Lo Stagno delle ninfèe.

Lo Stagno delle ninfèe che è proprio nel mezzo della Villa della Quiete ha intorno un breve praticello di erba novella, che, ora, sotto la diafana nebbia della luce lunare, ha gli steli di argento. Intorno al praticello de’ fili argentei, che la lievissima brezza notturna fa ondeggiare, è la densa muraglia degli arbusti e de’ grandi alberi della villa, neri nella notte, e tanto fitto ne è l’intrico dei rami che la luce lunare non vi filtra neppur uno de’ suoi fili d’argento. Però il praticello e lo stagno ricevon così, da soli, tutta la bianca luce che piove dal molle cielo colore del latte. Lo Stagno, si è detto, è proprio nel mezzo del praticello ed è, tutto all’intorno, circondato da piccole roccie che cadon nell’acqua dormente, verde lungo il giorno, ora color della perla, sotto il bacio della luna. Le ninfèe che allo stagno danno il nome, dormon quiete ancor esse, con le loro grandi foglie che si dondolan dolcemente sull’acqua perlata, intanto che le piccole teste di neve dei loro fiori son reclinate sotto di esse, verso il fondo dello stagno, luminoso d’iridiscenze argentine. Tutto dorme all’intorno; le fide Amadriadi de’ vecchi alberi non sussurrano più fra di loro, come solitan fare lungo il giorno, narrandosi i sogni del Poeta padrone della Villa della Quiete, sogni, ch’esse proteggon, il giorno, sotto le vecchie amiche fronde.

In mezzo allo stagno, sopra una piccola isola vestita di musco, la bianca Nimphea nelle sue membra purissime di marmo dorme. Come è bella e bianca e fresca la bellissima dea! Le braccia sono intrecciate all’indietro, ed ella mollemente vi posa la stanca testa reclinata, mentre le divine membra riposan sul musco nero. Ella dorme: forse sogna l’ellenica patria da cui la trasse dopo tanti anni il Poeta padrone dello stagno. Ed ora la luna bacia castamente il bianchissimo corpo di marmo, che sorge luminoso dell’eterna bellezza, in mezzo alle larghe foglie delle ninfèe sue sorelle, che metton intorno alla piccola isola che serve da giaciglio alla dea il fitto riparo delle loro larghe foglie.... Sulla piccola isola, in uno spazio ove non giunge il musco che fa da tappeto alle bianche membra della dea, si leggono incise queste parole: Ducam eam in solitudinem et loquæ ad cor Eius. Le ha incise un giorno il Poeta padrone della villa, un giorno in cui non era solo.

Dall’un dei lati, sulla sponda dello stagno, è un piccolo Pane di bronzo, seduto sulla roccia; egli lambe con i piedi caprini l’acqua dormente. Vicino a lui sull’erba è la sampogna e il suo flauto. Egli non sembra gaio nel picciol volto beffardo; ha la testa recinta dalla folta capigliatura e sorveglia il sonno della dea, così bianca e silente sotto il bacio della luna.

Ma ad un tratto dal folto degli arbusti e degli alberi si fa strada un lieve fruscìo. Nella quieta notte luminosa si ode il leggero passo dell’uomo. Ah! è il Poeta padrone che viene al solito ritrovo. Egli si ferma un istante in mezzo al praticello che intorno a lui agita sommessamente i suoi fili argentei e gli manda ondate di luce bianca, e volge uno sguardo allo stagno che dorme. Poi i suoi occhi si posano sulla bella dormente circonfusa di luce e a lenti passi si dirige al suo fido cantuccio, che è come una piccola grotta tra le due roccie che vengon proprio a lambire l’acqua dello stagno. Egli ivi si adagia, nel musco morbido, e volge una breve invocazione a Morfeo, il dio che protegge il sonno della bianca dea. E così adagiato, mentre l’acqua dello stagno gli manda le sue iridiscenze perlate, egli chiude gli occhi: e il Sogno incomincia.

