III.

[115]

Il sole tramontava dietro l'Ara degliu Volupitto mentre io e l'arciprete di Fonlanaliri, seduti al fresco, sotto gli olmi della Fontana a balle, parlavamo della festa che doveva essere celebrata a Monte San Giovanni Campano per commemorare il cinquantenario della Madonna Santissima del Suffragio; festa della quale si discorreva già da tanto tempo in tutte le farmacie e in tutte le sacrestie di tutta la diocesi di Veroli. L'arciprete dopo di aver speso molte parole, qualcuna anche in lingua latina!, per invogliarmi ad andarci si alzò, ed aprendo le braccia in atto di maraviglia, fini col dirmi che la festa sarebbe stata una festa di tre bande.

— Di tre bande?

— Di tre bande! — ripetè l'arciprete, e pronunciando le tre parole lentamente, in modo che fra l'una e l'altra ci fosse una breve pausa, piegò la persona sul lato destro; sprofondò la mano grassa nella tasca della sottana; ne trasse una scatolina di madreperla sul cui coperchio era dipinta una immagine dell'Addolorata; l'aprì, vi ficcò dentro il pollice e l'indice, e s'empì il naso di tabacco. Io gli lasciai compiere la delicata operazione e poi gli chiesi quale sarebbe stato a suo giudizio il mezzo migliore per andarci a cotesta festa, ed egli, dopo di aver starnutato tre volte mi rispose: — L'asino. — E soggiunse subito che sol [116] che io l'avessi voluto egli si sarebbe volentieri incaricato di provvedermi della bestia e della guida. Io lo ringraziai della gentile offerta, e all'indomani quando mi recai, come s'era convenuto, a San Rocco, dinanzi alla chiesina bianca, illuminata dai primi raggi del sole, vi trovai un bell'asinello magnificamente bardato e un bel ciociaretto vestito col suo più bell'abito da festa: corpetto rosso, giacchetta turchina, calzoni gialli, camicia ricamata e cappello a cencio ornato di nastri multicolori e di penne di pavone.

Il ciociaretto appena mi vide mi venne incontro sorridendo e, dopo di avermi dati i saluti di don Michele, mi porse un foglio di carta rossa ove era stampato il programma dello spettacolo; anzi di tutti gli spettacoli che in quel giorno dovevano allietare i popoli di Monte San Giovanni Campano. Incominciai subito a leggerlo, e così, mentre l'asino trotterellava fiutando con la testa alta e le froge aperte la fresca auretta mattutina, seppi come «nella Collegiata riccamente e a studiato disegno parata» la musica dei vespri sarebbe stata diretta dal maestro Melchiade Martufi e cantata da «distinte voci romane»; appresi come nella «Collegiata» si sarebbe fatta discendere «dalla propria nicchia la statua di Maria Santissima del Suffragio che dal merito artistico pare divinamente scolpita», e in qual modo, finita la festa, la statua suddetta si sarebbe fatta tornare «nella propria nicchia»; imparai quanto i concerti di San Donato e di Sezze avrebbero reso «vieppiù brillante il trattenimento», e infine come molte migliaia di colpi di mortari avrebbero dato «continuo segno di gioia religiosa». Non vi parlo dei globi areostatici da innalzarsi nell'aria, dei fuochi artificiali preparati da valente pirotecnico e dell'estrazione di [117] una tombola con relativo incasso devoluto naturalmente a scopo di beneficenza.

Dopo la lettura del programma, incominciai quella della mia guida, e domandai al mio ciociaretto: — Come si chiama quest'asino?

Ed egli mi rispose subito: — Vicienzino.

— E tu come ti chiami?

Io? Come a isso. Vicienzino paro.

— E quest'asino è tuo? — ripresi io ridendo.

Gnorsì, è d'un amico degliu mia.

* * *

La via si fa malinconica ed uggiosa; a destra e a sinistra, sempre gli eterni pioppi.

Su le rocce di tanto in tanto appare qualche casetta abbandonata e fra gli ulivi qualche chiesina, con curiose scene della vita dei santi, dipinte su le mura screpolate. Al Fosso della Faina lasciamo la via provinciale ed entriamo nelle scorciatoie, ora serpeggianti fra le rocce nude, ora fra la terra nera su cui s'allungano filari di ortaglie verdissime; e fra Capo Ciuffone, un monticello che porta tal nome perchè vi stette conficcato sopra un palo il capo di un brigante, e la Fonte Cupa incontriamo uno stuolo di contadini che va a seppellire un morto.

