II.

L’indomani, all’ora indicatami, io salivo le candide scale di marmo della Banca Stevens.

Ad un inappuntabile usciere rigido e gallonato che mi si presentò chiesi di Mister Evans Stevens.

— È nel suo gabinetto – mi rispose – ma temo sia occupato....

Ebbi un’idea.

— Sentite – dissi all’usciere – vi prego di consegnare a Mister questo mio biglietto.

E sopra un mio biglietto di visita scrissi queste parole; «desidero parlarvi a nome di Pietro Fournier.»

E consegnai il messaggio.

Dopo un istante l’usciere ritornava e mi diceva:

— Seguitemi, signore.

Era lui!...

Seguii il servo.

Dopo un istante io faceva il mio ingresso nel tepido e ricchissimo gabinetto di lavoro del banchiere.

Egli era seduto davanti ad una scrivania ingombra di carte, di telegrammi, di listini....

Mi lanciai verso di lui, tendendo le braccia.

— Tu sei Pietro, dunque – gridai – Pietro Fournier, il mio caro compagno di lavoro, il mio amico....

Ma l’amico era rimasto freddo e sorpreso, e mi guardava con maraviglia.

— Come! – esclamai.

— Vi prego, signore – mormorò egli accennandomi una seggiola – accomodatevi.

Io mi lasciai cadere sopra la seggiola, non comprendendo.

— Vi ho fatto entrare subito – riprese il mio interlocutore – perchè veramente il vostro biglietto mi ha colpito.

Si fermò un istante come per riordinare le idee, poi riprese:

— Avviene qualcosa, intorno a me, da qualche tempo che non so comprendere. Il nome che voi avete scritto sopra il vostro biglietto di visita a me non torna nuovo. Un altro signore, non è molto tempo, si è presentato, come ora voi, da me, chiamandomi e salutandomi con tal nome. Anzi – proseguì egli cercando fra le carte un biglietto – ecco qua la sua carta da visita, osservatela....

E mi porse il biglietto.

— Diavolo! – esclamai – è quel buon Barbier, il nostro tiranno, il nostro capo-ufficio....

— Voi lo conoscete adunque?

— Ma certamente! era colui che veniva a sorprendere e a disturbare le nostre fumatine in secreto, poichè era severamente proibito fumare nella Banca Raviol.

— Banca Raviol! – mormorò il banchiere.

— Sicuro, la Banca Raviol e C. di Marsiglia! Quella ove io, il buon Barbier, e voi.... come credeva sino a dieci minuti fa, eravamo impiegati e.... poco bene pagati.

Mister taceva.

— E – ripresi io – anche il buon Barbier vi ha chiamato col nome di Fournier?

— Sì.

— E..... perdonate, mister – esclamai – voi siete ben convinto di non essere Pietro Fournier?

Mister Stevens sorrise.

— Almeno..... lo credo.

— È curioso! – dissi – un bizzarro caso di fenomenale somiglianza!

— Deve essere così! – mormorò mister.

Io ero pensoso.

— Perdonate! – feci ad un tratto. – Una cosa.

— Dite.

— Pietro Fournier, il vostro pendant aveva un segno.

— Un segno?

— Sì, una piccola cicatrice dietro l’orecchio sinistro....

— Ah sì, e come lo sapete?

— Diavolo! ne fui io la causa! si scherzava, un giorno, e con la penna gli feci, senza volerlo un piccolo graffio in quel punto....

Mister Stevens si toccò dietro l’orecchio sinistro e parve sorpreso.

— Permettete, mister?.... – feci io.

— Guardate pure – rispose.

Osservai dietro l’orecchio sinistro e diedi un balzo indietro.

— La piccola cicatrice vi è!.... – gridai al colmo dello stupore.

Mister Stevens mi guardava perplesso.

— Vi è, vi è – ripeteva trasognato.

Rimanemmo alcuni istanti in silenzio ambedue.

— Voi siete Pietro Fournier, perdonate – mormorai.

— Vi dico di no – esclamò il povero mister ch’era alquanto impallidito.

— Eppure....

— Sentite – disse egli ad un tratto – io sono più stupefatto di voi. Il fatto è che, come v’ho detto, da qualche tempo qualcosa di strano, d’inspiegabile, di anormale avviene intorno a me. Ora siete voi..... pochi giorni fa è stato un altro, che mi ha tenuto lo stesso discorso che voi ora mi fate. Pietro Fournier! Pietro Fournier!.... siete in due che giurereste, come voi lo giurate non è vero? ch’io sono Pietro Fournier!....

