illusione.

Se il mondo non fosse così ricco non potrebbe diffondere e ricreare così rapidamente la propria civiltà: se i miliardari nella loro inferiorità davanti al danaro non esprimessero mirabilmente la sua natura inferiore, quella della massa nella sua viltà atavica sarebbe già caduta alla più ignobile delle dedizioni.

Invece quasi tutti delirano per il danaro, e nessuno vuole più inchinarsi a chi lo possiede.

L’ideale raggia dunque, illumina e solleva.

Il povero è quegli, che non ha niente nel cuore: fra tutti i deboli colui è ancora schiavo, che incapace di pensare deve eseguire solo materialmente un pensiero altrui: a tutti costoro il salario aumenterà indarno.

E i ricchi, che erediteranno il danaro senza la facoltà di adoperarlo? Non abbiate fretta, perchè il danaro ne avrà più di voi, abbandonandoli: il danaro non si è già spiritualizzato?

Perchè certi poveri di spirito non sarebbero davvero poveri?

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