FRA VENTO E MARE...

– Io passo, voi lo sapete, fra' miei amici per l'uomo più sano e più equilibrato della terra. Davanti al mio tavolo da lavoro io sono il lavoratore più calmo e sereno: quando ho in bocca una buona sigaretta, un bel libro fra le mani, un bel fiore sulla caraffa che tengo costantemente sulla mia scrivania, io ho, dicon sempre i miei amici, l'aspetto più completo di uomo felice. La mia bionda testa di bel giovane (so anche di essere un bel giovane, e non trovo la ragione di tacerlo per una stupida quanto inverosimile modestia) pare fatta apposta per dar assoluta ragione a' miei cari amici quando dicono: «Ecco un uomo che sa assaporare la vita in tutta la sua più cara e dolce pienezza».

Eppure, debbo dirlo? Non è, proprio, precisamente così. No. Anche in me v'è la solita seconda anima che molto spesso si diverte a tormentarmi acerbamente. Giacchè lo sapete ben tutti che in noi sono due anime: una, la ragionevole, quella che ci aiuta a vivere; l'altra, quasi sempre di umore opposto alla prima, che bene spesso ci fa commetter delle pazzie. Questo ormai, è noto, ammesso, indiscutibile. Non c'è uomo sulla terra per ricco, povero, geniale, cretino che sia, che non alberghi entro di sè queste due anime quasi sempre in contrasto fra di loro. Ebbene, anche a me, molto spesso, una delle due mie anime – l'altra – mi fa de' tiri più o meno bizzarri.

Una, quella che mi dà l'aria beata e da filosofo epicureo, che mi fa simpatico agli uomini e aiuta i miei buoni affari, si mette a sonnecchiare: ed ecco subito l'altra che come un'aquila grifagna, dalle penne aguzze e dagli artigli adunchi, piglia il volo. Il mio corpo si contrae; il volto mi divien pallido, gli occhi inquieti; una corrente nervosa squassa tutto il mio essere, il cuore batte in tumulto, il sangue s'alza in tempesta... e a me sembra morire.

Gli amici dicon che sono un nevrastenico: ma io invece sento la presenza dentro di me di quest'altra anima che si sveglia a tumulto quando la prima, la solita, sonnecchia; e, unico mezzo per salvarmi, fuggire da' luoghi a me solitamente abituali e davanti ad altri orizzonti sfogare come posso, folleggiando, imprecando, ridendo o spasimando la convulsione che la second'anima inquieta ha messo entro tutto il mio essere.

Sentite ciò che m'accadde non saran due settimane ancora.

Ero a tavolino, tranquillo, che leggevo una lettera di un amico, quando una smania, un fastidio, una frenesia di alzarmi e di fuggire mi fe' avvertito che la second'anima si stava svegliando.

M'alzai, uscii, vidi il tram della Riviera, vi saltai sopra e respirai. Era una giornata inquieta come il mio animo e quale ve ne son tante in Liguria: delle grandi nuvole che correvano all'impazzata nell'azzurro, qualche sprazzo di sole, un vento pieno d'effluvi di mare e di polvere in abbondanza.

Il tram correva: da una parte era il mare tutt'azzurro e spumoso (ogni tratto erano certi scogli neri e dirupati che finivan in ischeggie nell'onda violacea) dall'altra gli oleandri e gli aranci che fuggivano squassati dal vento. Il mio cuore batteva e l'anima inquieta mi faceva tremare i polsi.

Il tram passò davanti a Nervi. Nervi dai giardini tutti in fiore, sempre in fiore: Nervi piena di palazzine, di pensions eleganti, di inglesi tisici e di tedeschi panciuti. Nervi, angolo di verde e di mare, dove tanto spesso sono andato a portare le mie frenesie passeggere.

Saltai giù dal tram e presi per una delle viuzze misteriose, sepolte tra le alte muraglie delle ville, che conducono al mare. Quivi corre la cosidetta passeggiata sugli scogli: una stradetta tortuosa e accidentata, tutta fatta sui dirupi, ora quasi a livello dell'acqua, ora altissima su di essa.

Quel giorno il mare era in collera, come il mio essere: il suo azzurro intenso veniva crepato, all'improvviso, da larghe ferite che spumeggiavan subito di neve bianchissima e lucente pe' mille guizzi. Il cielo in alto era tutto grigio, solcato da fenditure di sole: e certi gabbiani bianchi, dalle larghe ali aperte, sfioravan col petto, con voluttà, le creste delle ondate, tuffando il becco in quel ribollìo per cavarne i disgraziati pesciolini sballottati nella spuma candida. Non so perchè ricordai i primi versi d'una strana poesia di Heine, dove dice del mare, delle nuvole; della vita e della sua inutilità.

Stavo mormorandoli, quando voltandomi (ero appoggiato alla breve ringhiera di ferro ch'è sopra il precipizio) vidi poco lungi da me un bellissimo volto che, avendo certamente sentito i versi, mi osservava attentamente e con una certa simpatica curiosità.

