IL MIRACOLO DI SAN FABIANO

Poi che la serva di Don Pietro, fattasi quietamente alla porta dello studio, ebbe sentito che i due preti non parlavano più, socchiuse l'uscio, mise discretamente la testa dentro e domandò al padrone:

– Dove devo preparare il letto per don Mauro?

Don Pietro, dopo averci pensato un poco su, le rispose:

– Nella stanzina presso la camera dei libri... – (don Pietro, come si vede, non aveva il coraggio di chiamarla «biblioteca» e n'avea le sue buone ragioni). – Là don Mauro si troverà bene... avrà di che leggere, quando tarderà a pigliar sonno.

– Del resto – aggiunse ancora rivolto alla donna – del resto il nostro caro don Mauro lo sa bene che dovrà adattarsi...

– Oh, don Mauro – notò la loquacissima serva – conosce bene il luogo!... luogo santo, sì, è vero, sia detto con tutta la venerazione per San Fabiano, nostro protettore, ma tutto sassi, con cielo sopra e mare sotto... sassi, cielo e mare, sì, quanto ne vuole, ma niente di più!...

Don Mauro dal troppo, per lui, capace seggiolone ov'era a mezzo sepolto, protestò vivamente col suo sorriso di pretino timido alle parole della verbosa Perpetua.

Don Pietro, allora, fatto cenno alla sua serva che li lasciasse tranquilli, si rimise a frugare in un certo suo scartafaccio che avea davanti, sul tavolo.

La serva, prima di ritirare la testa, data una rapida occhiata al genere di carte che il suo padrone stava cavando fuori dal ventre prominente dello scartafaccio, fece un comico e significativo gesto a don Mauro che questi subito perfettamente interpretò: «Siamo allo scartafaccio? oh, povero don Mauro! sta fresco davvero adesso! per un buon paio d'orette non la scappa più!»

Nello studiolo quieto i due preti rimasero di nuovo soli, La modesta cameretta di don Pietro, che gli serviva da studio, era in quel momento illuminata soltanto dalla luce scolorita che il triste tramonto d'una giornata senza sole mandava sino al buon prete per il mezzo della unica finestra dai vetri appannati, malgrado, le solerti cure della serva, per inesorabile vecchiaia.

Don Pietro sedeva al suo tavolo, sotto il grande crocifisso di legno nero, su cui il Redentore di osso ingiallito minacciava liberarsi da un momento all'altro dalle viti ormai consunte dalla ruggine per venir a cadere sulla testa del suo parroco che si occupava un po' troppo delle cartacce d'altri tempi. Davanti a lui, difatti, sul tavolo non v'eran che di queste cartacce gialle e libracci legati in pergamena e mangiati dalla polvere e da parecchie generazioni di tarli. La sua alta, ossuta figura, tutta nervi, e la sua testa tutta bianca ma giovanilmente eretta, contrastavan singolarmente con la testina piccola e nera e la personcina umile dell'abatino, del tutto sepolto ormai nella troppo ampia poltrona ove lo aveva inchiodato don Pietro per farlo partecipe della strana idea che gli s'era fitta in capo consultando un certo vecchio manoscritto che ora aveva cavato fuori per farlo vedere a don Mauro – lo stesso scartafaccio che aveva suscitato la pietosa mimica della serva.

Don Mauro, il giovane abate, era venuto a passare una settimana di pace e di quiete spirituale a San Fabiano, la romita cura di don Pietro, il dotto ma un po' bizzarro sacerdote, di cui l'abatino ammirava sin da' primi suoi anni di vocazione la fede profonda e illimitata e di cui paventava lo spirito originale e strano, pieno di scappate improvvise e inquietanti per l'anima quietissima del giovane prete.

Però egli amava sinceramente don Pietro, e rompeva volentieri, quando lo poteva, la vita suo malgrado romorosa della grande città ove era destinato a vivere contro la sua inclinazione, con qualche giorno di vera quiete nel caro romitorio di don Pietro.

Quel San Fabiano... oh, quello sì che sarebbe stato il suo ideale! Una Cura di un paio di migliaia di anime, tutti contadini e pescatori, che si spargevano pei campi tutto il giorno o prendevano il largo in mare il mattino all'alba per tornare la sera, dalla pesca!