Innanzi a tutti un chierico reca un Cristo dipinto su una croce nera: lo segue un prete con la stola nera orlata di ghirigori gialli sul petto e con un fazzoletto bianco sulla berretta; poi viene la bara sorretta da quattro contadini e dietro la bara incedono alcune donne con le mani incrociate sul seno. Il prete ad ogni cinque o sei passi biascica paternostri e intanto, [118] con un coltelluccio, va sfrondando accuratamente un ramo di nocciuolo per farsene un frustino, e le contadine, sempre con le mani incrociate sul seno, chiacchierano ad alta voce.

Quando il piccolo corteo arriva agliu Caputonno, il prete si tira sù la sottana sino alla cintola, il contadino si mette il Cristo su la spalla, e tutti pigliano la via della montagna.

* * *

All'Anatrella sur un ponte di ferro passiamo il Liri che scorre spumante fra una quantità di scogli maculati di musco e traversiamo i fabbricati della cartiera del conte Lucernari, tutti circondati da ridenti giardini. Sotto ai boschetti dei lauri e degli oleandri fioriti non solo godiamo un po' di frescura, ma riceviamo anche i rauchi omaggi di un bellissimo pavone, il quale appena ci vede scende dalla scogliera di una fontana quasi coperta dalle foglie larghe delle ninfee e dai fiori gialli e purpurei dei nenufari, e ci viene incontro aprendo la coda occhiuta e movendo graziosamente il collo smeraldino. Chi l'ha detto che i pavoni sono superbi?

Dopo l'ultima aiuola dell'ultimo giardino la via a poco a poco si restringe tanto da divenire un sentiero, e il sentiero a sua volta si fa così ripido e sassoso da obbligarmi a mandare dietro a me i due Vicienzini pel timore che cadendo non mi vengano addosso.

A mezza costa io e i miei due Vicienzini chiediamo tutti e tre un po' d'ombra alle vecchie mura di una chiesuola, e intanto che ci riposiamo ci passano davanti [119] dei contadini vestiti a festa seguìti dalle loro donne. Alcune di esse invece delle cioce hanno ai piedi enormi scarponi chiodati che ogni tanto le fanno sdrucciolare e le costringono a battere sulle pietre arse dal sollione quelle parti del loro corpo delle quali si servono ordinariamente per mettersi a sedere. Ne ricordo ancora una di coteste contadine con la veste di seta verde e col petto coperto di collane d'oro, che dopo di esser caduta due volte si accoccolò per qualche istante accanto a una siepe, e rialzatasi coi piedi ignudi prese a salire, agile come una gatta, su per l'erta del monte reggendo con la sinistra le calzette ricamate e con la destra i due scarponi i cui chiodi brillavano al sole.

* * *

Arrivati alle prime casupole del paese ordinai a Vicienzino di provvedere di un comodo alloggio l'altro Vicienzino, e incominciai a salire i gradini di una infinità di vicolettacci neri inghirlandati di lauro. Non finivano mai! Quando finirono mi trovai in una piazza ove una quantità di gente ammirava a bocca aperta un lampadaro di carta dipinta. E l'ammirai anch'io, tanto più che sentii dire da tutti come il lampadaro una volta che fosse stato acceso avrebbe dovuto fare «un'eccellente visuale».

Nella piazza ove erano sonnambule che predicevano il più lontano avvenire, tavolini sui quali si giuocava ai dadi e alle carte e molte baracche, ove si vendevano orologi d'oro da un soldo, fiori artificiali, dolciumi di tutte le forme e bibite di tutti i colori, v'era anche un grande panorama [120] «pittorico-artistico-scientifico-nazionale», davanti a cui un tipo olivastro dalla barba a pizzo, mentre una ragazza dalle chiome bionde, divorando una fetta di pane girava il manubrio di un organetto sfiatato, gridava: — Favorischino! Favorischino, signori! — Ma, ahimè, i signori non favorivano e andavano invece verso la «Collegiata» per sentire le «distinte voci romane». Ci andai anche io; ma quando vi arrivai e vidi che razza di lavoro s'aveva da fare per sentirle, mi allontanai tanto da loro che arrivai in fondo al paese ove in un prato, fra mucchi di peperoni e piramidi di pomidori, fra ceste di pere vizze e bigonce di fichi era stato innalzato un arco trionfale nel cui attico, sotto una immagine di Maria Santissima tremolante al vento, si leggeva questa epigrafe:

VENITE A CELEBRARE CON GIOIALA FESTIVITÀ DI COLEI CHE FAL'ALLEGREZZA DI TUTTO IL MONDO.