Il volto, come ho detto, era bellissimo, fresco e giovanile: gli occhi indimenticabili, la bocca piena di mistero. Un'aureola di capelli biondi coronava quella bella testa, posata sopra un'alta personcina snella ed elegantissima. Una miss, od una fraulein, certamente, delle infinite che vengono a svernare nel delizioso cantuccio di riviera. Cioè, delle solite, no. Era troppo bella perchè la parolasolita si potesse in qualsiasi modo adattare a lei.

La guardai intensamente: e la bellissima accettò serena e cortese l'intenso omaggio che tutto il mio essere palesò a lei col mio sguardo.

Poichè ella era poco lontana da me osai rivolgerle la parola.

– Come è bello! – esclamai, accennandole con la mano quel mare agitato e spumeggiante.

Ella sorrise divinamente e mi rispose con una favella a me assolutamente ignota.

Ma capii che doveva parlarmi di quel mare e di quel cielo heiniano.

Allora io, sempre rivolgendomi a lei e al mare, presi a parlarle in italiano. Che cosa le dissi? non lo so. Uno strano estro mi accendeva di parlare: le parole mi sgorgavano facili e scelte, il periodo mi si formava melodioso, il pensiero s'alzava agile e fiorito come un canto – e la bella straniera mi ascoltava rapita, con un lieve sorriso sulla bocca bellissima, piena di mistero. Io parlava, parlava: e nella loquela che naturale mi sgorgava dal cuore si andava acquietando il tumulto di poc'anzi. Io parlava, parlava: ed ella ascoltava, sorridente e commossa, una gentil fiamma ne' begli occhi indimenticabili. Eppure io sentiva ch'ella non comprendeva una parola di tutte quelle ch'io gittava là, al suo orecchio, al vento pieno di salsedine e al mare agitato... Ella non poteva comprendere le mie parole, come io non aveva comprese le sue, della sua lingua a me ignota.

Eppure io continuava a parlare, sentendo che qualcosa di me, della mia anima pur penetrava nella sua, in quello strano momento d'intimità, lì, fra cielo, scogli, vento e mare.

Quando mi fermai un momento, ella mormorò, in uno strano italiano, questa volta, pieno d'inflessioni esotiche e di graziosissime sfumature di pronuncia a me ignote:

Quanta bella musica!

Poi come presa da un pensiero ella si volse e mi disse:

– Venite un poco con me.

Sorpreso e alquanto indeciso la seguii.

Ella mi condusse presso una delle villette sul mare, ne aprì il cancello nascosto fra le rose e i carpini, mi fe' attraversare un breve cortiletto ingombro di dracene, di clematidi e di passiflore, e mi fe' entrare in una saletta ove una vecchia signora, seduta sur una poltroncina, mi guardò un poco meravigliata. La vecchia signora aveva un viso bianco, i capelli di neve e un sorriso dolcissimo e buono che la illuminava tutta. Al suo sguardo stupito e interrogativo la fanciulla rispose con alcune parole della sua lingua a me sconosciuta, alle quali la vecchia sorrise alquanto e mi salutò.

Poi la strana creatura staccò dalla parete un violino, l'accordò brevemente, e volta a me ripetè nel suo bizzarro italiano

– Venite con me.

Aperse un balcone e apparve di nuovo il mare. Ella uscì sulla loggetta, che dava a picco sugli scogli, ed io la seguii.

Ed ella prese a suonare.

Suonò, suonò, una musica strana, dolcissima a volte e tutta scatti all'improvviso e arabeschi bizzarri. Mai io aveva sentito musica simile. Pensai per un momento a Niels Gade, il norvegese appassionato e fantastico, ma quella non era la musica di Niels Gade.

Ella suonava guardando il mare e io l'ascoltava rapito.

In quella sua voce, parlata per mezzo del violino, c'eran carezze, fremiti, singulti, gemiti, rotti a tratti da pazzi scoppi di risa giovanili.        

E il suo viso accompagnava il discorso del suo violino. Ora s'empieva di sorriso, ora si contraeva per le lagrime: ora luminoso e beato, ora livido e truce.

Suonò, suonò... quanto suonò? Non saprei dirlo.

Il mare, sotto, che s'era fatto più agitato, accompagnava il suo canto.

A un tratto, con uno strappo di tutte le quattro corde, finì.

Mi prese la mano e con una fresca risata mi disse in francese

– Ora vi ho parlato anch'io,– come poco fa voi, con la mia musica. Non so però se la mia musica valga quella della vostra meravigliosa favella. Ed ora potete andare. Addio.

Rientrò nella salettina, ove la vecchia signora, bianca e pallida, ci accolse di nuovo col suo buon sorriso.

La fanciulla mi strinse ancora la mano, forte, all'inglese:

– Addio, addio, andate ora.

E gentilmente mi sospinse pel cortiletto fino al cancello quasi sepolto fra le rose ed i carpini.

Prima che il cancelletto si richiudesse dietro di lei, ebbi il tempo di dirle ancora, in tono di affannosa preghiera:

– Vi prego, ditemi il vostro nome, almeno.

– Viviana, – ella esclamò, e con l'ultimo guizzo del suo sorriso chiuse il cancello.

Naturalmente, amici miei, non l'ho riveduta mai più, e la mia anima – quella strana – me la rievoca, talvolta, ne' suoi momenti di bizzarria.

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