Quando mio nonno morì, io non era in Italia. Viaggiavo, sognatore impenitente, viaggiavo perduto fra le nere foreste della Moravia, pascolo immenso ai miei sogni vagabondi e alle mie fantasie color di quel cielo.... Fu dunque lassù che seppi della sua morte; e siccome ero, con mio fratello, l’erede delle varie sostanze del nonno, ripresi la via della patria.
Quando fummo alla divisione dei beni, chiesi a mio fratello che lasciasse a me il vecchio Castellaccio di C.***, posto fra i dirupi d’un paesello di Romagna, che difficilmente trovereste sulle carte geografiche. Da oltre vent’anni mio nonno aveva abbandonato quel Castello solitario o selvaggio. Egli aveva ceduto ad un fittaiuolo del paese il terreno e il bosco che lo circondava; le porte n’erano state sbarrate, e nessuno – da vent’anni – aveva messo più piede là dentro. Il perchè della risoluzione del nonno nessuno lo conosceva; o meglio, forse, nessuno si era curato di saperlo. Mio nonno era un uomo bizzarro, un poco stravagante anche, a volte; a molti parve una delle sue solite l’abbandono del Castellaccio.
A me, però – che vi ero stato una volta, fanciulletto – quel Castello era rimasto impresso nella memoria.
Quel luogo selvaggio e diruto, quelle colline che lo circondavano, coperte di pini altissimi, quelle mura rossicce pel tempo, l’alta torretta quasi diroccata; quel grande portone dal ponte levatoio – tutto ciò avea fatto forte presa nella mia menticciuola da bimbo, inclinata al fantastico, e più volte, nelle buie notti di vento, quando fuori nel giardino cigolavano gli alberi e gracidavano le rane, avevo riveduto, tra gli altri fantasmi paurosi, la negra massa del vecchio Castello solitario, cupo e misterioso....
Mio fratello – d’indole tutta opposta alla mia, allegro, avido di piaceri, di godimenti, della vita elegante di città – aveva con entusiasmo rinunciato alla parte spettantegli di quel «covo di gufi e civette», come diceva lui, per divenir assoluto padrone della gaia e civettuola villetta di L***: piacevole nido di chissà quante leggiadre avventure....
Fu cosi, dunque, che divenni il padrone del Castellacioo di C***.
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Ne presi possesso in una rigida e ventosa giornata di marzo, dopo un lungo, eterno viaggio a cavallo sotto le lugubri pinete, delle quali il vento squassava le rame ischeletrite sopra la mia testa.
Il fittaiuolo de’ terreni circostanti il Castellaccio, al quale, come ho detto, mio nonno aveva affidato in custodia le chiavi, mi guardò sorpreso quando arrivai, e parve ancor più meravigliato allorchè gli dissi che avevo l’intenzione di venirvi ad abitare durante qualche mese, in primavera.
Però non disse nulla e mi aperse la grande porta sbarrata del Castellaccio.
Ci volle molto tempo prima che la chiave riuscisse a girare nella toppa irrugginita dal tempo: e dovemmo riunire i nostri sforzi per riuscirvi.
Finalmente la porta, sotto i nostri colpi, tremò, si scosse tutta, come cosa viva, e ad un tratto, con un rauco scricchiolìo, quasi un gemito, si spalancò.
Il contadino era alquanto pallido e turbato, e non mi parve del tutto sicuro, guardando nel buio spazio che ci si aprì dinanzi. Entrai pel primo.
Mi colpì subito il tanfo di chiuso che regnava là dentro. Davanti a me saliva una scala che portava di sopra, nelle stanze. Cominciai a salire e il contadino mi seguì.
In capo alla scala una nuova porta sbarrata: e nuovo lavoro lungo e fastidioso per aprirla.
Quando anche quella porta fu aperta, entrammo.
Nell’aria buia e chiusa, da tanti anni, lo stesso tanfo che già mi aveva colpito di sotto mi arrestò un momento.
Ordinai al mio compagno di spalancare i balconi.
Allora mi guardai intorno.
Erano vaste stanze, mobiliate di grandi armadî, di tavoli, di seggioloni in istile antichissimo: mobili severi, polverosi; alcuni rispettabilmente tarlati e rosi dal tempo. Grandi specchiere verdastre parevano riflettere nella profondità misteriosa de’ loro cristalli un’intera vita di altri tempi, negli anni morta e passata....
Qua e là erano grandi quadri cupi ed anneriti: figure misteriose apparivano fra il nero delle ombre che li nascondevano, scoprendo ora il roseo-giallastro d’un volto di donna, ora due occhi azzurro-chiaro, mentre tutto il resto scompariva nel gran buio del colore annerito dal tempo: qua appariva un collaretto increspato, là l’azzurrognolo d’una elsa di spada.
Il contadino che mi precedeva osservava tutto curioso e con uno strano senso di diffidenza: si vedeva che mai aveva messo piede là dentro, forse per un superstizioso senso di timore misterioso, che leggevasi chiaramente nel suo volto....