Mentre io stavo ammirando l'arco, accanto a me due eleganti del paese parlavano del merito dell'iscrizione.

— La terzina è bella; però una terzina senza rime, io non la capisco.

— Ma io credo che «fosse» come dicono adesso una terzina «barbera». — osservò l'altro frustandosi le gambe con un bastoncino di canna d'India verniciato di rosso; e non aveva finito di osservarlo quando un assordante squillar di campane e un fragoroso rimbombar di mortari fecero tremare la terra ed il cielo.

— Che cosa succede? — chiesi a un contadino che mi passò accanto correndo.

Jesce la pricissione! — mi rispose; e via come un daino. Io lo seguii e a forza di gomiti e di ginocchia [121] mi riuscì di penetrare in un vicolo ove la pricissione già incominciava a sfilare. Aprendosi a stento una via tra la folla passarono lunghe file di contadini vestiti con càmici bianchi, gialli, rossi e neri, e recanti, secondo il loro grado, candele, croci, insegne e stendardi di cento forme e colori; passarono preti allampanati con le persone ossute coperte dalle cotte bianche pieghettate, e canonici obesi con su le spalle ricche mozzette violacee, e finalmente, preceduta da un gruppo numeroso di cantori e di chierici che agitavano preziosi turiboli d'argento e da alcuni diaconi che circondavano ed assistevano un vecchio col capo canuto onorato da una mitria di broccato bianco, e seguìta da un concerto e da una moltitudine di donne, giù in fondo al vicolo, fra nuvole azzurre d'incenso e sotto a una pioggia di fiori, apparve la màchena tutta d'oro, su cui, tra una gloria di angeli, vestita di un ricchissimo abito di seta cilestrina ricamato di stelle d'argento e coronata da un alto diadema scintillante di gemme di molto valore, sorgeva la statua della Madonna del Suffragio.

La màchena ondeggiava su la folla come una barca sur un mare in burrasca e avanzava adagio adagio fra gli urli e le imprecazioni di quelli che la trascinavano, i quali, poveretti!, gocciolanti sudore e rossi dalla fatica insopportabile non sapevano come fare per tenere indietro coloro che per devozione volevano ad ogni costo toccare l'immagine miracolosa. Uno di cotesti poveretti, un contadino, mentre allontanava con le braccia nerborute un gruppo di fanatici che voleva per forza avvicinarsi alla màchena, lo udii gridare: — Arrèto! Arrèto, perdia! che la Madonna se va a fa' fotte'!

La processione scese e salì una quantità di vicoli [122] e di vie, traversò diverse piazze e piazzette, passò sotto l'arco trionfale che io aveva dianzi ammirato, uscì dal paese, serpeggiò su le rocce fra gli ulivi, dai quali alcuni fanciulli agitando panni colorati gittavano fiori, arrivò in cima a un poggio davanti a una chiesetta inghirlandata da festoni di lauro e di mortella e si fermò. Dopo qualche istante tutti s'inginocchiarono in silenzio, e il vecchio con la mitria, aiutato dai diaconi, salì sulla màchena, alzò le braccia tremanti al cielo e diede la benedizione. Allora un grido solo uscì da mille bocche, le insegne e gli stendardi furono agitati festosamente, le trombe squillarono e centinaia e centinaia di colpi di mortari recarono l'annunzio della solenne cerimonia fino ai più rimoti paesi che di lassù si scorgevano appena biancheggiare sugli ultimi monti lontani.

* * *

Finita la processione le bettole e le taverne incominciarono a riempirsi di gente. Girai per lungo e per largo il paese in cerca di una trattoria, ma le mie più diligenti ricerche rimasero infruttuose. Allora, trovatomi davanti a una osteria su la cui porti fra le foglie secche di un ramo di quercia sventolava una bandieretta rossa, vi entrai.

Nella prima camera simile in tutto a una bolgia dantesca v'era la cucina.

In un camino profondo, scavato nella parete, entro caldaie nere, bollivano i maccheroni. E tra il fumo, che stringeva la gola, ondeggiavano effluvii di peperoni fritti e di pomidori cotti su la bragia. Appena giunsi nella seconda stanza ove alcune famiglie di [123] contadini mangiavano, gridavano e bevevano, chiamai l'oste e gli dissi: — Voglio mangiare. Hai altre stanze?