San Fabiano era un vecchio oratorio sulla cima di una di quelle ripide colline liguri, che scendono giù diritte sino al mare: una specie di Faro benedetto che i pescatori della riviera venerano per i miracoli compiuti dal Santo dalla vetta dominante il mare col suo lumicino sempre acceso, per una vecchia tradizione rispettata. E quante storie quell'oratorio campato là in alto, tra i due azzurri, e quel lumicino vivido nella notte!... Lo scartafaccio che stava sfogliando don Pietro in quel momento ne sapeva qualcosa.

– Ecco qua, ecco qua... eureka! – prese a cantare il vecchio prete fermandosi ad una pagina del decrepito manoscritto – ecco qua il fatto nostro, caro don Mauro. Sentite.

E don Pietro prese a leggere.

Era l'originale narrazione di uno dei tanti miracoli, che si somigliavan quasi tutti, compiuti dall'Oratorio: scritto in un volgare grosso del decimosesto secolo. Si trattava di una vecchia cronaca della chiesa scritta con molta pazienza e molti strafalcioni da qualche vecchio priore dell'Oratorio, il quale nella sua infinita modestia s'era dimenticato di ricordare sullo scartafaccio il suo nome e la data, oltre a varie altre piccole dimenticanze grammaticali.

Il buon prete cronista dopo una divota e fervente invocazione celeste veniva a narrare come e qualmente in una tenebrosa notte del gennaio – in quale sicuro anno del millecinquecento ei non precisava – sendosi scatenata una «horribile e furiosissima tempesta» sì che pareva «tutte le demonia si fossero scatenate» una povera barca che in alto mare ne andava, colta allo improvviso da una raffica più furiosa delle altre «haveva perduto ogni governo d'huomo et era ormai nelle sole mani di Dio» e correva all'impazzata in alto mare, nella nebbia nera che faceva un buio sì fitto che nulla poteasi scorgere a due dita dal volto. Erano nella barca, oltre il navicellaio nativo de' dintorni di San Fabiano, un altro marinaio, un giovane mozzo quindicenne «et un rinomatissimo dipintore ch'aveva nome Pierino del Vaga» i quali assistevan così, tremanti e bagnati dalle onde e dalla pioggia diacciata, alla corsa in perdizione della misera loro navicella. Invano il navicellaio, ritto a prua, cercava con gli occhi nel buio fitto un lume, un chiarore qualsiasi che gli potesse dare indizio di spiaggia, e del dove «le demonia» li conducessero, per i loro peccati, a finire così a precipizio. Ma nulla: nient'altro che il fitto nebbione maledetto che tutto copriva col suo infernale nerume. Il navicellaio con i suoi compagni pensò che unica cosa ormai che rimanesse a fare era raccomandare l'anima a Dio: e divotamente si segnò e cominciò a recitare le sue preghiere.

In quel momento il pittore «anima divotissima» ebbe un'inspirazione. Ritto in piedi in mezzo alla barca, senza berretto, portatogli via da uno sbruffo di vento, bagnato dalla testa ai piedi, egli innalzò in cuor suo una ardentissima preghiera a Dio, facendo voto che se lo avesse tratto da quel mortale periglio egli avrebbe dipinto a sua maggiore gloria il più bel dipinto di sua vita.

Proprio in quell'istante il navicellaio scorge un lume; un lumicino velato dalla nebbia, che solo al suo occhio esperto ed esercitato non può sfuggire. – Ma è il lume di San Fabiano! – grida egli che ha riconosciuto il luogo. Dopo cinque minuti la barca entrava nella rada: era salva. I quattro scampati si recarono subito all'Oratorio a ringraziare il Santo dello scampato pericolo; quindi il pittore allogatosi nella foresteria dell'Oratorio si accinse a mantenere il voto fatto in quella notte tremenda; difatti dipinse un bel gonfalone con il Santo in gloria: lavoro reputato preziosissimo e con grande cura venerato tutt'ora.

– Ma non basta – proseguì a questo punto don Pietro – Pierin del Vaga non si contentò di dipingere in onore di San Fabiano il bellissimo gonfalone: donò anche alla chiesa un'altra minutissima e preziosa sua opera. Dipinse cioè alla maniera dei trecentisti la coperta del messale della chiesa: ed eccone qua la descrizione.

