CAP. VII.L’Aristocrazia nuova.

L’aristocrazia sta nel carattere, giacchè la sua è unità di azione.

Sempre e dovunque l’aristocrazia fu così: una idea l’aveva costituita, ma la sua opera derivò da un carattere che metteva un segno inconfondibile di superiorità: che l’idea fosse quindi religiosa o politica, militare o professionale, l’aristocrazia si riconosceva egualmente a certe differenze di giudizio sopra sentimenti o azioni comuni: proibiva o imponeva ai propri individui atti, che il volgo non poteva interamente comprendere.

Le due più alte forme di aristocrazia nell’antichità furono la religiosa e la guerriera: quella conservava il deposito ideale della nazione, questa lo difendeva all’interno ed all’estero, entrambe vivevano nel privilegio al disopra delle necessità economiche, le quali gravano e spesso deturpano la vita. Se il loro beneficio fu grande, il sacrificio per mantenerlo costò al popolo un prezzo, che la storia non potè mai precisare; spesso ancora fra sacerdoti e guerrieri la contesa s’infiammò per la segreta suggestione di una idea civile: i re oscillarono fra l’una e l’altra aristocrazia, servi quasi sempre dentro l’apparenza del più assoluto comando, piccoli nella vastità della loro opera nominale, piuttosto simboli che persone, nei quali il popolo vedeva sè stesso. Solamente più tardi in una civiltà maturata dalla filosofia e dalla scienza, dall’arte e dalla industria, apparvero le vere aristocrazie politiche, composte da gruppi di famiglie nobili nella tradizione e nobilitate dalla responsabilità di un impero, che sollevava i loro individui al disopra di sè medesimi, e nella rivalità perfezionava le forme più originali del carattere civile. Atene e Venezia, Roma e Londra ebbero lungamente nei Senati le più magnifiche assemblee umane, e videro sorgervi i modelli immortali della eloquenza e del pensiero politico.

Ma in tutte le aristocrazie, e le corporazioni stesse anche più infime ne componevano una, l’essenza era nel carattere e la virtù nel sacrificio; senza questa doppia necessità l’individuo non avrebbe potuto superare sè stesso. Isolato nella massa ed irresponsabile come in un turbine, il suo pensiero e la sua azione non avrebbero saputo mettervi la propria significazione: il genio solo, incontenibile nelle forme ordinarie, vi avrebbe agito colla strapotenza della sua forza rappresentativa, ma il genio non appare che a grandi intervalli, e la sua opera d’inizio o di conclusione non è che sintetica. L’aristocrazia quindi lo riassumeva, diminuendolo in un modo costante della vita sino a farne l’elemento essenziale di un’epoca.

Ogni aristocrazia esprimeva dunque un progresso e una superiorità spirituale, condensando nella propria opera tutta la quantità di pensiero maturata nella coscienza impersonale del popolo; ma progresso e superiorità, essendo parziali, dovevano colla propria virtù significare anche il proprio difetto; e mentre sopra un lato dell’anima umana imprimevano il nobile segno dell’eroismo, sull’altro lasciavano allargarsi le vecchie stimmate dell’inferiorità. L’evidenza di questa contraddizione sale dalla superbia, che costringe l’eroe ai più difficili sagrifici e sembra indennizzarlo col disprezzo, che gli consente per tutti gli altri uomini delle classi subalterne. Il difetto delle antiche aristocrazie era appunto nel sentimento della disuguaglianza fra uomo e uomo, classe e classe: l’unità religiosa, anche quando non consacrava differenze di caste, non bastava a mantenere nella coscienza del popolo il principio della parità: una indefinibile differenza separava i grandi dai piccoli, la virtù degli uni non era accessibile agli altri, il beneficio imponeva l’umiliazione, nessuna grandezza individuale sorgendo dal basso e superando i confini di classe poteva porre un inferiore in una categoria superiore.