Gnorsì, gnorsì. Saglite in coppa, signoria, saglite! — egli mi rispose subito cavandosi il berretto; ed io saglii su una scaletta di legno e accompagnato da lui entrai nelle camere superiori... non davvero ad ogni elogio.

V'era anche lassù gente che mangiava, e insieme alla gente che mangiava v'erano accostati alle pareti pagliericci e banchi di letti e mucchi di lenzuola.

L'oste mi portò in una stanza ove un enorme letto s'appoggiava alla parete più lunga e mi disse: — Cà, signoria, lei state come 'nu papa.

Io cavai il fazzoletto e fingendo di soffiarmi il naso: — Non avresti un luogo all'aria aperta? — gli dissi.

Vôi l'aria aperta, signoria? — riprese il bettoliere, e senza aspettare la risposta corse ad aprire la finestra.

— Che cosa mi dai da mangiare? — gli domandai ridendo.

Ah! A chesso apò ce penso io. Nun te n'incaricà', signoria. Làssete servì' da Loretuccio e saraie contento. — mi rispose l'oste portandosi le mani al petto, ed uscì.

Rimasto solo mi sedetti vicino alla finestra e mi misi a osservare la stanza ove al dire di Loretuccio io avrei dovuto stare come 'nu papa.

Incontro a me v'era il talamo, non saprei dire se inaccesso o no, e sul talamo una quantità di giacche e di cappelli di contadini. Altri abiti ed altri cappelli erano appesi alle pareti colorate di giallo sulle quali spiccavano molte stampe dipinte raffiguranti la fuga di Mazzeppa e moltissime immagini sacre [124] di tutti i paesi. La camera era anche adornata da parecchie grandi canestre ricolme di pomidori, di peperoni e di granturco, e da alcuni mobili tanto mobili, che io avendone urtato uno, poco mancò che tutte le Madonne e le crocette e lampadine che vi erano sopra non precipitassero a terra.

Quando Dio volle venne un ragazzetto. Egli trascinò un tavolino in mezzo alla stanza; lo ricoprì di un panno bianco e vi posò sopra un boccale di vino nero, un piatto, che a prima vista, scambiai per una concolina, e una enorme pagnotta di pane scuro. Poco dopo tornò Loretuccio con una padella dove in un intingolo rosso, nuotavano, friggendo, i pezzi d'un pollo.

Chesto pullo, signoria, te l'àio acciso, appostatamente per lei — mi disse versandomelo nel piatto, e poi soggiunse: — Co' licenzia parlanno, signoria, t'hai da leccà' le deta.

Io gli feci osservare che non avevo nè forchetta nè coltello; ma Loretuccio, asciugandosi il sudore col dorso della mano, mi rispose: — Be', signoria, che vôi da me? Adàttete, si' benedetto! So' circostanzie eccezionabbile!

Ed io visto e considerato come le circostanzie fossero veramente eccezionabbile, mi adattai ed adattandomi mi avvidi che il povero Loretuccio, per servirmi a dovere, aveva tirato il collo a un gallinaceo il quale avrebbe fatto la fortuna di un gabinetto di curiosità ornitologiche. Difatti, dai pezzi che mi vennero fra le mani mi accorsi, come con quelli, si sarebbe potuto ricostruire un pollastro che, in quanto a teste, avrebbe potuto gareggiare con l'idra di Lerna; e io, novello Ercole, non facevo in tempo a distruggerle tutte. Una ne distruggevo e un'altra me ne saltava dinanzi. Alla [125] fine non possedendo i polsi nè le mascelle dell'eroe, mi diedi per vinto e abbandonai il campo, sicuro che altri, con più fortuna di me, avrebbe continuata la lotta.

* * *

Nell'uscire dall'osteria di Loretuccio assistetti per pochi istanti a una scena orribile.

In mezzo a molti contadini, avvinazzati, che ridevano, gridavano e sghignazzavano, due, ritti in piedi, si riempivano la strozza di maccheroni. Era una sfida. Entro un bicchiere, sulla tavola ingombra di bucce di cocomero, v'erano due monete da una lira, destinate al vincitore, cioè a colui che avrebbe ingozzato più maccheroni. I piatti di maccheroni si rinnovavano sempre fumanti e i due contadini già sazii si spingevano giù nella gola manate di pasta, imbrattandosi di pomidoro la camicia e il petto su cui scintillavano gli abitini della Vergine e le medaglie benedette. Un orrore!