Dalla lettura della descrizione risultò a don Mauro come qualmente la miniatura del devoto e rinomato pittore dovesse essere veramente un'opera pregevole e rara.

– Ora – rispose don Pietro –questa coperta di messale qua nell'Oratorio non esiste più: ne ho fatta ricerca da per tutto, ho rovistato ogni angolo, in ogni stanzino, in ogni buco: non c'è veramente, è proprio scomparso. Ora io voglio ritrovare questo tesoro perduto e restituirlo all'Oratorio.

E guardò con occhi sfavillanti l'abatino.

– Aveste per caso qualche traccia?... – chiese costui, tanto per dir qualcosa.

– Sul dove poterlo trovare, volete dire, don Mauro?... Sì e no. Cioè, ecco, io suppongo che tanto lontano da qui, da questi paraggi, non debba trovarsi certamente...

E qua spiegò come si fosse fitto nella sua mente il dubbio che il tesoro sottratto, come e quando non si poteva sapere, a San Fabiano dovesse trovarsi discosto, in un famoso convento di benedettini bianchi, il cui maestoso convento, assai noto in Liguria anche per soggiorno di re storici, si scorgeva distintamente dalla povera collinetta dell'Oratorio, tutta «sassi, mare e cielo». Ma que' frati avevano molta gelosa cura nel tener celati i loro tesori, e a don Pietro non era stato possibile in alcun modo penetrare sin là dentro ove il mistero, secondo lui, doveva celarsi.

Ma prima o poi sperava riuscire, e San Fabiano avrebbe riavuto il suo Messale!... E avrebbe fatto la luminaria, per l'occasione; Anzi, lo prometteva sin d'ora solennemente all'amico don Mauro.

E a questo punto don Pietro si alzò e disse allegro:

– Andiamo dunque a pranzo, mio caro don Mauro.

Il pranzo trascorse lieto, cordiale e come tutti i pranzi di don Pietro parco e frugale. L'unico lusso che il priore di San Fabiano si concesse quella sera in onore dell'ospite fu una veneranda bottiglia che recava su le spalle alta un dito la stessa polvere all'incirca che rendea prezioso il cinquecentista scartafaccio prediletto da don Pietro.

Poi siccome la notte era calata rapidamente e don Mauro dovea esser stanco pel viaggio, il priore accompagnò l'abatino nella cameretta preparatagli dalla loquace servente. Per recarsi in essa i due preti dovettero attraversare la famosa «camera dei libri» come soleva chiamarla don Pietro. In questo vasto stanzone, senza mobile alcuno, dormivano alla rinfusa per terra, accatastati e polverosi, i vecchi libri della già Biblioteca dell'Oratorio, crollata un bel giorno per vetustà, oltre i nuovi che i predecessori di don Pietro avevano accumulato per conto loro. E qui il priore si credette in dovere di far noto a don Mauro come il suo venerando predecessore, un sant'uomo sì, ma un tantino bizzarro, aveva una sola grande debolezza: i libri antichi. E questa sua passione la rivolgeva a qualunque genere di libri, purchè fossero veramente antichi e di costo: il sant'uomo passava sopra al contenente purchè il contenuto recasse una data preziosa e una firma di stampatore autorevole. Perciò in quella catasta di libri da lui lasciata don Pietro aveva scoperto molti tomi che, s'erano rispettabili per vecchiaia, non lo erano certo per modestia e pudicizia cristiana: parecchi anzi, a dire il vero, erano tutt'altro che adatti ad essere ospitati nelle sante mura di un Oratorio come quello. Ed accennò in particolar modo ad una certa (assai rinomata tra i bibliofili) edizione di ser Giovanni Boccaccio...

– Un libro dannato, quello! stesse attento don Mauro a non lasciarselo venire inavvertitamente fra' piedi. Il libro del diavolo!...

E spiegò come ad esso fossero legate sei tavole a matita, originali, molto di valore per quanto d'ignoto autore, ma spaventosamente... senza pudore. Era meglio non parlarne troppo – concluse don Pietro. E dicendo queste parole aveva un sorrisetto un po' arguto sulle labbra sì che il timido don Mauro, un poco confuso, dovette senza volerlo abbassare gli occhi.

