Le Ofrisie.

Ero andato ad abitare, per dedicarmi tutto ad un’opera che mi premeva, in una casettina del sobborgo, molto fuori di mano, vicino alla campagna e del tutto isolata dalle altre case. Intorno a me non vi erano che orti e giardini.

Poco lontano – e in modo che dalla mia finestra potevo penetrarvi con lo sguardo, – stendevasi un piccolo giardino, chiuso da un muro abbastanza alto perchè dalla strada non si potesse guardarvi dentro. Contigua ad esso era una casuccia: che dico? uno stambugio, una capanna a terreno, che indovinai tosto essere l’abitazione dell’originale proprietario e signore del minuscolo giardino. Tutto il giorno lo vedevo curvo sulle sue pianticelle che accudiva con straordinario interessamento.

In fondo al giardino era una vasta serra chiusa da cristalli scintillanti che mai si aprivano al sole, e nella quale il misterioso giardiniere passava ore ed ore invisibile. Doveva certo trattarsi di un fanatico floricultore.

Ne chiesi alle persone che venivano a sbrigare i brevi servizi che mi occorrevano, ma non ebbi che poche e incomplete notizie: – Lo chiamavano in quei dintorni, mastro Matteo. Era sulla cinquantina; non aveva parenti, viveva solo nella sua catapecchia e faceva il giardiniere. Ma il giardiniere per conto suo. Era stato in gioventù al servizio di un ricco signore, alquanto eccentrico, il quale andava pazzo pei fiori strani, bizzarri, mai visti: Matteo aveva preso da lui tale passione, e di piante strane aveva empito il suo giardinetto, nel quale viveva dopo la morte del padrone che gli aveva lasciata una rendituccia da poter campare senza lavorare. Del resto non dava fastidio a chicchessia; usciva il meno possibile, non parlava con nessuno, era rustico come un orco ma pacifico come l’olio.

Ecco tutto ciò che seppi sopra il solitario mio vicino giardiniere.

Il caso mi spinse a conoscerlo molto più intimamente.

*
* *

Un giorno infatti passeggiando lungo le improvvisate vôlte di verzura d’una delle tante nostre Esposizioni floreali, fui colpito da un misterioso cantuccio, riparato da due rocce artificiali, quasi nascoste sotto gli alti cespi di molte piante ornamentali.

Da quel cantuccio, poco in vista, come dissi, anzi nascosto, la gente si allontanava quasi con diffidenza. Pareva che un vago senso di repulsione vincesse i visitatori, e in ispecie lo visitatrici, davanti agli otto o dieci vasi, bizzarramente bruni, che popolavano il piccolo antro riparato e raccolto, nel suo tepore di serra.

Da quei neri vasi alzavano le teste i più bizzarri e fantastici fiori mai veduti. Erano Ofrisie, – e chi è pratico di fioricoltura sa le bizzarre forme ch’esse assumono: forme di animali curiosi, di mostruosi insetti, di mosche, di ragni, di fantastiche creazioni vegetali dalle fibre e dai tentacoli di esseri viventi.

Quelle otto o dieci piante che l’originale espositore aveva radunate all'Esposizione, erano infatti quanto di più strano e paradossale potevasi immaginare nel soave regno dei fiori.

Baudelaire, il malato poeta della flora mostruosa, avvelenata, sarebbe andato in estasi davanti a quel gruppetto di esseri vegetali che suscitavano nell'osservatore un senso di ribrezzo e di diffidenza.

Sugli esili gambi ritorti, deboli, malaticci quasi, presso le poche foglie cadenti, si alzavano dei fiori grassi, orribili, che tutta si beveano e raccoglievano in sè l’essenza, la vita della strana pianta.

