IL SOLE DELLA RIVIERA.

Gianni era entrato al Sanatorio di Nervi in una giornata di febbraio. Nulla più egli ricordava di quel mattino invernale: se non che il sole luceva come di piena estate e che egli aveva un atroce dolore al petto dal lato sinistro, e lo assordava un grande martellamento alle tempie. Ricordava il sonno profondo che lo aveva còlto appena si era messo, tutto rabbrividente, tra le grosse lenzuola di bucato, odoranti di acido fenico. Poi ricordava anche, confusamente, la prima impressione delle spaziose camerate, gl'innumerevoli letti allineati, le tabelle, gli scoppi di tosse che dominavano ogni altro rumore, sempre, incessantemente, di giorno e di notte; i visi pallidi delle suore affaccendate nelle tuniche color di piombo. Sulle grandi vetrate si ostinava a battere il sole, e il mare che veniva a lambire a' piedi il Sanatorio, sempre agitato, rumoreggiava senza tregua, con un sordo brontolio di collera rotto da scoppi impetuosi che facevano tremare tutto il fabbricato. Così per due mesi; notte e giorno, solo orizzonte le camerate piene di luce e di lamenti e la lunga fila di letti pieni di visi pallidi; così per due mesi, notte e giorno, non potendo prender più sonno dopo quel primo letargo affannoso, durato parecchi giorni. Grande era stato quell'inverno la mortalità nel ricovero: il suo vicino di destra se n'era andato lesto lesto, il quarto giorno dopo il suo arrivo, e Gianni aveva assistito nella febbre al breve viatico, all'agonia dolorosa, e si era svegliato nel cuor della notte, all'improvviso, quando due infermieri lo portavano via, avvolto nel lenzuolo, tenendolo uno per il capo, l'altro pe' piedi. Egli si era nascosto rabbrividendo sotto le lenzuola e aveva pianto di paura, come un bambino.

Così passarono molti giorni, senza ch'egli osasse più guardare il letto a lato, sinchè una mattina si sentì chiamare. Era il nuovo vicino, venuto nella notte ad occupare il letto lasciato vuoto da quell'altro. Anche questi non aveva un viso da tirarla molto alla lunga: aveva un volto affilato, coperto da una breve barba ispida, cresciuta durante la malattia, e due povere braccia livide e stecchite. Si lamentava sempre di un gran dolore «al respiro» e talvolta era preso da lunghe ore melanconiche nelle quali piangeva come un bambino, chiamando la madre. E Gianni guardava sbigottito quell'uomo di trentacinque anni che piangeva chiamando la madre.

Altre volte pareva più sollevato e parlava del sole, del sole della Riviera; a cui venivano mandati tutti dai più lontani paesi e che doveva guarirli. Ne parlavano tutti, di quel sole, come di un farmaco infallibile e buon amico. Avevano in esso una fede cieca, assoluta. E il buon sole, biondo e allegro, continuava a scherzare sulle grandi vetrate, sopra quel mare che non si vedeva ma che faceva sentire la sua voce forte in ogni ora del giorno e della notte.

Ma un mattino, verso i primi dell'aprile, alla visita, Gianni si sentì dire dal medico che poteva cominciare ad alzarsi e che presto sarebbe passato nel reparto dei convalescenti. Guariva! dunque era vero. E lo doveva al sole della Riviera, che Dio lo benedisse sempre. I primi passi li diresse verso la grande vetrata che per tanti giorni aveva avuto di faccia in fondo alla camerata e che tanto aveva studiato nelle lunghe ore di letto.

Ne conosceva ogni linea, ogni riflesso, ogni giuoco e ogni venatura dei vetri. Voleva salutare il sole, suo benefattore, e poi vedere il mare, quel mare sempre in collera che mai s'era taciuto, nè giorno nè notte, e che gli aveva dato tanto da fantasticare. E il mare gli apparì azzurro e sereno, una immensa distesa quieta che si confondeva col cielo. Esso veniva a lambire gli scogli su' quali s'alzava il Promontorio, con piccoli baci di spuma candida. Quello non era il mare che aveva sentito nell'affanno delle lunghe notti di febbre. Era un mare allegro, tutta luce e buone promesse. Era il fido compagno del sole – il buon sole che guariva tutti – e giocherellava con lui come due buoni amici che vanno d'accordo e che se la intendono bene.