— È strano – esclamai.

— Ma non basta!.... – profferì il povero mister sgomentato.

— Non basta?.... – ripetei.

— C’è dell’altro! L’altro giorno una donna vedendomi per istrada mi ha fermato chiedendomi se la riconosceva. Io naturalmente le dissi di no. La vedevo per la prima volta! Allora essa gridò ch’io era un ingrato, che disconosceva mia zia! Le dissi ch'era pazza. Allora ella disse che mi avrebbe data la prova che quanto diceva era la pura verità e ch’io era nè più ne meno che suo nipote che non vedeva dall’età dei sedici anni, difatti alcuni giorni dopo me la vidi comparire dinanzi.... indovinate con che? con un ritratto, un ritratto di giovinetto ove io ed altri da me chiamati come giudici non potemmo non riconoscere le mie sembianze ringiovanite!....

— Quanto voi mi dite è strano veramente! mormorai.

— Ma il più bizzarro si è che richiesto alla donna del mio nome..... di allora – di quando cioè, secondo lei – io era il suo caro nipote ella mi disse chiamarmi Vincenzo Fiorelli. La donna era italiana...., come voi.

— È strano, è strano – mormorai.

— Ma ancora non è finito – gridò mister Stevens.

— Avete dell’altro?....

— Ah si! – riprese egli in tono desolato. – Ascoltate, Giorni fà un vecchio italiano venne da me a chiedermi soccorso e me lo chiese dicendo: «Voi signore, ora che siete ricco e potente, ora che non siete più il povero Fiorelli di trent’anni fa....»

Non potei trattenere una risata.

— Insomma voi siete, mister Stevens, Pietro Fournier, e Fiorelli!

— Mah!... sembra. E sto chiedendomi quale di questi tre rispettabili signori io sia decisamente il vero.

— È strano, strano, quanto voi mi dite! – non potei a meno di ripetere per la terza o quarta volta.

— E giacchè voi vi siete presentato a me, voi dovete aiutarmi a sciogliere una buona volta questo enigma.

— Volentieri – esclamai – non chiedo di meglio! perchè a dirvi il vero comincia ad interessarmi e ad empire di curiosità anche me.

— Vediamo, dunque – riprese mister – voi dite di riconoscere in me il vostro già compagno d’ufficio Pietro Fournier?

— Siete identico.... con alquanti anni in più di differenza!

— Che età aveva, quando eravate compagni di ufficio, il vostro Pietro Fournier?

— Ma non più di vent’anni, mi pare.

— Quanti ne sono trascorsi, ad oggi?

— Un diciotto o venti.

Mister tacque.

— A quanti ascendono i vostri anni, mister?.... – chiesi.

Egli mi guardò.

— Trent’otto.

— Lo vedete!.... – mormorai.

— Purtroppo – fece egli, come tra sè.

Trasse da un cassetto una piccola fotografia.

— Osservatela – mi disse.

La guardai attentamente.

— Siete voi, – dissi subito.

— Lo vedete?

— Non c’è alcun dubbio!

— La fotografia è stata fatta a.... e porta la data del....

— L’età che doveva aver io quando fu fatto questo ritratto.... – mormorò il povero mister che appariva turbato e accasciato.

— Che cosa ne dite?.... – riprese dopo un lungo silenzio pensoso.

— Non so che pensare – risposi. – Quanto vengo a sapere è eminentemente bizzarro ed enigmatico! E ditemi, vi prego, mistress sa nulla di tutto ciò?

— Ah no! non lo ho detto ancor nulla. Temo che il suo spirito – delicato com’è – abbia a turbarsene e risentirsene. È meglio tacerle tutto.... per ora.

— Lo credo anch’io.

— Ed ora – concluse mister alzandosi – vi prego, signor mio, per oggi lasciatemi. Ho la testa confusa, turbata, e sono stanco. Ho bisogno di riposo, per oggi. Ritornate, vi prego, domani mattina. Nella notte voi ed io penseremo, rifletteremo.... chissà che non si venga a capo del mistero! Io vi comunicherò le mie idee.... voi direte a me, le vostre. Chissà?....

E con queste parole mister Stevens mi congedò.

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