Una visita.

Mentre il treno, che avea corso, agitato e fremente, tutta la notte, entrava ora in una grande valle verde e tutta luminosa pei primi raggi del mattino, io consultai il tacquino ove il nome dello sconosciuto paesello del quale andava in cerca m’era stato tracciato dalla mia buona amica.

— Deve essere qua.

E la mia mente corse ancora alla scena straziante che tante volte la mia buona amica mi aveva rievocata con sì dolorosa vivezza. Vedeva il treno corrente, come ora, nella valle verde e luminosa pei primi raggi del mattino, dopo aver fremuto tutta la lunga notte nel buio misterioso; nello scompartimento rischiarato dalla prima luce del mattino il povero bimbo biondo, pallido e smorto, dalla bocuccia contratta e l’occhio vitreo, abbandonato sulle ginocchia della madre disperata e smarrita; i pochi viaggiatori intorno alla povera madre e al bambino morente: sgomenti, agitati, che non sanno che fare. Il treno si ferma un istante dinanzi alla bianca stazioncina di quel primo paesello, sconosciuto a tutti, che sta svegliandosi come un bimbo felice nella sua conca verde ai raggi del sole: la povera madre tremante vien fatta discendere, alcuni pietosi han preso il bambino che muore e delicatamente lo portano nella sala della stazioncina, lo collocano sul primo divano. Tutti le sono intorno, nessuno osa dirle nulla. Ai finestrini del lungo treno, che freme sordamente, è un affollarsi di visi trasognati, svegliati dal sonno della notte recente. – Che è? perchè si è fermato il treno? che cosa è stato? – Un bambino che muore; gli ha preso male in treno; forse è già morto. – Povera signora! – Povera madre! – Qualcuno ai finestrini sente spuntare una lagrima.... Ma non c’è tempo da perdere. Un fischio acutissimo. I ferrovieri invitano frettolosamente i viaggiatori a riprender posto nel treno che parte. – Facciano presto, si è in ritardo! – I viaggiatori rientrano: un nuovo fischio; la nera massa fremente si agita, si cozza, si muove, riprende la fuga.... Addio! tutto è finito: i viaggiatori tornano al sonno interrotto portando seco, al paese dove andranno, il ricordo del triste quadretto di dolore che han vissuto per pochi momenti.

Intanto nella piccola sala della stazione il bambino agonizza. Hanno portato dei cuscini, è discesa la moglie del capo stazione, è accorso un medico. Tutti sono intorno ai due infelici. La povera madre, bianca come cera, si stringe al cuore il suo angioletto biondo, muta, agitata da un tremito convulso. Il povero piccino è là, sul lettuccio improvvisato, livido, smorto, gli occhi sbarrati, senza luce. – Che cos’è mai stato, mio Dio? – La madre risponde come in sogno: – è partito bello, sereno, ridente.... nella notte.... nella notte.... all’improvviso.... così.... ed ora muore! – Ora muore, ecco tutto, ora muore! Questo solo sa dire la povera madre, come in sogno. Ora muore!... E intanto fuori della lugubre saletta la stazioncina bianca, il paesello tra il verde, la collina ride: ride tutto sotto il sole gaio del mattino.

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Questa la scena che tante volte la mia buona amica mi aveva rievocato, con gli occhi ancora pieni di lagrime, con la stessa passione nella voce. Il bambino era stato seppellito lassù, nel cimitero del paesello bianco, tra il verde, sotto il sole gaio che ne baciava la piccola tomba. Il curato del villaggio aveva promesso alla signora che si sarebbe preso la cura di sorvegliare che non mancassero mai, sulla piccola tomba, i fiori pe’ quali la buona mamma spediva ogni mese del danaro al custode del cimitero. Dovendo ora io, nel mio viaggio di diporto, percorrere la linea ferroviaria che passava pel paesello, la mia buona amica mi aveva pregato di discendere alcune ore, fare una visita al suo caro morticino e iniziare intanto con il curato le formalità per poter ritirare la piccola salma, che la signora voleva avere vicino a sè, nel cimitero di Milano.