La settimana dopo, come gli aveva promesso il dottore, passò nel reparto dei convalescenti. Qui cominciò a stare quasi bene. Non più lamenti, non più scoppi di tosse che schiantavano il petto, non più viatici e rantoli di moribondi. C'erano delle camerate grandi e spaziose, tutte aperte al sole e piene della voce e dell'odore fresco del mare. Poi c'era il giardino, grande e ricco di alberi, e tutto gaio di fiori anche, da cui, da sopra un muretto, si poteva vedere tutta la cittadina, piena di alberghi, di villette e di grandi parchi. V'eran anche una quantità di sedili di ferro bassi e quasi soffici.

Vi venivano pure le donne, le ricoverate dell'altro braccio del Sanatorio, il reparto femminile. Si era quasi allegri, laggiù. I convalescenti passavano le migliori ore della giornata nel giardino, sotto la cura del sole, il buon amico, e guardavano il mare che mandava loro il suo alito pieno di vita e di salute. E si facevano conoscenze e si stringevano amicizie.

Gianni aveva stretto relazione con un vecchietto, dalla pelle color d'ambra smorta, spedito da un pezzo e che da tre anni ch'era colà aspettava per turno l'autunno, l'inverno, la primavera e viceversa senza decidersi mai ad andarsene. Egli diceva ridendo ch'era colpa del sole, di quel buon sole della Riviera, che non gli permetteva di fargli torto e non lo lasciava spiccare il gran volo. Scherzava sul suo male e aveva fatto le sue abitudini nel Sanatorio: ci si trovava ormai come in casa sua. Sapeva tutto, era informato di quanto avveniva là dentro, istruiva i nuovi, li consigliava, godeva una certa confidenza da parte delle suore e riceveva contento gli scherzi degli infermieri.

Gianni lo ascoltava discorrere a lungo, guardando la bella cittadina tutta ridente di luci e fiorata di giardini che si profilava sotto di lui in pieno sole.

Tra le ricoverate aveva notato una biondina giovane che se ne moriva lentamente di mal sottile. Aveva le mani di cera, il volto affilato, due piccole orecchie color di cenere. Gianni aveva scoperto ch'era del suo stesso paese e le aveva rivolto la parola in dialetto. La biondina lo aveva guardato piacevolmente sorpresa, aveva risposto nello stesso dialetto e avevano fatto così amicizia. Si videro molte volte nel giardino, vicino al muretto che guardava su Nervi. Egli le aveva raccontato la sua storia ed ella la sua, e così avea saputo come s'era preso il male al petto che la teneva lì dentro dal marzo. Dunque erano venuti insieme al Sanatorio! Una combinazione: stesso male, stesso tempo e stesso paese! Era ben contento lui di averla conosciuta: in due si sarebbero fatti meglio coraggio e sarebbero guariti più presto, no? giacchè bisogna guarire, perdinci! alla barba di tutti quei visi pallidi che dicevano che là dentro non ci si veniva che per morire! Bisognava raccomandarsi al sole, quel buon sole amico dei malati che fidano in lui: esso non tradiva.

Lei ascoltava sorridendo: forse sperava anch'essa. Quanto a Gianni era sicuro di guarire: la primavera con tutto quel sole lo aveva rinforzato di molto, non sentiva più nessun dolore nel respirare. Ed ogni giorno che passava non mancava di far constatare alla sua amica le prove della salute che sentiva ritornare nel suo corpo e i progressi ch'egli trovava nel viso di lei, che secondo Gianni cominciava a rifiorire a meraviglia. Però uno, due, tre giorni di seguito ella mancò al solito ritrovo: Gianni s'informò e seppe che aveva avuta una ricaduta. Cominciò a sentirsi anche lui di nuovo male e per due giorni non si alzò da letto.