Arrivammo finalmente ad un grande salone, guernito di mobili dorati, che mostravano in più parti il verderame dell’umidità e dell'abbandono. Dal mezzo del soffitto dipinto, ma quasi cancellato dall’opera degli anni, pendeva una grande lampada a cento becchi, anch’essi quasi totalmente verde per l’umidità e l’abbandono.
Ma quello che in particolar modo mi colpì fu un immenso orologio a pendolo, di legno: una bizzarra carcassa mostruosa, tutta tarlata, che toccava quasi il soffitto con la sua cupola immensa, piena di buchi, proteggente la campana verdognola.... Sotto quella cupola bizzarra appariva la spera giallastra, ove due lancette smisurate, aguzze e stravaganti nella lor forma curiosa, pendevano abbandonate, come due braccia stanche o morte. Era fermo.
Ma avvenne un fatto curioso. Poco dopo il nostro entrare nella sala, forse causa l’oscillare del pavimento sotto i nostri piedi, la macchina nascosta nel ventre mostruoso di quella decrepita carcassa, si mosse: e sentimmo la vita riapparire – col movimento – in quel vecchio corpaccio addormentato. Ad un tratto anche la soneria si mise in azione e la campana lasciò vibrare un colpo, uno strano colpo: fesso, lungo, prolungato.... Vidi il contadino trasalire.
Senza comprenderne la ragione, forse suggestionato dal misterioso turbamento del mio compagno, provai io stesso una vaga e misteriosa inquietudine.
Passammo nelle altre stanze: tutte piene di vecchi mobili polverosi, di vecchie stoffe, di specchiere verdastre, di grandi letti di legno bruno, di quadri, di seggioloni: un arsenale di roba sulla quale il tempo aveva deposto la grande sua patina scura e solenne.
— Bene – dissi, poi che il giro di tutte le stanze fu compiuto – bene: mi fermerò qui a passare la notte.
Il contadino mi guardò stupito.
— Sì – ripresi – come potrei dunque ripartire? rimettermi in viaggio per i boschi a quest’ora? Partirò domani mattina....
Il contadino pareva volesse dire qualcosa; forse offrirmi, per la notte, un letto nel suo casolare. Ma non disse nulla: forse, nella sua semplicità, non osò.
— Dormirò – continuai – in uno di questi letti. Mi accomoderò alla meglio....
In cuor mio ero quasi tentato di domandare io, al povero contadino, quello che, nella sua rozzezza, egli non osava offrirmi. Ma, in verità, mi vergognai.... Avevo io dunque paura? Paura di dormire solo, in quel vecchio rudere, dimora, tutt’al più, di topi? Temevo forse i fantasmi o gli spiriti folletti delle fiabe?
— Dormirò qui – ripetei, deciso. E subito dopo:
— Avete un lume, in casa vostra?
— Oh sì, una lampada.... a olio – mi rispose.
— Va bene, me la porterete. Intanto vediamo ove mi potrò acconciare, alla meglio.
Cercammo nelle varie camere da letto.
Una – la matrimoniale – era troppo vasta, con quel letto profondo e smisurato di noce nero, dalle coltri di un giallo sbiadito e dai cortinaggi a grandi fiorami color foglia appassita. Poi era troppo vicina al salone, da cui un misterioso sentimento che non sapevo spiegare mi teneva lontano.
Sentivo iltic-tac rumoroso e bizzarro dello strano orologio, e quel suono mi dava un’impressione molesta.
Dopo aver passato in rassegna le quattro camere da letto, mi decisi per la più piccola. Era la più vicina anche alla porta d’uscita, e la sua finestra, a mezzogiorno, aprivasi sulla campagna silente ormai nella quiete del tramonto.
Un raggio sanguigno, dell’ultimo sole, scappando di sotto la cupa volta delle nuvole, veniva a illuminare vivamente il letto di legno, dalla coltre bianca, resa un poco ingiallita dagli anni e dal chiuso.
— Dormirò qui – conclusi; – andate a prendere il lume.
Il contadino uscì ed intanto, attendendolo, mi avvicinai alla finestra.
Intorno, intorno la campagna taceva quieta, dopo la burrascosa giornata; vedevo la pineta distendersi verde e immota: qua e là sbucavano fra il verde delle chiome sempre vive, le braccia scheletrite degli alberi che l'inverno avea spogliati delle foglie: e pareva tendessero al cielo le scarne membra chiedenti aiuto. Il sole gettava su quel quadro selvaggio e solenne, nella mistica ora, i suoi ultimi sprazzi purpurei....
Il contadino rientrò.
Recava una rozza lucerna campagnuola di ottone: la migliore che adornasse la sua povera casa.
L'accese – poichè nella camera cominciava a farsi buio.
— Domani mattina alle cinque venite a svegliarmi.
Egli mi rispose che sarebbe stato puntuale, mi salutò e mi lasciò solo.
Poichè mi sentivo molto stanco pel viaggio del giorno – per molte ore, come ho detto, compiuto a cavallo – mi spogliai rapidamente, mi avvolsi in un plaid e mi gettai sul letto.
Presi subito sonno.
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* *
Mi svegliai improvvisamente nel cuor della notte.
