AGATA E AGNESE.

Conobbi Agata ed Agnese a Camogli, ove vivevano da sole, e voglio raccontarvi la semplice storia di queste due zitelle la cui ingenua verginità fu illuminata e cementata da un raggio di amore bizzarro e commovente.

Le credevano tutti due sorelle: ma in verità non erano nè meno cugine, nè la più lontana parentela le univa. Eppure vivevano, e avevano sempre vissuto insieme: e la comunanza di vita, da tempo immemorabile, avea siffattamente unificato il loro aspetto, l'avea rese sì somiglianti, meglio ancora così eguali in tutto, in ogni minimo particolare del viso, delle movenze e anche degli abiti che ognuno vedendole più che due sorelle le credeva due gemelle addirittura.

Agata e Agnese eran vecchissime: quanti anni? nessuno avrebbe potuto dirlo, forse neppur esse stesse lo sapevano con precisione. Il tempo era passato sopra di esse senza accorgersene soverchiamente, e avea avuto delle due amiche, così naturalmente e teneramente legate come da un mite destino inconsapevole, un certo cotal rispetto.

Erano vecchissime, ma non rugose; sul loro volto un poco legnoso persisteva un gentile incarnato verginale; gli occhi eran miti e sorridenti, e tutto il volto era animato da un timido sorriso di bontà e di naturale modestia.

Vestivano quasi sempre eguale, naturalmente; e abitavano la casetta di una di esse – si eran dimenticate quale delle due fosse la padrona! – una casetta piccolina, ma che era una meraviglia di pulizia e di compostezza. Due camerette linde da vecchie fanciulle, con bella e nitidissima biancheria, un poco antica com'esse, come del resto tutto era antico in quella piccola casa, così pura, così verginale, così assestata. Un salottino con le poltroncine color di rosa autunnale, e certe tendine a ricami che ora non costumano più in nessuna parte del mondo, e al muro fotografie di persone morte da cent'anni, che neppur esse ricordavan viventi, e vecchi ninnoli di altri tempi, e perfino certe scene carnevalesche che dovean esser state famose – ma che ora nessuno ricordava più.

Nella salettina da pranzo, minuscola, chiara, con un tavolinetto accostato al muro, per due persone, era un vecchissimo calendario: nessuno da anni ed anni lo aveva sfogliato, e portava come ultima data: 15 settembre del 1862.

Avevano due armadi pieni delle loro cose. Certe vesti di seta nera, tutte nastri e fronzoli, tenute con somma cura: non un granello di polvere era sopra que' vecchi abiti, che sapevano di spigo e di canfora, ben piegati, assestati, e lucidi come nuovi, malgrado gli innumerevoli anni da che giacevano riparati in quel guardaroba. Li mettevano a Natale, a Pasqua, il giorno della loro festa, che andavano a messa ilari e felici come quando avevano quindici anni e già così andavano alla messa insieme, ridenti come due sorelline fresche, strette una all'altra che già fin d'allora, più che due amiche, le prendevano tutti per due gemelle.

Avevano anche certi loro scatoloni pieni zeppi di nastri, di vecchie penne, di fiori finti e di antichi veli. Erano il loro divertimento. Li aprivano insieme sorridenti, quasi beate, e li ripassavano con cura, togliendo loro ogni granello di polvere che vi si fosse infiltrato, con rispetto ed amore. Talvolta mentr'erano intente a questa bisogna si fermavano un poco e pensavano. A che? al loro passato? Ma se non ne avevano mai avuto passato, quelle due care creature! Pensavano a' loro bei giorni: bambine, fanciullette, ragazze, donne, e vecchie – sempre così, assettate, sorridenti, il lieve incarnato sulle gote sempre verginali, unite nell'immutabile loro affetto, due corpi con una sola anima mite, buona, un poco ingenua e felici della loro vita.

Qualche volta la loro piccola casa veniva invasa da un amico, vecchio anch'esso, naturalmente, ma alquanto più indietro ancora negli anni, rispetto ad esse. Questo amico appariva colossale là dentro, accanto alle due zitelle, così piccine, vicino a tutte quelle cose così minute. Era davvero colossale e pareva ingombrare ogni cantuccio: ogni suo movimento era come lo scuotersi di una cosa massiccia in mezzo a mille piccole cose fragili. Occupava tutto il salottino dai divani color di rosa autunnale, e non capiva nella saletta da pranzo.

Le due vecchiette erano felici di vederlo e andavano per lui a prendere certi vasetti di confettura confezionati con le loro mani, di cui il grosso amico appariva un po' ghiotto e che vuotava con pochi sorsi. Esse ridevano, beate, e gliene porgevano un altro, due, tre finchè egli ridendo, col suo vocione, diceva

– Basta, basta, mi farete scoppiare voi, belle mie!

Ed esse erano felici: gli occhietti brillavano loro in volto, l'incarnato si faceva più vivo, e volevano che lui, raccontasse loro le «notizie del mondo». E lui si metteva a raccontar loro queste famose notizie del mondo di fuori, da cui esse vivevano così lontane, e così felici d'esserne fuori.

Esse vedevano con tanta gioia questo loro grosso amico, perchè egli era stato... il loro grande ed unico amore.