Ma un bel mattino finalmente la vide di nuovo in giardino più cerea e più affilata che mai. Egli le fu subito vicino. Era tanto contento e tanfo commosso che non seppe lì per lì che cosa dirle e rimase un bel pezzo a sorriderle come un ragazzo. Poi, per la prima volta, le prese una delle manine color di cera e diaccia diaccia e la guardò negli occhi, ne' poveri occhi, l'unica cosa che le fosse rimasto di ancor vivo nel volto.

– Sapeste! mi avete fatto una paura, non facendovi veder più, a quel modo, per tanto tempo!...

Ella arrossì tutta e si voltò a guardare la cittadina, senza rispondere e senza osare guardarlo più in viso.

Così egli ricominciò a sperare più che mai e fantasticare sopra i suoi sogni di guarigione. Intanto la primavera passò: poi anche l'estate se ne fuggi rapidamente e l'autunno giunse ben tosto e con l'autunno molti dei ricoverati si prepararono ad andarsene per lasciare il posto ai nuovi che l'inverno avrebbe cacciato a dozzine nei letti delle camerate. Molti visi pallidi cominciarono a mancare. Fu un autunno cattivo: il sole imbronciato parve essersi dimenticato dei suoi malati, che pur gli erano stati sempre fedeli, e si fece veder poco. Tante speranze tenacemente nutrite si dileguarono: e il grigiore del cielo autunnale, insolitamente fosco, cominciò ad invadere le camerate del grande Sanatorio,

Si sentivano tutti morire, uno alla volta.

Non si lamentavano, non si disperavano: non rimproveravano neppure il sole, il buon sole della Riviera, che mancava così alle sue promesse. Sapevano che era il loro destino; eran là dentro per quello: per morire uno dopo l'altro, per lasciare il posto a quelli che sarebbero venuti appresso a loro. Giacchè questo degli altri, che sarebbero venuti dopo s'era fatta come l'idea fissa di tutti que' ricoverati. – Se non ce n'andiamo noi, dove si metteranno i nuovi? – Così diceva ogni momento, con la sua tossetta secca, il vecchietto dalla pelle color d'ambra. – Il sole è stanco di noi: aspetta quegli altri per ritornar fuori! Ma lui intanto non se n'andava mai!...

Anche Gianni cominciò a sentirsi dolere il petto più forte e farsi più faticoso il respiro. I suoi sogni di guarigione che l'avevano tenuto così fiducioso tutta l'estate cominciarono a sfumare come tutti gli altri, ora che il sole non voleva più saperne di essi.

Solo quel vecchietto maligno non cambiava d'un pelo, con la sua vocetta secca e le mani grinzose e tremanti! La biondina veniva ancora: un giorno sì e parecchi altri no, sempre più diafana e cerea; parea diventasse più piccolina a vista d'occhio. E in cambio il suo sorriso era più dolce che mai.

Finalmente scoppiò una bufera di vento fredda e violenta che scosse tutto il Sanatorio e durò tre o quattro giorni empiendo le camerate di rantoli e di agonie; poi dopo la prima rabbia, il mal tempo cessò per incanto e ritornò a splendere il sole, limpido e caldo, per l'estate di San Martino.

E nel frattempo la biondina se n'era andata. Un mattino il vecchietto che s'ostinava a non voler morire e che sapeva tutto quanto accadeva nel ricovero, disse a Gianni:

– Sapete? quella ragazza del vostro paese?... è morta stanotte alle due.

Egli non rispose, ma ripensò a quel suo vicino avvolto nel lenzuolo e ai due infermieri che lo portavano via per la testa e pe' piedi. Era una giornata meravigliosa di serenità e di luce: il sole sfolgorava adesso. Dalla parte della passeggiata a mare veniva la musica dell'orchestrina che suonava un valzer allegro che la lontananza velava di una dolcezza languida. Il vecchietto color d'ambra batteva la cadenza col suo bastoncello sulla ghiaia del giardino.

Poi Gianni guardò in su, verso il sole; inutile ormai.

Quella sera nella cappelluccia del Sanatorio egli pregò a lungo. La stessa sera egli si mise a letto deciso a non rialzarsi più. E ripensò ancora a quel tale suo primo vicino di letto. E come quella notte, nascosto sotto le lenzuola, rabbrividì a lungo, ancora.

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