Uno di essi, dalle ali verdastre aperte, dal corpo lucido e attaccaticcio, punteggiato di bianco e di stille rosse come sangue coagulato, avea il viscidume di un grosso moscone; un leggero tremito continuo ne agitava il deforme corpicciuolo. Presso a questa un’altra Ofrisia alzava le corolle carnose, di un rosso acceso, su cui grosse macchie giallastre, come pustole purulenti, si aprivano umide e stillanti....

Ma il «clou» della bizzarra esposizione era rappresentato da una enorme Ofrisia che pompeggiava sopra le altre, regina di bruttezza, vero trionfo dell’orrido. L'occhio non afferrava sul momento la forma, l’essenza precisa di questa strana creatura vegetale. Era l’Ofrisia-ragno.

Un grosso nucleo rossiccio come di carne palpitante, ne formava il corpo: delle macchie nerastre e verdognole ne costellavano il dorso; grosse branche carnose ne formavano le membra. Dei piccoli peli squamosi si ergevano qua e là, frementi quasi, dotati di un lieve moto, che sembrava il lento pulsare del sangue sotto l’epidermide scabra della bestia-fiore.

Era mostruoso!...

I visitatori, come ho detto, fuggivano subito appena gettati gli occhi su quelle piante. Un invincibile ribrezzo li prendeva loro malgrado, ed essi correvano a rinfrescare la vista, turbata dalla malsana visione di quell’antro, sopra i freschissimi cespi di azalee bianche, rosse e rosee, sopra i gruppi fragranti degli eliotropi, le volute leggere dei convolvoli ideali, i pomposi gerani e gli orientali elegantissimi crisantemi.

Io, invece, mi sentivo stranamente attratto da quelle brutte, malate, fantastiche creature vegetali, sì da non riescire a staccar da esse gli occhi meravigliati....

Uno strano lezzo era là dentro, in quell’angolo di serra. Avvicinandomi di più scopersi che il caratteristico e ripugnante odore esalava specialmente dalle mostruose corolle della grossa Ofrisia-ragno.

Cercai un cartello, un’indicazione qualsiasi nel nome dell'Espositore che aveva avuto la bizzarra idea di radunare quella strana famiglia di bruttezze. Ma non trovai nulla. Mi rivolsi allora ad uno dei guardiani, il quale alle mie domande rispose che se volevo conoscere l’espositore mi recassi là il mattino, ad una certa ora che m’indicò. Egli veniva sempre, tutti i giorni, a curare le sue piante, a portare loro il pasto; una specie di broda nerastra, dall’odore penetrante e nauseabondo, che teneva chiusa in certi vasi per non appestare l’ambiente.

«Dato da mangiare» alle sue piante, come diceva il guardiano, lo strano giardiniere spariva per non lasciarsi vedere che all’indomani, munito dei soliti vasi di broda nutriente e.... nauseante.

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Il mattino di poi all’ora indicatami mi trovai presso l’antro – non so chiamarlo altrimenti – delle Ofrisie.

Poco poco vidi comparire il loro padrone e signore, il quale non era altri che il misterioso giardiniere mio vicino: mastro Matteo. Egli portava il solito pasto alle sue bestie-fiori. Lo lasciai fare. Quando dopo un’ora ebbe finito, mi appressai a lui e lo salutai.

Egli alzò sopra di me un momento gli occhi e parve alquanto contrariato di vedermi; – forse mi aveva riconosciuto.

Gli chiesi se voleva vendere alcune di quelle piante «meravigliose.» Mi guardò fisso, poi burbero rispose:

— No.

— Una sola almeno?

— Nè una nè tutte, – rispose, e cercò di allontanarsi.

— Scusate, – insistei, – ne avrete un vivaio, una piantagione....

— Non ho nulla e non vendo nulla, – replicò bruscamente, per finirla. E si allontanò borbottando.

Il guardiano che aveva assistito alla scena, se la rideva di cuore.

Però non mi detti per vinto.

La sera dello stesso giorno, accertatomi dalla finestra che Matteo era nel suo giardino, bussai alla porticina. Egli venne subito ad aprire.

— Cosa volete? – mi disse, di malumore.

