IL CANTIERE MORTO.

Il morto Cantiere, era in piena attività – un vulcano di ferro e fuoco – nel '45. Vi si agitavano, allora, tra le vampe ardenti, il cigolar delle ruote, il frastuono infernale de' congegni e delle ferramenta, più di mille operai, pari a spettri seminudi, gocciolanti sudore. Il ferro arrubinato, la ghisa fusa dai bagliori fantastici e solfurei correva giorno e notte, a torrenti, dai forni della fonderia, e dalle fucine martellanti...

Ora, da dodici anni, il grande Cantiere è morto. I forni sono stati spenti, le vampe sono scomparse su per le gole annerite delle ampie caminiere, le ruote si sono arrestate, i volanti si sono immobilizzati; l'ultima ghisa uscita dai forni è rimasta a terra, gelida e morta, e tutti i mille spettri che già, come in una bolgia, si agitavano in quello che fu un inferno di ferro e di fuoco, sono tutti scomparsi, ingoiati qua e là da altre bolgie, da altri inferni...

Non tutti, veramente, però.

Uno solo, di essi, vigile e devoto, è rimasto.

Un vecchio guardiano, taciturno e malinconico, restato a guardia di quei ruderi di ferro di una vita fragorosa che fu. Egli vi passa le notti e le giornate intere, vagolando qua e là, seguito da due brutti mastini, suoi unici compagni di guardia al vecchio mondo morto, due brutti mastini che il silenzio e la solitudine han ridotti di una ferocia terribile. Egli vagola qua e là, pel vasto Cantiere, con una lanterna ad olio, nella notte, onde sorvegliare che nessun ladro – in questi nostri grandi centri di lavoro son troppo frequenti questi signori! – penetri nel silenzioso mondo abbandonato, per rubare la vecchia ghisa e i pezzi ancor buoni delle macchine dormenti.... Fu egli che mi guidò, l'altra sera, nella visita fantastica al vecchio Cantiere morto. Io lo osservava, davanti a me, avvolto in un antico scialle, senza colore, che gli serve per la notte, con in mano la sua fumosa lanterna ad olio, avanzante come un'ombra sul terriccio nero ed umido dell'immenso Cantiere addormentato. Il suo volto rugoso era pieno di peli grigi: gli occhi, a pena aperti, parean pieni di sonno, del sonno generale che imperava là dentro, che tutto s'era presa la vita di quegli enormi congegni giacenti e arrugginiti. Una figura strana e lontana da noi: lo spirito sintetizzato e raccolto, forse, nel vecchio operaio sonnacchioso, dei fragorosi e fiammeggianti spirìti che aveva animato un giorno que' colossi di ferro, vomitanti fiamme e faville...

Ed io, seguendo l'oscillante lampada del vecchio guardiano, m'aggirai tra quei mostri di ferro dormenti. Le grandi antenne arrugginite pendevano dalla nera tettoia; le già potenti motrici gettavano in alto certi loro assi smisurati; volanti colossali librati in aria, nell'immobilità rigida della sera, parean per una strana illusione rotare vertiginosamente, tanto da non percepirne più il movimento. La lampada del guardiano stampava qua e là, in quel regno del silenzio e della ruggine, lunghe chiazze di luce sfuggente, rivelando forme strane e bizzarre, sempre nuovi mostri giacenti, blocchi metallici coperti di paurose muffe. Ma quello che più m'impressionava erano le grandi macchine... Erano veri mostri immensi, dagli stantuffi colossali, piedi di ruote, di valvole, di sfogatoi inverosimili: tutte macchine d'antico modello, ora scomparse dall'uso, uccise dalle nuove perfezionate.

Pareva che que' nostri nonni meccanici e macchinisti, impressionati dalla potenza per loro nuova e terribile del vapore, sentissero il bisogno di tenerla prigioniera, personificarla, direi quasi, in forme grandiose e colossali, talvolta esagerate perfino e grottesche. Noi abituati ai nostri congegni moderni, agili e precisi, dalle forme minute e tenacissime che può assumere oggi il nostro acciaio moderno, pari a delicati congegni di orologeria, noi ridiamo di que' faragginosi macchinari de' nostri nonni, tutto ferro massiccio, dai fianchi poderosi di giganti tutto fumo e rumore... Non so perchè mi veniva fatto di pensare a certi guerrieri antichi, colossali nelle loro armature di ferro, dagli smisurati spadoni e dalle lance che toccavano il cielo. Mentre il nostro fantaccino è agile e minuscolo, ma armato del terribile fucile moderno...

Così, que' poveri mostri morti! Vedevo giacenti delle locomobili di forme bizzarre, lunghe sei, otto, dieci metri; stantuffi staccati e dormenti nel terriccio, al cui pari quelli de' moderni motori tutta forza e resistenza, sembran ninnoli in miniatura; ruote ferrate per cui occorrono dieci uomini a sollevarle, bracci metallici che si portavan via tonnellate di ferro... E tutto questo ferro, questi congegni mostruosi, quelle ruote dentate aveano pur avuto un'anima un giorno: un'anima fragorosa e sibilante, un'anima di fuoco che aveva fatto tremare quelle volte, que' muri, quelle tettoie annerite di fuliggine. E quell'anima era stata tenuta viva da vulcani di fuoco e di vampe, e avea prodotto torrenti di lave incandescenti, di cui io calcava ancora le ultime scorie sotto i piedi, nel fango umido per l'abbandono che formava ora il pavimento del vecchio Cantiere.

Migliaia di operai neri e sudanti avevan dato alimento, giorno e notte, a questi esseri tutti palpiti poderosi e frastuono. E adesso non sono altro che inutili cadaveri, rosi lentamente dal tarlo del ferro, che è la ruggine rossastra, che mangia lentamente le fibre più compatte e resistenti. E il Cantiere n'era il cimitero – vasto cimitero che aveva, nella notte, qualcosa di più sinistro e grandioso che non quello degli uomini – poichè in quello degli uomini noi pensiamo sempre, anche dubitando, che ivi è raccolta solo una parte dell'essere che fu, il solo corpo, mentre, certo, l'anima è altrove. Invece, in quel cimitero di ferro, noi riflettiamo che tutto di que' giganti giacenti è lì, irrigidito per sempre: l'anima e il corpo...

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