Quando discesi alla piccola stazione del paesello, tutt’ora quasi ignoto alla maggioranza degl’italiani, la valle ed il villaggio, nascosto nel verde, ridevano come quel mattino, nella luce del primo sole. Mi fermai un istante, sul marciapiede, davanti al lungo treno nero che ripartiva: io riviveva quel mattino. Poi volli entrare nella saletta d’aspetto, vuota e silenziosa, e mi tolsi il cappello religiosamente, commosso. Mi parve di sentire aleggiare ancora nell’aria quieta il Dolore ineffabile della povera madre. Uscii fuori. Che pace, che quiete, quanto verde e quanta luce! Il paesello bianco in mezzo agli alberi, sotto il cielo azzurro, allontanava l’idea della morte. Faceva sognare piuttosto un angolo privilegiato per due anime innamorate e desiose di quiete e di luce.

Mi feci indicare la casa del curato e andai a bussare alla sua porta. Il buon curato era nel suo orto: aveva finito allora di dire la messa del mattino ed era corso a dare un’occhiata ai suoi cavoli ed alle sue insalate. Quando seppe lo scopo della mia visita, mi strinse le mani forte e mi disse: – Andremo insieme. – Intanto mi offerse di dividere la sua frugale colazione di latte. Accettai commosso. Egli fece venire la sua Perpetua, un colosso di contadina del paese che mi guardava con tanto d’occhi stupiti; fece portare la sua piccola tavola nell’orto, sotto una grande pergola di vite, di foglie di popone e di zucche intrecciate per aver ombra e mi fece venire il latte, il suo latte frugale del mattino. Il pane era di quello grigio, color della terra, che si mangia in campagna, il forte e sano pane dei contadini.

Spirava tale rustica semplicità, tanta pace sì mite e serena, sotto quel bizzarro pergolato di vite e di zucche, in quell’orticello popolato di conigli e di galline, zeppo di verdura, che io, fresco della grande città, guardava tutto, stupito come se mi trovassi in un mondo nuovo.

Durante la breve colazione ricordai al buon prete il doloroso avvenimento pel quale mi trovavo in quel momento colà.

— Povera mamma! – mormorò, commosso il buon curato. – Se ne parla ancora da tutti, nel paese.... Ma vedrà, vedrà – concluse egli – ora non le dico nulla.... vedrà da lei, tra poco.

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Terminata la colazione prendemmo la via del cimitero. Esso sorge fuori del paese sopra una collinetta: vi si giunge con una stradella selvatica, fra bosco e campo, che va salendo, intorno alla collina. Vedeva dal basso della stradella che va serpeggiando tra i macchiuoli e i castagni, il bianco muricciuolo del camposanto e distingueva la grande croce di ferro che v’è piantata nel mezzo. Il paesaggio, come m’era apparso al mio arrivo, era tutto sereno e ridente. Ci passavano vicino i contadini che salutavano il curato e mi guardavano curiosamente. Capivo bene che la mia presenza doveva essere un avvenimento per quel paesello, tanto poco conosciuto, che riceveva, a dir molto, una o due visite di faccie nuove a l’anno.

— Troverà ben piccola cosa il nostro povero camposanto – mi diceva il curato – ma che vuole? si muore così poco in questi beati paesi tutto sole e verde!...

Poi mi disse del morticino che andavamo a visitare. Il fatto del povero piccino morto in treno, lontano dalla sua casa, sulle ginocchia della madre, aveva, com’era naturale, occupato per molto tempo il cuore e la pietà di que’ contadini, la cui vita semplice e monotona era ben di rado turbata da avvenimenti così commoventi. Tutti conoscevano la piccola tomba con la bianca lapide spedita dalla mamma da Milano, e il giorno de’ morti – diceva il buon curato – tutte le buone donne portavano al camposanto un fiore anche pel tumoletto del povero signorino, come lo chiamavano.

Sulla collinetta, un poco prima del muricciuolo bianco del camposanto, era il casolare del guardiano, un bravo contadino che avendo ben poco da fare nel suo piccolo campo benedetto, se ne andava tranquillamente tutte le mattine a lavorare nei campi. Difatti quando entrammo nel casolare non v’era che la moglie. Vedendo il curato la buona donna ci venne incontro, volgendo verso di me certe occhiate alquanto sospettose. Ma quando il buon curato le ebbe detto: – Maddalena, viene da Milano per visitare il signorino – la buona donna mi sorrise commossa e confusa mi porse una seggiola. Poi fattasi alla porta chiamò forte, verso al camposanto: – Marietta! – E una bella ragazzina bionda corse saltellando verso di noi. Quando fu sulla porta si fermò rossa e confusa, poi andò a baciare la mano del curato, guardandomi di sottecchi, un po’ timorosa.