L’eroismo epico non ci appare adesso che come l’esagerazione superba del carattere militare: la vera, profonda bontà umana raramente trasparisce dalla sua azione, che per essere bella ha bisogno di svolgersi nella decorazione di classe, e fuori di questa, nella nudità spirituale, diverrebbe impossibile o perderebbe quasi tutta la bellezza. L’idea religiosa, il principio politico non sono sufficienti a giustificare dinanzi alla nostra coscienza l’antico eroismo, mentre tante altre azioni intorno ad esso ci sembrano migliori. E ciò non per un mutamento di tempi che non ci permetta d’intendere il passato, ma per il principio di uguaglianza che domina la nostra coscienza. Tale principio, latente, mortificato, inspirava anche allora nell’anima umana parole e atti di una virtù superiore: lampi fra le tenebre, sorrisi di un’alba lontana.

Nel cristianesimo brillò la prima negazione aristocratica.

Se la schiavitù non venne subito soppressa, ogni disparità rimase sulla soglia del tempio cristiano; la confessione fu obbligo per tutti, per tutti la penitenza punì il peccato. La superbia dei grandi diede ancora all’eroismo i modi aggressivi e le forme oltraggiose delle antiche aristocrazie, ma contro gli eroi belli di passione mondana la chiesa pose l’ordine dei santi, che rinunciando al mondo lo dominavano colla vittoria dell’umiltà nel prodigio di un amore senza ricambio, come quello del sole che non chiede nulla alla terra.

Il santo ebbe quindi nel mondo cristiano contro la virtù di classe lo stesso ufficio del filosofo nell’antichità: una smentita in una virtù superiore, accessibile a tutti, senza sostegni artificiali, vivente nel sacrificio e di sacrificio. Così il giudizio della vita e della storia venne lentamente mutando: il mondo rimase dentro le stesse necessità d’inganno e di violenza, alle quali l’eroismo doveva sottomettersi, ma nell’anima popolare brillavano già modelli più puri, tipi più alti.

Poi la rivoluzione francese affermando l’uguaglianza civile decapitò tutte le aristocrazie.

Adesso vi è ancora un problema dell’aristocrazia? Potrà essa ricominciare dall’uguaglianza spirituale?

Come? Dove?

L’aristocrazia è immortale.

La superiorità, che prepara il carattere aristocratico, comincia nella natura degli individui: è una eccellenza, che li rende diversi dalla folla e da essa facilmente riconoscibile: quindi per segreta affinità elettiva s’adunano, la loro medesima uguaglianza li gradua, le differenze di attitudini suggeriscono le gerarchie, l’unità dell’opera li fonde e la sua durata consolida il loro ordine. Così soltanto poterono operare nella storia, e tutto o quasi fu sacrificato alla loro conservazione. Allora la civiltà si svolgeva in quadri a grandi distanze di spazio e di tempo: quando una aristocrazia spariva, quasi sempre il popolo spariva con essa, ma nella segreta, invisibile unità della storia nè quell’idea, nè quella forma erano perdute.

La funzione dell’aristocrazia diminuiva dunque col diffondersi della civiltà e nell’uguagliarsi degli individui: più la sicurezza del deposito spirituale cresceva e minore diventava il sagrificio della sua salvaguardia: più l’individuo saliva e più si attenuava la differenza di classe.

Nulla sembra dunque giustificare adesso un’altro patriziato, mentre tutti quelli superstiti non sanno in se medesimi rinnovellare la superiorità loro necessaria: che cosa sono essi infatti se non forme delle ultime monarchie naufragate nella rivoluzione, poi ripescate come un simbolo vuoto, dentro il quale qualche altra cosa ricominciava? La loro funzione politica si esercita ancora in qualche Camera di Pari, ma indarno; nel nostro mondo ogni uomo è sovrano, la legislazione si compie per mandato e la legge non è vera che nell’impersonalità.