– Buon riposo, dunque, don Mauro! e il Signore sia con voi – si licenziò don Pietro e lo lasciò solo nell'angusta cameretta.

Don Mauro dette un'occhiata intorno e convenne subito che la loquace servente del priore aveva fatto del suo meglio per cercar di rendere il meno possibile disagevole il bugigattolo che il buon don Pietro nella modestia grande del povero Oratorio, gli avea destinata come camera di riposo. Vide a fianco del letticciuolo, un vecchio inginocchiatoio, ragionevolmente tarlato, con suvvi un bel Cristo in osso del secolo passato. Don Mauro vi s'inginocchiò e recitò le sue preci. Poi levatosi, prima di coricarsi, si fece alla finestra dai cui vetri senza imposte egli intravedeva vagamente, nella notte, il mare. Si affacciò. La nuvolaglia che aveva fatto triste il tramonto s'era dissipata e don Mauro sprofondando lo sguardo in basso, giù pel dirupo sassoso che erto e selvaggio precipitava alla spiaggia, si vide davanti sino all'orizzonte la distesa susurrante del mare. Il cielo nero scintillava di stelle e la distesa tranquilla piena di indistinti luccicori mandava sino a lui, con la leggera brezza notturna, il suo alito salino.

E don Mauro ristette rapito, davanti allo spettacolo quieto e solenne, godendo tutta la dolcezza e la commozione, che nella mite sua anima religiosa, diffondeva quel quadro per lui insolito. E il suo pensiero salì a Dio...

Chiusa la finestra in breve fu nel lettuccio. Ma il sonno tardava a venire. I pensieri, le imagini che sino a quel momento aveano colpito il suo cuore persistevano vivaci nella sua mente e gl'impedivano di prender sonno. Passò una mezz'ora così, voltandosi e rivoltandosi nel letticciuolo finchè, convintosi che il sonno per allora non accennava in alcun modo di volerlo accogliere fra le sue braccia, riaccese la lampada. E pensò, per distrarre e stancare la mente, di prendere qualcosa da leggere nella famosa catasta di libri del vicino stanzone.

La sua apparizione nella bolgia dei vecchi libracci cagionò una precipitosa fuga di minuscole creature brune e stupite che prima d'imbucarsi si fermavano un istante, figgendo i loro avidi e spauriti occhietti sulla inaspettata visione venuta a turbare le loro consuete notturne operazioni. Don Mauro prese dalla catasta, a caso, due vecchi tomi rilegati in pergamena e se ne tornò al letticciuolo.

Cominciò ad aprire uno dei vecchi libri, il più piccolo, e lesse: «Le Sette Trombe per isvegliare il Peccatore a penitenza et il di lui conforto per rallegrarlo dallo spaventevole suono di esse... In Lucca, per i Marescandoli, 1707». Lo chiude tosto ed apre il libraccio. Scorre alcune pagine: avvicina bene gli occhi, se li stropiccia, volta un'altra pagina e vede...

– Gesummaria! – grida sbigottito.

Corre al frontispizio e legge: «Il Decameron sì come lo diedero alle stampe, ecc... ecc.» Il dannato libro di cui gli ha parlato don Pietro!... Evidentemente era un tiro del diavolo. Don Mauro apre le dita, lascia cadere il diabolico volume il quale va a rotolare pesantemente sino nel mezzo della stanzuccia. Don Mauro rimane alquanto perplesso e, in fondo, spiacevolmente seccato dalla noiosa combinazione: poi pensa che è meglio riportare subito l'infame libro dove lo ha preso (gli appare come un lampo l'arguto sorriso sulle labbra di don Pietro) perchè nessuno venga a sapere della curiosa avventura.

Si alza, raccatta il libraccio e... all'incerto chiarore della lampada egli scorge uno strappo (forse fattosi cadendo) sulla pergamena della coperta del libro: sotto lo strappo, come un rapido guizzo improvviso colpisce i suoi occhi... Accosta il libro al lume. Don Mauro si guarda intorno quasi per accertarsi che è ben solo. Possibile? è un sogno? un'illusione? un altro tiro del demonio?

Quasi senza volerlo slarga febbrilmente lo strappo, porta via d'un pezzo l'intero foglio di pergamena che ricopre lo spesso cartone della coperta... E getta un grido. Nitido, fresco, meraviglioso nel suo oro e nelle sue vivide tinte appare un piccolo capolavoro di colori e di luci: una miniatura.

