III.

Nel piccolo gabinetto di studio – modesto gabinetto in verità, molto severamente addobbato di mobili oscuri e di una grande libreria di vecchio noce – la pallida figura di don Paolo Sergio sedeva pensosa sulla vetusta scranna, testimone e compagna delle lunghe ore che il padrone trascorreva solitario, pensoso o sognando. Il suo pallido volto non dimostrava dolore, in quel punto, sibbene stanchezza: una infinita stanchezza. E stanchezza era in tutta la persona, piena ancor di naturale eleganza, sibben ora apparisse abbandonata e lassa. Era nella picciola stanza una fredda luce uguale: il sole che di fuori sfolgorava nel parco, non ardiva violare le spesse tende del balconcino. Ma dalla parete, sopra lo scrittoio del conte, una maravigliosa testa di vecchio, sola dava luce all’augusto studiolo, ritrovo di solitudine del conte Paolo Sergio.

Il fido, rugoso volto di Domenico apparve tra le portiere e coperse il padrone d’uno sguardo dubbioso, pieno di ansiose domande e di vaga sollecitudine.

— Sì..., fallo entrare – mormorò don Paolo, senza muoversi, e sottovoce.

E Piero entrò, un poco pallido, ma sicuro.

Il vecchio stette a considerare un momento la bella, elegante figura del figliuolo che taceva a lui dinanzi, la testa un po’ bassa. Era quegli l’erede del nome dei Sergio: in quel volto egli ritrovava suo padre, il vecchio padre, il vecchio don Livio che sfolgorava lassù, in alto, sopra lo scrittoio, reso luminoso dal pennello di un grande. Era proprio dei Sergio quella sicura baldanza d’ogni atto, que’ tratti vestiti di fierezza gentile, come era dei Sergio la febbre indomabile del sangue che avea dato un guerriero ardente, un vescovo santo, un vizioso morto in duello, un sognatore e quel giovane lì, così bello e folle... Oh! povera vecchia casta dei Sergio, non più cavalieri padroni della valle, sin dove lo sguardo spaziava; non più signori: ridotti a quel parco e a quel castello barbarissimamente rimodernato, ove tanti secoli di nobile gloria e di sangue purissimo rinfacciavano a lui, vecchio Sergio degenere, la sua vera colpa.... Non era più tutto sangue puro quello che correva nelle vene di quel giovane Sergio che ora avea dinanzi, la testa bassa, ne la posizione del colpevole: ma era pur sempre un Sergio. La fronte alta e superba, la bocca contratta, la lieve ruga di sdegno.... E il vecchio ora paragonava in suo cuore Piero, che avea dinanzi, al secondo de’ figli, Andrea. Quello era il vero degenere tra i Sergio. In quel forte ragazzone dalle spalle tarchiate, forte come un toro, egli leggeva il rimprovero che trenta Sergio facevan al vil sangue plebeo ch’ei avea mischiato al loro. In esso appariva tutta la fresca vitalità plebea di quella donna Albina – la moglie – che con i suoi milioni s’era venuta ad assidere sfacciatamente al posto ove tante nobilissime avean portato la fronte superba. Ed il vecchio don Paolo ebbe come la rapida visione della espiazione che avea dovuto subire del suo fallo verso i puri antenati: il passato rovinoso trascorso a fianco di quella donna, dagl’insaziabili capricci di borghese eccitata da lo sfolgorio del nome glorioso che aveva impantanato.... Non era forse lei la padrona dell’oro con il quale don Paolo avea rimesso a nuovo lo stemma dei Sergio?

— Piero... – cominciò sordamente il vecchio.

— Dimmi, Piero – proseguì don Paolo alzando la testa – dimmi: se tuo nonno, lassù, mio padre glorioso, che ci guarda, alta la fronte che nulla ha mai fatto abbassare.... – e don Paolo appuntava la mano sul ritratto di don Livio – s’egli chiedesse, ora, a noi due: che uso avete voi fatto del nome che io vi ho lasciato... Che cosa potrei rispondere io? che cosa potresti rispondere tu?

Piero lievemente fremette, ma non rispose.

— Oh! Piero, tu lo sai: io non fui fortunato, i rovesci di fortuna, dapprima, poi le false speculazioni – i Sergio non sapevano speculare, essi non sapevano che la spada! – hanno dato a me il triste torto di aver tolto lo splendore del fasto che ha sempre sfolgorato intorno ai Sergio. Questa è la mia colpa, lo so, verso di lui, verso di voi tutti, Piero... Ma i Sergio un altro retaggio mi aveano ancora lasciato: la fama alta ed immacolata, il candore onorato dello stemma, la virtù pura ed altissima, quella che fece santo il nostro venerato Eribaldo....

Il vecchio si arrestò un istante.

— E se questo retaggio io l’ho guardato tu lo sai: tutta la mia vita l’ho ad esso dedicata. Nella rovina dell’oggi non rimaneva che questo splendore del ieri nel blasone dei Sergio ed io l’ho mantenuto altissimo! Ora dimmi: tu, puoi tu dire, a tuo nonno, lo stesso?

Piero novamente fremette. Seguì un breve silenzio. Piero macchinalmente alzò lo sguardo sul ritratto del nonno, quasi questi assistesse veramente a quel dialogo, giudice severo dall’alto della sua grande cornice.

— Io sapevo tutta la vita che tu conducevi alla capitale – proseguì don Paolo – le tue indegne follie, i tuoi pazzi e rovinosi amori, ma pure, vedi, nello sconforto una fiducia mai mi aveva abbandonato: la fiducia, dirò anche la sicurezza, che tu non dimenticassi d’essere un Sergio: che tu non obliassi una cosa che è carne della nostra carne, sangue del nostro sangue: l’onore, che io avea creduto di aver trasfuso in te, con la vita. Ebbene? – tonò il vecchio.

E a voce più bassa:

— M’era ingannato sembra.

E il vecchio nascose il volto tra le palme.

Seguì un lungo silenzio.

— E poi – riprese a parlare il padre con voce mutata, e quasi sottovoce – io credeva, io sperava che il pensiero di me, di tua madre...

— Mia madre!... non mi ha mai amato mia madre!... – mormorò sordamente il giovane. Un mondo di collera tumultuò alla sua mente. Ma fu un lampo: la tempesta passò come rapida bufera nel cuore del figlio ed egli abbassò novamente la testa, muto.

— Taci, tu non hai il diritto di dirlo! – rispose il padre, severo.

— Ma basta – riprese dopo un poco – ora sei qua: è giusto. La nostra condizione di oggi, tu lo sai, dopo gli ultimi rovesci, non ci permette di vivere più in città. Ci siamo chiusi, qua, io, tua madre e i tuoi fratelli, in questo nostro ultimo rifugio che ci parla ancora della nostra grandezza di altri tempi: e ci basta. Il castello ed il parco sono veramente dei Sergio! Io ti aveva procurato il mezzo di vivere brillantissimamente alla capitale: da te stesso lo hai distrutto. Rassegnati a fare il gentiluomo campagnuolo come me. Il parco è ricco di cacciagione. È quanto posso ormai fare per te: per il primogenito dei conti Sergio!

Piero si avvicinò al padre commosso.

— Perdonatemi, padre mio – disse egli stendendogli la mano.

Don Paolo si levò.

— Da lui, non da me, invoca il perdono – e gli accennò il ritratto del vecchio don Livio.

E proseguì:

— Quando il tuo cuore ti dirà che ti sei meritato il suo perdono, allora, e non prima, verrai a richiedere il mio.

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