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Il piccolo Pane di bronzo si muove, si alza, raccoglie il flauto e la zampogna e si nasconde dietro la roccia. E all’improvviso, nella notte d’argento, si sente il primo sospiro del flauto che già piacque a Syrene: da prima fioco e lene poi vieppiù appassionato sale nella luce lunare il bianco canto pastorale. L’accompagna lo zefiretto che vien dal bosco: tremolano dolcemente tra le fronde dei vecchi alberi le Amadriadi risvegliate e si agitan lievemente l’erbette del praticello d’argento. Le acque di perla dello stagno hanno ancor esse un sottil fremito misterioso: s’increspa leggermente l’acqua luminosa e si agitano le ninfèe dormenti sotto le larghe foglie. Il canto del flauto di Pane seguita a salire, dolcissimo, nella notte fantastica e silente. Ecco che la bianca dea sul suo giaciglio di musco si scuote lievemente: le belle braccia intrecciate si snodano pianissimamente. La testa reclinata si solleva a poco a poco, si apron gli occhi ancor pieni del sonno e si volgon indecisi ove ne viene il canto dolcissimo. Le belle labbra si apron al sorriso e la dea, poggiandosi sulle mani, si alza e s’asside sul musco. I piccoli piedi di neve toccan l’acqua che è tutta increspata adesso di ondine lucenti. Le sorelle ninfèe si svegliano tutte, l’una dopo l’altra, e metton fuori le bianche teste dall’acqua. Lo stagno è ora tutto in fiore: con le corolle aperte e stillanti le ninfèe invitano la loro dea al fresco amplesso dell’acqua. Ma essa è distratta dal bel canto di Pane, che ora ha deposto il flauto e canta sulla sampogna, sempre celato dalla sua roccia. Il canto sulla sampogna sale nella luce lunare e la dea rapita sorride al misterioso cantore che l’ha svegliata dal suo freddo sonno di marmo. Le sue ciglia fremon di piacere e le belle membra rivivono nella dolce onda di luce e di suono che tutta la iradiano. Il bel canto di Pane le parla dei liberi amori del bosco e delle dolci ebbrezze del piccioletto iddio di un giorno, lor Signore, quando libera e ardente, la giovinetta dea folleggiava ne’ boschi dell’Ellade, profumati di mirteti, di rose e di miele. E la dea tenta col picciol piede di neve l’acqua luminosa; e dolcemente, strisciando il bel fianco sul musco ella discende nell’acqua che si apre per riceverla in un gorgo di perle e di diamanti. Alta nell’acqua e scintillante, la bianchissima dea solleva in alto le braccia gocciolanti diamanti e scherza e giuoca e folleggia tra le corolle di neve delle ninfee che le sbocciano intorno alle giovinette membra divine.

Il piccol Pane è uscito dal suo riparo e si mostra alla dea. Lo guarda sdegnata la bella e fa schermo al bel corpo delle grandi foglie delle ninfèe. Esse le si serran d’intorno e ne veston delle loro corolle le membra luminose di candore. E il Pane riprende la sampogna e geme, prega ed implora. La dea sorride e, sicura tra le ninfee, continua il suo bagno nell’acqua di perla. Ella nuota, tra le grandi aperte foglie: ora scompare sotto i nivei fiori raggruppati, or ricompare più bianca e più luminosa. Scherza ella e folleggia, protetta dalle fedeli ninfèe: e sembra a volta un cigno, una perla, una conchiglia, una nube, un fiocco di luce, una goccia di diamante, un fiore, una femmina....

Geme sempre e implora il picciol Pane di bronzo e supplica la bella.... Talvolta egli fa mostra d’avanzare, di metter piede nell’acqua dello stagno: ma le ninfèe son pronte a serrarsi intorno al bel corpo della loro dea, sì che al povero Pane altro non resta che gemere e lamentarsi sulla sampogna....

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Ma ahimè! ecco, nell’alto, in cielo, il primo bagliore: è il primo roseo barlume delle primissime ancelle di Aurora. A malincuore la dea si accosta alla sua isoletta, in mezzo allo stagno e risale sul suo letto di musco e vi si adagia novellamente: le bianche braccia ancor stillanti di perle luminose riprendon lo stanco intreccio sotto la testa, e mentre l’ultimo sorriso erra sulle labbra della dea, gli occhi già pieni di sonno volgono ancora uno sguardo alle acque che si van colorando di roseo: alle ninfèe sorelle che ripiegan le corolle e distendon le foglie e al Pane che non canta più sulla sampogna. Anzi il povero Pane di bronzo ha lasciato cadere il suo flauto e la sampogna sull’erba che non è più d’argento, e ritorna al suo posto, sul margine dello stagno, a guardare la bella che si riaddormenta e che null’altri potrà ridargli viva se non il Sogno del Poeta....

Ma il bagliore nel cielo si avanza vieppiù. Passa sul piccolo prato e sullo stagno come un rapido soffio misterioso: il Pane e la dea s’irrigidiscono e ritornan di sasso. È la Vita destata che è passata sulle cose e che ha gelato il Sogno.

E il Poeta padrone della Villa della Quiete riapre gli occhi al sole e alla vita, che riempion i viali della sua villa di garriti di uccelli, di sussurrii le fronde, e del lavorìo degl’insetti industriosi le piccole erbe del prato.

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