— Scusate, mio caro amico, – gli dissi, – ma questa mattina voi mi avete trattato piuttosto male.... Forse non sapete ch’io sono un vostro vicino....

— Oh, lo so, – mormorò.

— .... e che come voi vado pazzo per i fiori.

Mastro Matteo non rispose: attendeva.

— E che da molto tempo ho desiderio....

Egli aspettava sempre.

— ....di visitare il vostro giardino, – conclusi.

Mastro Matteo pareva indeciso.

— Sono entusiasta del vostro genio, – ripresi, – e le vostre Ofrisie fecero su me l'effetto di una rivelazione. Esse sono meravigliose! Siete un creatore; avete vinto la natura....

— Vi piacciono dunque davvero le mie Ofrisie?

— E me lo domandate?... Se dopo il vostro mal garbo di stamani sono ancora qui, mi pare....

— Le mie Ofrisie!... – ripetè piano lo strano giardiniere, con un tono di voce come se avesse detto «le mie figlie!»

— Sono superbe, – replicai. – Siete un genio e un poeta. Quanto mi hanno fatto pensare quelle piante!...

— Entrate, – mormorò rapidamente Matteo.

E fu così che penetrai nel santuario.

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La serra delle Ofrisie!... Quale insospettata accolta di cose strane, inaudite, fantastiche, paradossali!....

Mastro Matteo ne aprì con lieve mano, quasi con reverenza, l’uscio a vetri, che richiuse subito dietro di noi, come se temesse che un alito solo della profana aria esterna contaminasse o alterasse il misterioso processo di elaborazione vegetale.

Era là dentro una luce opaca e smorzata, – poichè le Ofrisie non resistevano alla cruda luce del giorno, – e un’aria tiepida e uguale, pregna di un acuto odore che mi salì subito al cervello: un odore acre e penetrante che avea qualcosa di vivo, di animale, di carnale, direi quasi, e che avevo già sentito all'esposizione davanti le Ofrisie stesse.

Intorno intorno, presso le pareti di vetro, nei loro vasi caratteristici, erano «le figliuole» di mastro Matteo. Egli, ritto in mezzo a loro, appariva trasfigurato. Sembrava più alto, più vivace, e i suoi occhi brillavano.

Abituatomi alla scarsa luce della serra cominciai a discernere le forme delle piante. Erano tutte degne sorelle delle bizzarre creature ammirate alla esposizione.

Pieno di stupore e di un indefinito sentimento che non riesco a spiegare, assistetti allora ad una scena mai veduta.

Tutte quelle creature, – che in quell’istante mi apparvero veramente animate da vita propria parevano sentire, vedere, «comprendere», direi quasi, la presenza del loro padre e creatore. Esse si agitavano, protendevano verso di lui le bocche, le antenne, i corpi carnosi. Credevo di veder palpitare le loro grosse corolle pulsanti, quasi chiedessero qualcosa al loro padrone: il cibo, forse, e quel resto di vita che ad esse mancava per entrare definitivamente nel regno degli esseri animati e semoventi...

Ed egli, mastro Matteo, passava su di loro la mano con lieve atto di carezza, e sotto quel tocco le strane creature fremevano, si agitavano, quasi per ricambiare la paterna premura!...

Quanto stetti là dentro?... Non potrei dire; ma quando uscii, la testa mi pesava: l'acre odore di quei misteriosi esseri – metà piante e metà animali – mi aveva turbato i sensi e il cervello.

Ne ebbi l’emicrania per tutto il resto del giorno.

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* *

Così divenni amico di mastro Matteo.

Egli mi permise di andarlo a trovare qualche volta nel suo giardino; m’introdusse nella famosa serra, mi lasciò osservare a piacimento i bizzarri prodotti che il suo genio di giardiniere fantastico aveva tratto dai semplici fiorellini offertigli dalla natura.