Un chiarore scialbo e oscillante illuminava a balzi la vecchia camera; avevo dimenticato di spegnere il lume, prima di addormentarmi, ed ora, consumato l’olio, esso era presso a spegnersi.
Con un soffio lo smorzai del tutto.
Rimasi al buio.
Nel silenzio profondo che mi circondava sentivo distintamente un suono continuo e bizzarro; come il pulsare regolare e rumoroso d’un cuore fantastico.
Era il vecchio orologio del salone.
Quel tic-tac, rauco e mostruoso, empieva tutta la casa del suo anelito. Era uno stridore lento e cadenzato, e nello stesso tempo faragginoso, come di vecchie membra ossute che si slogassero in qualche fantastico esercizio.
In mezzo allo stridore principale, dirò così, delle vecchie ruote che rivivevano al movimento – chissà dopo quanti anni di morte e di silenzio – distinguevo mille altri suoni minori, bizzarrissimi....
Parevano gemiti umani: il lamento acre e sottile di una voce che piangesse. Ogni tratto, l’alenare della vecchia carcassa aveva degli scoppi improvvisi più fragorosi e spezzati, come schianti di singhiozzi o di imprecazioni.... Poi ripigliava il lamento lungo, uggioso....
A poco a poco quel continuo frastuono pazzo e cigolante s’impossessò di me.
Sentivo martellarmi nella testa quel pianto continuo, quel singhiozzìo spezzato, quel battere di vecchie ossa, quel cigolare di ferri irrugginiti, quel gemito sottile e lacerante, quel traballare di molle e di ruote animate da una vita diabolica....
Quell’accozzaglia di suoni strani e discordi prese man mano, nella mia mente stanca e turbata, la dolorosa monotonia e fissità dei battiti della febbre nei polsi bollenti per l’insonnia....
E – nella tensione nervosa del mio cervello – finii per distinguere davvero come de’ suoni articolati, delle parole bizzarre, delle frasi fantastiche in quell’irregolare movimento della decrepita macchina dell’orologio....
Inutile dire che pel resto della notte non chiusi più occhio.
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* *
Alle cinque precise venne, come aveva ordinato, il contadino a chiamarmi.
Egli spalancò le imposte: il chiarore dell’aurora illuminò la stanza. Il cielo era sereno.
— Non ho chiuso occhio – gli dissi.
Era pallido e sbattuto.
— Lo credo bene, signore – rispose il contadino turbato come la sera prima.
E mormorò, rabbrividendo:
— L’orologio, non è vero?...
Mi alzai a sedere sul letto.
— Ebbene – chiesi vivamente colpito – cos’ha dunque questo maledetto orologio che col suo rantolo dannato non mi ha permesso di chiudere occhio?...
— Oh signore! se ne dicono tante....
— Ci sono dunque delle storie? Perchè non me ne avete detto nulla iersera?
— Non ho osato.... e poi non volevo metterle pel capo delle idee....
— Avete fatto bene. Ma frattanto non ho dormito egualmente.
— È sempre avvenuto così a quanti hanno passato la notte nel Castello.
— Sicchè mio nonno....
— Un mese dopo che lo aveva comperato se ne andò per non tornarvi più....
— È vero. Ma la benedetta storia di quest’orologio si può conoscere?...
— Mah! con precisione nessuno la sa bene.... Dicono che in esso vi sia l’anima del primo padrone....
— Faceva l'orologiaio, dunque?...
— Oh no, tutt’altro! era un gran signore, anzi.... ma un poco pazzo. Almeno, dicono. Visse qua, solitario, molti anni, poi nessuno lo vide più.... Pare però che prima ci fosse con lui una donna....
— Ho capito – mormorai.
— Un giorno sparì – continuò il contadino – e ora dicono che la sua anima o quella della donna, sia rimasta rintanata fra le ruote di quell'orologio.... per purgarsi di qualche gran peccato, certamente!...
— Naturalmente – mormorai, vestendomi.
Il sole ora splendeva di fuori, sulla campagna.
— Ricordo quand’ero piccino – continuò ancora il contadino – che suo nonno un giorno mi disse che aveva scoperto qualcosa nell’orologio....
— Davvero? – mormorai io, curioso. – Voglio vedere.
Andammo nel salone.
Il vecchio orologio seguitava a pulsare rumorosamente.
Il contadino aperse, non senza un vago tremito di diffidenza, la tarlata portella racchiudente il congegno.
— Guardi – esclamò egli.
Sul disco di metallo, pieno di macchie verdastre, del pendolo, scorsi e ricopiai nel mio portafogli i seguenti versetti misteriosi che conservo sempre:
boeeo horzleo eirrsfeo mifslti dfzerceo ol gcseds
bsuupos fcids nz moz zlomz nps mzo lil zbfz hzus.
Non sono ancora riuscito a decifrarli: ma spero di venirne a capo, un qualche giorno.
E se qualche sagace lettore vorrà venirmi in aiuto in questa bisogna, chissà che, decifrato l’enimma, non salti fuori anche la storia – che certamente non potrà non essere meravigliosa – dello spirito racchiuso nel vecchio orologio del Castellaccio di C***.