— Ecco la guardiana del signorino – mi disse sorridendo il curato, accarezzando la testina bionda della bimba.

Lo interrogai collo sguardo.

— Venga con me – disse il curato.

Ci alzammo e ci avviammo verso il beato camposanto, così poco usufruito da que’ felici contadini. Oh! era ben piccolo il camposanto ove dormiva in pace il signorino! Quattro braccia di terra, piena di erbe in fiore, in mezzo alle quali a mala pena si distinguevano tre o quattro piccole croci nere. Però il tumoletto del signorino mi apparve subito. Era nell’angolo più in luce: e la piccola lapide bianca che la mamma pietosa aveva mandato al suo morticino da Milano, era piena di fiori freschi, colti il mattino stesso. La piccola croce di ferro riluceva al sole e pareva di argento.

— Tutto opera di Mariettina – mi spiegava il curato sorridendo. – Vede? È lei che si è affezionata al tumoletto del signorino, e vi porta tutte le mattine i fiori freschi, e ne tiene pulita la croce e toglie le erbacce che sbucano tra le commessure della lapide. Oh se gli vuol bene al suo morticino, la Mariettina! Non è vero, biricchina?...

Mi sentivo commosso.

La bella ragazzina bionda s’era seduta sul tumoletto e sembrava veramente uno di que’ angioletti custodi che ci descrivevano le nostre mamme da bambini. E il curato mi spiegava come il padre, guardiano del piccolo cimitero, volendo corrispondere puntualmente alle preghiere della povera madre, la mia buona amica, perchè avessero cura della tomba del suo morticino, non aveva trovato di meglio che affidare quest’opera pietosa alla sua ragazzina. Il curato mi diceva ancora come la piccina si fosse tanto affezionata al tumoletto affidato alle sue cure, che non ne la potevano staccare. Se la curava come una piccola mammina o meglio come uno di quegli angioletti che ho detto.

Intanto la piccina col visino basso, s’era attaccata alla tunica del buon prete e mi parve gli sussurrasse qualcosa.

— Che cosa dice? – chiesi.

— Oh! signore – fece il prete commosso – vuol sapere se è venuto proprio davvero per portarle via il suo morticino....

Non seppi contenermi e presa la piccina tra le braccia la tempestai di baci.

— No, non temere, angioletto – le mormorai estremamente commosso – il morticino è tuo e dirò alla sua povera mamma che lo lasci sempre a te.... in nessun altro luogo egli riposerebbe mai così in pace come qui, sotto la custodia d un angioletto come te!...

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Il piccolo camposanto era pieno di roselline selvatiche. Ne feci un mazzolino e vi misi alcuni dei fiori ch’erano sulla tomba del signorino.

— Sono per la sua mamma – dissi alla bambina.

Allora ella colse una bella rosellina bianca con le sue manine e mi disse:

— Mettivi anche questo.

La presi di nuovo tra le mie braccia e la baciai e ribaciai, dicendole:

— Questi sono da parte della mamma del signorino....

Il buon prete sorrideva commosso.

Detti ancora uno sguardo intorno. Che pace, che calma, che sereno di cielo e che quiete di verde e di luce! Il sole baciava la piccola tomba bianca e tutte le erbe del piccolo prato benedetto le ridevano intorno.

Quando scendemmo in paese m’accorsi che s’era sparsa la nuova ch’era arrivato «un parente» del signorino. Tutti mi guardavano curiosamente e commossi, le donne mi salutavano con gli occhi umidi e gli uomini mi sorridevano benevolmente.

Prima di ripartire, mentre il treno già mi rumoreggiava dinanzi, nero e fremente, per ricondurmi di nuovo tra il frastuono della mia vita d’ogni giorno, volsi ancora uno sguardo alla bella collina serena, tutta verde e quiete, ove dormiva così in pace e tanto amato il povero signorino. E mi parve quasi vagamente d’invidiarlo, in quel momento.

Fine.

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