Tornai sulla piazza. Il sole bruciava. Qualche cane spelacchiato si leccava le zampe al sole e il proprietario del gran panorama «pittorico-artistico-scientifico-nazionale» dormiva su una stuoia gialla col volto nascosto fra le mani. Erano le due. La tombola era annunciata per le cinque. Non sapendo ove andarmi a nascondere, per ripararmi dai raggi del sole ardente, dopo aver sorbito due caffè, mi rifugiai in una bottega di barbiere, sul cui sporto riluceva un grande bacile di ottone.

Il figaro stanco del lungo lavoro compiuto durante la mattina, dormiva; ma quando udì il rumore [126] dei miei passi s'alzò, e fregandosi la schiena indolenzita mi accennò una sedia, l'unica che era là dentro; poi, si armò di una lunga forbice e mi si avvicinò dicendomi: — Vôi il caróso, signoria?

— No, no! — esclamai io, spaventato, incominciando a pentirmi di essere entrato là dentro — Fammi la barba.

La barba? — riprese il contadino tastando la mia guancia con le sue dita di legno — Nun ci hai gniente, signoria, che te vôi fa'? Chello che nun ci hai?

Io restai mortificato. Egli allora appese le forbici a un chiodo infisso nella parete, coperta da una infinità di giornali illustrati, mi impiastricciò il volto di sapone, aprì un rasoio e incominciò a radermi chello che nun ci avevo.

Mentre mi levava la lanugine dalle gote, egli mi assicurò che non aveva appreso da nessuno a rader barbe: — Credi, signoria, — mi disse con un certo senso di orgoglio — credi ch'è stata tutta volontà de la natura.

Uscito dalle granfie del figaro fui preso dal desiderio di andarmi a sdraiare su un po' d'erba. Traversai una strada fiancheggiata da altissimi pioppi e dopo non molto arrivai sur un colle, ove fra bellissimi ulivi che svariavano vagamente al dolce soffiar del ponentino sorgeva una vecchia ed alta torre pronta a narrare a chi volesse ascoltarla la storia di Monte San Giovanni Campano. Benchè essa fosse più discreta di tanti illustri nostri autori, i quali, quando vogliono raccontare la storia di una città nostra, nata qualche secolo dopo l'êra volgare, ne iniziano la narrazione col racconto della creazione del mondo e i più svelti con le biografie di Adamo e d'Eva; benchè essa, la mia bella torre ai cui piedi [127] io m'era coricato, la storia del suo paese la cominciasse soltanto da Carlo VIII, fui vinto dal sonno, chiusi gli occhi e non li riapersi se non quando ricominciarono li bòtti.

Ma è incredibile il numero dei quintali di polvere che si sciupa in queste contrade per manifestare la gioia religiosa! Li bòtti mi riportarono nel paese, ove sulla piazza della Cittadella un concerto, circondato da una folla di contadini, alcuni dei quali ballavano con le loro donne il salterello, suonava l'«Oh dolce voluttà!» di Marchetti. I musicanti, con le uniformi rosse e con su la testa gli elmi lucenti sormontati da lunghi pennacchi bianchi, quando ebbero finito di suonare, guidati dal loro capobanda che si trascinava dietro uno sciabolone in forma di scimitarra, traversarono il paese e si recarono, seguiti dal popolo, in un prato in mezzo a cui sorgeva un palco per l'estrazione della tombola. Colà il concerto rosso si unì ad altri due concerti e tutti e tre, fra l'entusiasmo generale, suonarono insieme una «sonata molteplice», così la sentii chiamare da un giovinotto che mi era vicino, e si puliva il cappello ricoperto di polvere con la manica del suo abito turchino.

Dopo la «sonata molteplice», s'incominciò l'estrazione dei numeri della tombola, e io, non avendo cartelle da bucare, ma avendo invece molto tempo da perdere, me ne andai a visitare la cattedrale, per vedere come era stata «riccamente e a studiato disegno parata dal signor Angelo Novembre», e la trovai tutta coperta da lunghe strisce di lana rossa, verde e gialla, da larghe trine d'oro e da lunghi galloni d'argento, che s'avvolgevano alle colonne rivestite di percallina bianca lardellata da pezzetti di talco, di tutti i colori, e da stelle di carta dorata, di tutte le grandezze.