Era cominciato quando lui aveva tredici anni ed esse... qualcosa di più. Egli era un bel ragazzo, roseo e biondo, e dimostrava non meno di sedici anni: forte, tarchiato, un poco chiassoso, e marinaio.

Poi lui era cresciuto ed era arrivato ai vent'anni: e con lui era nel cuore delle due ragazze cresciuta l'ammirazione, e con l'ammirazione era venuto l'amore.

Ma lo amavano tutte e due!...

E si volevano, fra di esse, tanto bene che l'una mai avrebbe potuto neppur pensare di poter sagrificare l'altra a proprio vantaggio.

Aveano così deciso di adorarselo insieme, senza speranza di una conclusione qualsiasi. Anzi quell'amore in comune era divenuta la loro gioia, era stato per esse fonte di sottili godimenti, di spirituali rapimenti che si confidavano, beate, insieme, e insieme assaporandosene la dolcezza e la poesia.

In tal modo quest'amore aveva raggiunto la più pura forma d'idealità, era, un complemento al loro affetto di amiche, un amore sopra un altro amore, che lo compendiava e lo rendeva più intenso. Era insomma un altro legame, di più venuto ad unirsi agli altri naturali per avvincere ancor più, s'era possibile, le loro miti anime fatte assolutamente l'una per l'altra.

S'era mai accorto il bel ragazzone dell'intenso e poetico amore da lui suscitato nelle sue due amiche? Forse sì, forse no. Certo che anch'egli si era sentito preso da esse ma non sapendo quale scegliere, fra le due, era ricorso un giorno ad un ingenuo stragemma. Aveva nascosto nei loro due libri da messa – uguali beninteso – due letterine, identiche: due dichiarazioni d'amore. Una delle due avrebbe risposto – avea pensato il giovanotto – e quella lui avrebbe amato... Ma non avea preveduto che nessuna delle due poteva rispondere: avrebbero dovuto rispondere ambedue insieme!... Ed egli, un poco vergognoso dell'inutile passo fatto, avea ingoiato quello che lui avea creduto una disdetta e d'allora in poi aveva smesso il pensiero di amare e di farsi amare da una delle due belle.

Ed era così rimasto semplicemente il loro buon amico.

Mai però avea saputo com'erano in realtà andate le cose. Le due ragazze, aveano trovata la lettera, se l'eran letta insieme,– comunicandosela l'una con l'altra, ed eran rimaste più fisse che mai nel loro ideale: era destino! Egli le amava tutte e due... esse dovevano tutt'e due amarlo insieme.

Il dichiararsi dell'una sarebbe stato l'abbandono dell'altra; era mai possibile questo?... Non era possibile – e poi sarebbe stato rotto il raro e dolce incanto. Ambedue tacquero: e continuarono ad amarlo in silenzio per tutta la loro vita.

Le due lettere furono conservate preziosamente, sotto i vecchi nastri e i pizzi della scatola, e se le leggevano qualche volta, sorridenti e beate, con lo stesso sentimento e la stessa felicità con cui spolveravano i vecchi nastri, i fiori, i veli che ricordavan, uno per uno, tutti i loro giorni passati...

Avvenne un giorno che una delle due ammalò: e fu Agata.

L'altra le si pose al fianco del letto e più non la lasciò. La malattia non fu lunga – e poichè più di vecchi non si può venire – Agata morì in un bel pomeriggio di ottobre, mentre il sole rideva nella loro casetta linda e quieta. Agnese che s'era appisolata un momento, si scosse ad un lieve gemito dell'amica: si levò atterrita e la vide ansimare brevemente, accennando qualcosa ch'ella non capì. Le parve volesse dirle qualcosa che s'era dimenticata... Tentò due o tre volte di muover le labbra, poi abbandonò indietro la testa e ricadde: era morta.

Agnese volle esser sola a vestire e comporre per l'ultimo riposo la sua fida compagna di tanti, tanti anni. La lavò, l'assettò cavò fuori la veste di seta nera e lucida dagli svolazzi e dai franzoli, quella delle loro feste; andò a cercare nello scatolone il miglior velo e tutta bene, con infinita cura e amore, l'acconciò per la sua ultima passeggiata.

Poi si fermò a riguardarla.

Era bella. Ma il volto dell'amica che più non era di questa terra avea un'espressione accorata, di tristezza e di malcontento che mai Agnese le aveva veduto in vita. Due rughe amare le s'eran formate sopra la bocca, le solcavano le gote, quasi ella volesse piangere, e la morte avesse fermato quel desiderio di pianto con la sua rigidezza finale.

Agnese pensò.

Agata non se ne andava contenta. Perchè?... Ricordò che prima di morire avea accennato a dirle qualcosa... ma non aveva potuto.

E pensò ancora.

A un tratto ebbe come un barlume di luce nella mente. Andò svelta a frugare nello scatolone, ne cavò in fretta la lettera dell'amato, e scoprendole un poco la veste nera sul petto gliela pose proprio sul cuore.

E allora rialzando gli occhi vide che il volto affilato dell'amica morta ebbe come un fuggevole sorriso e tosto si rasserenò.

Esso avea ripreso l'espressione buona e sorridente che sempre aveva serbato in sua vita.

E anche Agnese si rasserenò: e pensò che ora poteva prepararsi a morire anche lei, giacchè non era possibile che altro le rimanesse da fare, poichè Agata era morta.

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