Il fascino delle vecchie aristocrazie è dunque soltanto nella bellezza di una rovina, alla quale contrasta la volgarità dell’architettura moderna: anche il popolo comincia già a sentire la nausea della forma e dei modi, nei quali la ricchezza cerca di esprimere una superiorità spirituale: i monumenti superstiti, i ricordi classici, le figure romantiche improvvisano in tutti i cuori una critica: qualche vivente moderno della vecchia aristocrazia basta ancora ad umiliare i migliori campioni della nuova, mentre la volgarità stessa dell’invidia al denaro risuscita in un paradiso senza pericolo le antiquate devozioni ai vecchi titoli e ai nobili nomi. A questi almeno si può inchinarsi senza umiliazioni, perchè il caso della nascita vale per un bel nome come per un bell’ingegno, mentre nel piegarsi forzatamente al danaro per il danaro soltanto la nostra inferiorità sente di farsi vile.

Oggi nessuna differenza legale diminuisce più un uomo davanti ad un altro: se nella scala sociale qualcuno sembra ancora nascere più alto, è dubbio che per la sua educazione questo sia un vantaggio, giacchè il vigore cresce non dalle facilità della scuola ma dalle difficoltà della vita. Una invidia addolora dunque tutte le piccole anime, che non sanno più accusare alcuno della propria inferiorità: una viltà le aduna nel fondo delle democrazie e le solleva sopra di esse nei bollori della fermentazione come una schiuma. Adesso che non vi sono più classi e ogni individuo deve valere per se stesso, la guerra dentro l’apparenza della pace è diventata anche più atroce; l’uomo tornò nemico dell’uomo, il suo egoismo non ha più limiti in se stesso, nè gioia al disopra. La solidarietà, così vantata nel partito popolare, non è che legge di battaglia per la conquista del danaro; invece di primeggiare come un tempo bisogna prevalere: per salire la prima necessità è di accattare i suffragi, e poichè il numero rende anonimi gli elettori, si rinnova in tutti i concorrenti la didascalia delle antiche corti. A coloro, che non chiedono il comando, la ricchezza diventa anche più indispensabile, perchè nella presente fase industriale il trionfo del lavoro non ha altro esponente che il danaro.

L’istinto aristocratico si realizza nelle forme più apparenti del lusso e della educazione; la povertà in tanta devozione, che tutti sembrano votarle, è il segno più basso della degradazione: non s’ispira più ai fanciulli che l’orrore della miseria e la dignità delle convenienze. L’unico sovrano è il pubblico: uniche classi, quelle che il danaro forma momentaneamente in certi luoghi accessibili soltanto a certi prezzi: soli trionfatori, coloro che improvvisando la propria ricchezza osano bruciarla davanti alla gente, e vi appaiono come dentro una luce d’incendio.

I credenti delle antiche fedi sembrano nascondersi, gli aristocratici dei vecchi ordini attraversano la folla come stranieri: malgrado la sicurezza che tutti sentono in se medesimi, manca qualche cosa ad ognuno, nella coscienza che non ha più una regola, nel pensiero che è senza autorità, nella vita che cerca un modello. Si volle essere re, e non si sa regnare; s’invocò la libertà nell’uguaglianza, e appena conquistata si capì che non basta.

È necessaria dunque un’altra aristocrazia, che esprimendo le più alte differenze risolva l’equazione di tutte le altre.

Ma essa non sarà nella propria bellezza che la verità di tutte le morte aristocrazie e l’originalità di un nuovo mondo; a rovescio di quelle, non avrà nè limiti, nè insegne: tutti quanti penseranno nobilmente se stessi, ne faranno parte; il cuore vi preverrà alla mente. Se nelle antiche il segno era nel disprezzo della morte, questa ultima porrà nella vita il pregio della nobiltà, respingendo le forme e le interpretazioni democratiche, che adesso fanno del danaro il mezzo e lo scopo della vittoria. Nella politica, nella scienza, nell’arte e perfino nella industria un altro sentimento trionferà come il sole sulle nebbie di un troppo lungo mattino.

