Capitolo III.

D’Archimede poi, sebbene molte e varie sieno state le mirabili invenzioni, fra tutte però quella, che mostra maggior sottigliezza, è questa che dirò. Jerone, inalzato alla potestà regale in Siracusa, avendo per il felice esito delle sue cose destinato di porre in un certo tempio una corona d’oro in voto agli dei immortali, la diede a fare di grossa valuta, e consegnò egual peso d’oro all’appaltatore. Questi al tempo stabilito presentò al Re il prescritto lavoro fatto con delicatezza, e il peso della corona parve che corrispondesse al dato: ma essendo stata fatta una denunzia, che n’era stato tolto dell’oro, e mescolatevi altrettanto d’argento, n’andò in collera Jerone per essere stato burlato; nè sapendo come appurare il furto, ne richiese Archimede, perchè se ne addossasse egli il pensiero. Stando egli con questa cura, andò per caso al bagno, ed ivi mentre calava nella fossa, s’accorse, che quanta era la massa del suo corpo, che vi entrava, altrettanta acqua n’usciva: quindi, avendo incontrato il metodo della dimostrazione di una tal cosa, non vi si fermò, ma spinto dall’allegrezza saltò fuori del labbro, e nudo correndo verso casa, andava ad alta voce dicendo d’aver trovato quel che cercava, mentre correndo ogni poco gridava in Greco: Eureca Eureca. Così con quel principio d’invenzione si narra, che fece due masse di peso eguale a quel della corona, una d’oro, l’altra d’argento: ciò fatto, empì d’acqua fino all’orlo un gran vaso, e vi calò dentro la massa d’argento, onde si versò tanta acqua, quanta era la grandezza tuffata nel vaso: indi estratta la massa, vi rifuse a misura l’acqua che vi era di meno, sino all’orlo come stava prima. Così trovò quanta era la quantità dell’acqua corrispondente al dato peso d’argento. Fatta questa esperienza, calò parimente nel vaso pieno la massa d’oro; indi toltala, rifondendo della stessa maniera l’acqua a misura, trovò non essersene versata tanta, ma tanto meno, di quanto era minore di mole la massa d’oro eguale di peso a quella d’argento. Finalmente riempito di nuovo il vaso, tuffò nell’acqua la stessa corona, e scoprì, che si era versata più acqua per la corona, che per la massa d’oro d’egual peso, e così da quell’acqua di più che si era versata per la corona, e non per la massa, col calcolo trovò la quantità dell’argento mescolata nell’oro, e il manifesto furto dell’appaltatore.

Si rivolga ora l’animo alle scoperte di Archita Tarantino, e di Eratostene Cireneo: perciocchè questi hanno colle matematiche trovato molte cose utili agli uomini, e benchè per ognuna abbiano acquistato stima, si rendettero però ammirabili sopra tutto per le brighe sopra una cosa; ciascuno cioè tentò con diverso metodo sciorre il problema dato da Apollo nelle risposte di Delo, che si facesse un cubo, doppio del suo altare, e che così ne verrebbe, che gli abitatori dell’isola sarebbero liberati dall’ira dei Numi. Quindi Archita coi semicilindri, Eratostene col mesolabio sciolsero lo stesso problema.

Essendosi osservate queste cose con tanto piacere nelle scienze, e perchè siamo naturalmente forzati ad esser tocchi da ogni invenzione, se ne consideriamo gli effetti, riflettendo a molte cose, ammiro anche i libri di Democrito sulla natura delle cose, e il suo comentario intitolato Chirotoneton, ove egli si servì dell’anello per segnare colla cera rossa le cose da lui sperimentate. Le scoperte dunque di questi uomini sono eternamente pronte non solo a emendare i costumi, ma anche a qualunque comune giovamento; le bravure al contrario de’ lottatori in breve tempo una col loro corpo invecchiano: onde nè quando sono nel loro fiore, nè in appresso, nè con insegnamenti possono questi, come le invenzioni de’ filosofi, giovare alla vita umana. Or, benchè non si prestino onori nè agli ottimi costumi, nè agl’insegnamenti degli scrittori, pure le menti loro, per aver contemplate le più sublimi cose dell’aria, si sono sollevate per i gradi delle memorie al cielo, facendo così eternamente noti a’ posteri non solo i loro sentimenti, ma fin anche i ritratti. Quindi chi ha la mente piena dell’amenità della letteratura, non può fare a meno di non tenere impressa nel cuore l’immagine del poeta Ennio al pari di quella di una deità: così ancora quei, che gustano i versi di Accio, hanno sempre presente non solo la forza delle parole, ma anche il suo ritratto. Nella stessa maniera a molti, che verranno dopo di noi, parrà quasi di persona discorrere con Lucrezio intorno alla natura delle cose, e con Cicerone sulla rettorica; e molti de’ posteri discorreranno con Varrone della lingua Latina. Niente meno che parecchj filologi, consultando in molte cose i filosofi Greci, si crederanno d’aver con essi familiari discorsi. Le sentenze in somma degli uomini dotti, ancorchè restino remote le persone, fiorendo in ogni tempo, intervengono ne’ consigli e nelle dispute, ed hanno maggiore autorità di quelle de’ presenti.

Quindi, o Cesare, appoggiato a tali autori, e facendo uso de’ loro sentimenti e opinioni, ho scritto questi libri: i primi sette cioè intorno alle fabbriche: l’ottavo dell’Acque; e in questo tratterò delle regole Gnomoniche, come sieno state queste ritrovate per mezzo dell’ombra, che fa lo Gnomone coi raggi celesti del sole, e spiegherò con quali proporzioni si allunghi questa, o si accorti.

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