[128]

Il signor Angelo Novembre del resto non aveva «parato» soltanto l'interno della chiesa, ma anche l'esterno. Egli ne aveva ornata la facciata con lunghi festoni di lauro e con due cartelloni, sui quali erano dipinte due figure più grandi del vero, che volevano essere San Pietro e San Paolo, ma non ci riuscivano.

Il sole era oramai prossimo al tramonto e le ombre s'allungavano. Riflettendo come il primo tratto della via del ritorno l'avrei dovuto percorrere in sentieri scoscesi e sassosi, decisi di lasciare il paese prima che annottasse e mi misi alla ricerca di Vicienzino. Dopo di averlo cercato invano fra la folla impaziente di vedere appicciare gliu sparo, lo trovai davanti al gran panorama «pittorico-artistico-scientifico-nazionale» che seguiva a bocca aperta e con gli occhi spalancati i gesti del cerretano il quale descriveva le meraviglie che si vedevano nell'«interno». Lo riscossi e gli dissi; — Vicenzino! È ora di andarcene.

Come? Te ne vôi ji, signoria? E gliu sparo?

— Lo vedremo strada facendo. — gli risposi.

Il povero Vicenzino abbassò il capo, come se una immensa sciagura lo avesse colpito, e mi seguì lentamente, volgendo a ogni passo gli occhi verso il panorama, che al chiarore giallo di due fiaccole di sego accese allora allora sorgeva luminoso su la massa scura del contadiname affollato.

Arrivati in un vicolo deserto che andava a morire in un oliveto il mio ciociaretto entrò in una stalla per sellarvi l'asinello, ed io per aspettarlo mi sedetti sur una pietra. Ero lì quando due donne, tenendosi strette per la mano, mi passarono accanto senza vedermi. Una aveva il capo quasi nascosto da un fazzoletto rosso dalle cui pieghe uscivano ciuffi increspati di capelli neri, l'altra, una giovane contadina, vestiva il [129] costume del paese. Dopo pochi passi si fermarono, e quella che aveva il fazzoletto rosso, girati intorno gli occhi sospettosi, prese fra le sue mani una mano dell'altra; vi avvicinò sopra la testa e incominciò a parlare a voce bassa: poi si cavò dal seno un cordoncino bianco, lo baciò e lo annodò al polso della contadina, che dopo di essere rimasta ancora per qualche istante immobile con la testa bassa, corse a raggiungere una sua amica che l'aspettava nascosta dietro al tronco di un vecchio ulivo.

Le due contadine rimasero un momento insieme a discorrere e si allontanarono in fondo all'uliveto, e la donna col fazzoletto rosso, dopo di aver mandato un grido gutturale e strano si avviò adagio adagio verso il paese, ove incominciava a brillar qualche lume.

Senza volerlo avevo assistito ad un sortilegio.

* * *

La luna era già sorta dal monte di Rocca d'Arce e le girandole degliu sparo scoppiettando sul cielo tingevano di vivaci colori le rocce e gli alberi, quando io scendeva verso il Liri, le cui acque si sentivano crosciar da lontano. Prima di arrivarvi, oltrepassato appena un piccolo e misero borgo, mi trovai davanti alle rovine di una chiesa antichissima, da dove, nel silenzio, veniva il miagolare di un gatto.

— Come si chiama quella chiesa? — domandai a Vicenzino, ed egli insonnolito com'era, appoggiandosi al collo del suo omonimo mi rispose: — La chiesta sgarrupata.

Mentre l'asinello mi riportava a casa, non sapendo che altro fare di meglio per ingannar l'uggia della [130] via apersi il mio album e sciupai una delle sue pagine bianche scrivendovi sopra col lapis queste quattordici mezze righe rimate:

Batte la luna gialla su l'arcate

cadenti d'una chiesa bizantina

e, ne la calma tepida d'estate,

ne lumeggia la splendida rovina.

E giù, nel buio, stridono volate

di vipistrelli e cade la calcina

sopra le sepolture istoriate

da la solenne epigrafe latina.

Fra i rottami del tetto alto, s'intaglia

sul cielo un caprifico e da le rare

pitture, che ricopron la muraglia,

guardano le madonne e nel chiarore

giallastro, su la pietra d'un altare,

due gatti bianchi spasiman d'amore.

[131]

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