La funzione aristocratica si compirà pari all’antica nella formazione di un nuovo carattere morale, che s’imponga all’incoscienza del volgo: una intonazione alzerà lavoratori e lavoro, e un eccellente fabbro potrà essere più stimato di un mediocre avvocato, e un professionista capace di guadagnare milioni non varrà un modesto cooperatore in un gabinetto di studio. La viltà di coloro, che s’inchinano davanti alla folla verrà giudicata come quella degli altri, che una volta fuggivano davanti al nemico: coloro, che mentono mercantilmente nel nome della scienza, provocheranno il medesimo disprezzo di quelli, che nell’epoche religiose falsificavano la fede: gli artisti, che tradiranno l’arte, sembreranno i discendenti dei miserabili che già vendettero la patria.

La vita ha bisogno di una continua ascensione.

Lasciate che il nuovo strato operaio si assodi sulla base della borghesia, e giù negli ultimi strati del popolo si cicatrizzino le più vecchie piaghe della miseria, e dall’anima più tranquilla e più pura si alzerà un’altra visione ideale. Non si vive che nello spirito: bisogna sognare la bellezza, la virtù, la verità per non soccombere al dolore e alla nausea della vita. Ogni epoca si compone il proprio modello eroico. Il periodo industriale disciolse i vecchi tipi aristocratici, un altro periodo li ricomporrà; la superstite albagia feudale appariva ridicola nell’orgoglio di una potenza morta: questa ultima altezzosità della ricchezza presto sembrerà anche più grottesca nella sua impotenza.

Ma se le antiche aristocrazie parevano tagliate nel cristallo, quest’ultima sarà come la bellezza dell’anno, che ricomincia nella primavera e l’accompagna sino dentro la soglia gelida dell’inverno: tutti potranno cogliervi un fiore, e nessuno farvi una eredità: non vi saranno gradi, appunto perchè tutte le superiorità vi otterranno il proprio riconoscimento: non credo che si ripeteranno titoli e vi si rinnoveranno decorazioni. Domani forse tutti le ricuserebbero come un segno posto sopra una fisonomia non abbastanza significativa per apparire se stessa.

Se l’antica virtù aristocratica contrastava alla viltà della plebe, la nuova dovrà essere più alta, giacchè nel volgo saranno ricompresi tutti coloro, anche ricchi, anche dotti, che interpretando bassamente la vita ne umiliano la tragedia. Quindi i grandi solamente vi saranno servi, il genio che pensa per tutti, l’eroe che si sagrifica per molti: non si crederà più possibile la grandezza che umilia, non si stimerà più una forza quella che non solleva. Siccome non vi saranno posti che somiglino a plinti, l’autorità non potrà fingere la potenza o la fama simulare la gloria: e poichè la grandezza non ha altro premio che se stessa, i grandi soltanto potranno accontentarsene.

Oggi l’ombra delle vecchie classi divide ancora gli uomini, domani non vi sarà fra essi che una sola differenza: o aristocratico o plebeo: l’egoista chiuso in se stesso e che mente agli altri, o il forte che apre a tutti la propria anima come un ricovero e accende il proprio pensiero come una fiaccola nella notte.

Ma nessuno potrà redimere un altro.

La codarda teoria, che lusinga il popolo dicendogli che la sua inferiorità è soltanto nella ingiustizia della legge, sarà lontana come adesso la menzogna degli ultimi cortigiani agli ultimi tiranni: non si può sopprimere in alcuno il tirocinio della libertà, nè concedere esercizio di diritti a chi non li senta ancora nella propria coscienza.

Non si diventa libero che innalzandosi; non è possibile affermarsi davanti agli altri che nella sincerità di se stesso.

Finchè il popolo non sia davvero composto di uomini, non sarà libero, ma fino a quel giorno un’altra aristocrazia gli sarà guida e modello nel pensiero e nell’opera, e nessuno saprà come sia composta, perchè domini ovunque, senza leggi e senza armi. La sua influenza sarà nella luce che è il primo degli alimenti, la sua verità nell’accettarle tutte: atei e credenti vi agiranno nell’accordo dell’umana tragedia: piccoli e grandi vi si sentiranno uguali nelle intenzioni e nei risultati.

E gli inconsolabili, che giudicano inutile la vita, avranno veduto in questo ultimo sforzo la sua più pura bellezza.

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