E mi parlava delle sue idee, delle sue aspirazioni, de’ suoi sogni. Ah, voi, Baudelaire, voi poeti bizzarri e raffinati che aspirate alla mostruosa creazione di una flora vivente, alla fusione quasi della bestia c della pianta in un essere unico al mondo, voi avreste trovato in mastro Matteo il realizzatore dei vostri sogni di malati! Egli aveva scoperto il modo – mediante certo suo alimento a base di sostanze organiche, del quale non volle mai rivelarmi il segreto – di animalizzare, dirò così, lentamente le sue creature vegetali, sino al punto in cui a me erano apparse.

Un giorno, tutto preso dalla foga della sua idea fissa, mi condusse in un angolo appartato della serra e avvicinandosi ad una tenda umidiccia che nascondeva qualcosa, con la voce tremante di commozione, sollevando con infinito e quasi religiose cautele il cencio, mi disse:

— Ma voi non sapete ancora nulla; non avete veduto quasi nulla! Ecco il più meraviglioso de’ miei prodotti, la incarnazione quasi completa del mio ideale, il mio sogno che sta per essere trasformato in realtà; il mio capolavoro, in una parola!... Ebbene, a voi, guardate....

Guardai. E mio malgrado retrocessi. Un essere straordinario, accoccolato sulla cima d’un ramo verde, che si piegava leggermente sotto il suo peso; un essere grosso come il pugno, dalla pelle azzurrastra, variegata di larghe striscie gialle, teneva fissi sopra di me due grossi occhi lucenti, aperti, smisurati.

Esso «mi guardava!»

— È un rospo, – esclamai.

Mastro Matteo alzò la mano, e solenne disse:

— È un fiore.

— Un fiore?... – gridai stupefatto.

— Sì, signore: l’«Ofrisia sapiens», come io stesso l’ho voluta battezzare, per darle un aggettivo che ravvicinasse all’uomo, della quale – dichiarò con orgoglio e con mistero – essa e la più meravigliosa e diretta derivazione.

E mastro Matteo mi piantò in volto le pupille che scintillavano stranamente, come quelle di un allucinato o di un pazzo.

Io non comprendevo. Tenevo fisso lo sguardo sullo strano vivente, i cui occhi aperti, scuri, lucentissimi non si staccavano da me.

Un penoso fascino emanava da que’ due occhi di fiore spaventoso, che quasi assorbivano le mie facoltà con la loro strana fissità. L’orribile corpo, pari, come ho detto, a quello d’un enorme rospo, aveva delle leggere contrazioni sotto la pelle – non posso che chiamarla così – e alcuni grossi tentacoli che gli pendevano intorno, si sollevavano lentamente, si torcevano, per ricadere con una sorta di movimento ritmico.

A un tratto diedi un balzo all’indietro.

— Ha mossi gli occhi! – gridai impallidendo.

Mastro Matteo sorrise, trionfante.

Io tenevo lo sguardo sbarrato sulla mostruosa creatura.

— Dio! – gridai.

La bestia-fiore aveva aperto la bocca ed io avevo avuto la visione di una gola rossa e ardente.

— Andiamo via, andiamo via, – balbettai.

Mio malgrado mi sentivo indisposto: il mio corpo era tutto agitato da un fremito di ribrezzo e di disgusto: un sudore freddo mi copriva da capo a piedi.

— Andiamo via, andiamo via, – replicai, – ne ho abbastanza!

E mi precipitai fuori dell’orribile serra.

Mastro Matteo mi tenne dietro.

*
* *

Fuori, all’aperto, all’aria pura e imbalsamata dall’olezzo dei veri fiori che Dio ci ha regalato, mi rimisi dal misterioso malessere e accesi una sigaretta.

— Avete un certo odore, là dentro! – mormorai a mastro Matteo per scusarmi. – Pare di essere in una sepoltura!...

— Lo credo bene! – rispose egli, come parlando fra sè.

E rise ancora di quell'enigmatico sorriso che non riuscivo a comprendere.