– Gran Dio! – e don Mauro alza gli occhi al cielo: è la scoperta del Messale del Pierin del Vaga, la fissazione, il sogno di don Pietro!...

Riavutosi dalla sorpresa l'abate pensa alla maravigliosa stranezza, del caso. Come mai tanto tesoro è andato a finire sotto la copertina d'un tal libro scomunicato? Evidentemente questo fatto ha una storia: forse è lo stratagemma di qualche vecchio priore dell'Oratorio per sottrarre il tesoro dalle rapaci mani di qualcheduno che minacciava trafugarlo... Non può essere che così. Ma intanto un fatto è certo: egli, don Mauro, è riuscito a scoprire ciò che 'l buon don Pietro da tanto tempo si affannava invano a cercare! Come sarà felice domani, don Pietro, quando saprà della meravigliosa scoperta!...

Don Mauro nella sua gioia è però colpito all'improvviso da un'idea: una rapida, triste, maligna idea. Per far noto a Don Pietro la sua scoperta dovrà pur presentargli il libraccio, il Boccaccio con le sue scomunicate figure, su cui la miniatura è fortemente unita, e dalla quale non si può separare, per non sciuparla, senza un lungo e delicato lavoro. E don Mauro rivede l'arguto sorriso del bizzarro suo superiore.

– Un libro dannato, don Mauro! statevi attento che non vi venga tra' piedi: un libro dannato!...

Le parole di don Pietro gli risuonano chiare e beffarde all'orecchio.

Come fare a dirgli il modo non cercato con cui gli è, appunto e per fortuna, venuto tra' piedi?... Egli non lo crederà, in cuor suo, e penserà...

Ahimè! don Mauro n'è tutto turbato. Che fare?... Gettare di nuovo il libro nella catasta e lasciare che lui, don Pietro, venga a fare, quando capiterà, la preziosa scoperta?... Ah, no! perchè togliergli quella felicità così vicina, così immediata?...

Don Mauro si volge e rivolge sul letticciuolo, divenuto di spine.

Davanti a lui, sulla seggiola, la meravigliosa miniatura cinquecentista sfolgora co' suoi rabeschi di porpora e d'oro alla luce della lampada.

E il riposo per quella notte è bell'e perduto per don Mauro.

Verso l'alba un breve torpore pesante cala per un momento sulle palpebre stanche dell'abatino: ma è un breve sonno agitato e tormentoso. Sogna di sfogliare le pagine proibite, ove mille figure scorrette di demoni gli fanno boccacce infernali mentre don Pietro e la servente ridono a crepapelle beffandolo dietro le spalle.

Riapre di soprassalto di occhi... Qualcuno ha bussato alla porta.

– Don Mauro – dice la voce del priore dietro l'uscio – sono io: vi sentite male?... sono quasi le dieci e mezza e non vedendovi ancora levato...

Don Mauro con voce fioca mormora:

– Entrate, don Pietro, venite avanti, ve ne prego....

E il priore apre e s'inoltra.

– Siete malato? – dice egli, guardando stupito e perplesso l'abatino in letto, pallido e smunto per la lunga notte insonne.

– Ma guardate dunque, don Pietro, guardate! – dice don Mauro con un filo di voce, e gli accenna il Boccaccio posato sulla seggiola.

Don Pietro si accosta, prende il libro, guarda...

Manda un vero urlo di gioia.

Guarda, riguarda, fa scintillare alla luce la miniatura: ha compreso, l'ha riconosciuta – si slancia sul letto al collo di don Mauro e l'abbraccia e lo bacia come un forsennato, senza poter dire parola....

La servente è accorsa agli urli del suo padrone ed ora guarda stupita, ritta sulla soglia: ella non riesce a capirvi nulla.

Finalmente i suoi occhi cadono sul vecchio Boccaccio che il padrone ha posato in piena luce, sopra l'inginocchiatoio. Lo riconosce subito (lo conosceva bene!...) e grida:

– Il libro del diavolo!...

E si mette a ridere senza ritegno alcuno. in faccia al povero don Mauro, pallido e tutto scarmigliato, sul guanciale scomposto...

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