Sedetti sopra un banco di pietra ch’era in fondo al giardino, e stetti alquanto in silenzio. Mi sentivo ancora tutto turbato dalla visione dello strano mostro di poc’anzi. Temevo di essere stato preda di una allucinazione, e nello stesso tempo provavo una vaga ripugnanza a portare il discorso su di esso.

Fu mastro Matteo che ruppe il ghiaccio.

— Avete veduto, dunque? – cominciò. – Siete il primo finora, sapete?... Per ora, ho detto, ma un giorno!...

E si fermò alquanto.

— Un giorno, quando sarò finalmente riuscito, quando avrò vinto.... Oh allora!...

— Ma che cosa sperate di fare dunque, ancora, con quei vostri maledetti fiori? – non potei a meno di esclamare.

Egli mi guardò, poi disse semplicemente e solennemente:

— Tutto.

Non credetti il caso di domandargli cosa comprendesse in questo «tutto.» Ma egli continuò:

— La cosa è più difficile e faticosa di quanto crediate.... Non posso dirvi altro, per ora; forse un giorno saprete anche voi.

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* *

Per qualche tempo non volli più occuparmi del mio strano vicino.

Ma una notte che mi ero attardato al tavolo, fattomi alla finestra, scorsi un lumicino nel noto giardinetto. Osservando bene, distinsi l'amico intento ad una operazione che lì per lì non riuscii ad indovinare. Preso il binoccolo osservai meglio.

Mastro Matteo stava scuoiando un grosso gatto morto!...

— Che diavolo ne farà egli mai? – mi chiesi.

L’indomani mattina scesi da lui e gli domandai senz'altro perchè si divertisse nella notte, a scuoiare dei gatti. Sorrise come il solito, e aprendo la porta della serra mi disse:

— Entrate.

Appena messo piede là dentro retrocessi, turandomi il naso.

— Ma qui c'è un lezzo insopportabile di sepoltura! – gridai.

— Guardate, – rispose Matteo senz’altro.

E sollevando una delle Ofrisie pel gambo mi mostrò il fondo del vaso, – ch’era formato in modo da potersi scomporre in due parti, – ove un ammasso di carne rossa e sanguinante giaceva.

E le radici delle Ofrisie, vi si affondavano per entro, l’assorbivano, se ne cibavano.

— È il loro pasto! – esclamò mastro Matteo.

*
* *

Terminata l’opera per la quale mi ero indotto a vivere qualche tempo nella solitaria casetta, disdissi l'affitto, e ritornai nel mio solito ambiente allegro e spensierato, ove non sentii più parlare di mastro Matteo. Così finii per dimenticarlo, assieme con le sue Ofrisie.

Un paio di anni dopo fui vivamente colpito leggendo nella cronaca d’un giornale cittadino il seguente articoletto:

«Ieri al nostro Cimitero fu arrestato un povero pazzo il quale durante la notte, aveva tentato di profanare una tomba, scavandone la terra che copriva il cadavere.... Interrogato perchè si fosse dato a questa lugubre operazione egli dichiarò ch’era giardiniere e che intendeva procurarsi della terra umana (sono sue parole) per alimentare certe sue piante speciali.... Dalle frasi sconnesse e bizzarre si comprese subito di aver che fare con un alienato.»

Ebbi l'intuizione che dovesse trattarsi di mastro Matteo, il mio vicino. Occupato com’ero non vi badai; ma un mese dopo, risovvenendomi feci subito ricerca della mia abitazione di un tempo e del vicino giardinetto. La mia antica casetta esisteva ancora, ma il giardino di mastro Matteo era stato trasformato in una «Osteria con cucina e con pergolato.»

Chiesi a qualcuno dei vicini notizie dal giardiniere; nessuno fu grado di darmene.

Dopo il fatto del Cimitero, era sparito, con le sue famose piante. Da quel giorno non ne seppi più nulla.

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