IV.

Nel saloncino – ch’era a lato del grande salone da ballo da tanti anni ormai chiuso alla luce dei doppieri e al fasto dei vecchi Sergio – solevano raccogliersi la sera, dopo il desinare, i Sergio. E questa volta Silvia era al piano e accennava con la mano sulla tastiera, un poco triste; e le brevi imagini ch’ella suscitava eran, si vedeva, più per sè che per gli altri... Donna Albina agucchiava impossibili fiorami sopra uno strano interminabile ricamo in seta. Don Paolo aveva chinata la fronte sopra un giornale spiegato sul tavolo. Andrea, il terzogenito, sonnecchiava sopra un preferito suo lavoro di traforo. E Piero, nell’ombra, sur una scranna, stava ascoltando gli accordi pensosi della sorella.

Era, quel saloncino, l’unico cantuccio del castello ove un piccolo soffio di moderna mondanità fosse penetrata. Così donna Albina vi avea portato le tende fastose, le porcellane; l’orgia del colore, ardente di volgarità. E Silvia la primavera dei fiori che avea colto il mattino nel parco (ell’era una grande coglitrice) e la quiete ordinata del suo cantuccio di pianoforte. Piero avea di suo, in un angolo, il disordinatissimo scaffaletto ricolmo de’ suoi giornali di sport e delle sue sigarette. Ciascuno de’ Sergio, insomma, avea in quel quotidiano ritrovo del dopo desinare il suo cantuccio. Così era del vecchio don Paolo la grande poltrona indolente e solenne e di Silvia lo sgabellino trapunto, vezzoso e fanciullesco.

Non erano certo soverchiamente gaie quelle ore della sera, dopo il desinare, in quel saloncino triste, malgrado la stridente allegrezza delle ardenti stoffe, care a donna Albina; non erano molto gaie quelle ore della sera mentre fuori gli ultimi bagliori del tramonto guizzavan sulle alte vette degli alberi e dall’aperto balcone entrava la gran voce amica del parco e delle acque...

Ed ora mentre le imagini musicali di Silvia passavan nel saloncino Piero osservava la madre. La luce della lampada colpiva a pieno il suo volto duro, ma audace ancora – malgrado gli anni, più forti di lei – della sua insolente sanezza plebea. Una vecchia vampa di lussuria non doma ancora, dopo tanto tempo, le ardeva la faccia. E la vampa si affermava specialmente agli angoli delle labbra, arse, e alla base del naso, dalle narici aperte e anelanti, ancora.

E Piero ricordava.

Era una sera di estate. Quanti anni eran trascorsi da quella sera?

Egli era allora un bambino, decenne, non più. Era, su nel loro salone di città, una grande festa: v’era una folla di amici, e luce e profumi e musica e fiori. Egli stanco di quella musica e di tutti quei fiori era disceso in giardino. Era venuto a cercare le lucciole. Le piccole facelle viventi volteggiavan tra gli arbusti, nella notte: salivan, scendevano, ronzavan, pulsando palpiti luminosi... Ma una di quelle lucciole, enormi, attrasse il fanciullo. Una vera lanterna animata, che ardeva sopra un fiore, una foglia, si spegneva, si riaccendeva di nuovo per arder più lontano: ora in alto, ora in terra, vicinissima, lontana... inafferrabile. Il piccolo Piero la seguiva cauto ed attento. La grossa lucciola lo condusse così nel folto del giardino silente e profumato nella notte estiva. A un tratto parve al fanciullo sentir una nota voce, e non sola... S’inoltrò guardingo e nell’ombra intuì, comprese, vide. La madre era tra le braccia di un uomo... e non era suo padre. Chiamò forte: – Mamma! – La donna si riscosse, e venne a lui, ridendo...

Ma da quel giorno l’odio della donna sorpresa, per il figliolo decenne che sapeva, non si spense mai più.

— Così, pensava ora Piero, così il vecchio patriarca offeso aveva dovuto odiare e maledire il triste figliuolo che ne aveva, inconscio, sorprese le vergogne.

Ed era stato ben tenace l’odio della madre! Oh! Piero ricordava.

E dalla madre gli occhi di lui corsero alla sorella, ancora al piano. Povera bambina! Ell’era così bianca e gracile, piccolo fiore sbocciante solitario tra gli altri del parco. Che sognava ella mentre le manine stanche scorrevano sulla tastiera? Quali ombre passavan nel suo cuore ignaro e le oscuravan la fronte purissima? Che passava nel suo occhio vergineo quando fermava su lui lo sguardo sì triste? Povera bambina, povero fiore inconscio! Che riserbava a lei la vita, la bizzarra e triste vita dei Sergio? E Piero sentì una infinita tenerezza scendergli al cuore mentre guardava la sorella così bianca e stanca nel mollissimo atto di abbandono nel quale s’era ora adagiata dopo tolte le mani dalla tastiera, che avea, sino a quel momento, gemuto sommessamente de’ suoi pensieri.

Ma ella si riscosse e si alzò. Venne sino a lui e sorridendo gli accennò Andrea, il fratello che dormiva ora saporitamente sopra il suo paziente lavoro di traforo.

— Se lo è meritato, questo buon sonno – disse Piero sorridendo.

Difatti la giornata di caccia era stata laboriosa. Era lui talvolta il compagno delle lunghe escursioni su per i monti e le foreste vicine che solea fare Piero da che era al castello. Compagno robusto, devoto e pronto, come Max, il giovane bracco.

Silvia e Piero contemplarono il forte ragazzo dormente. Egli dormiva sereno, la bocca semiaperta, veramente forte, in quell’abbandono che metteva in evidenza le giovani membra robuste. E il fratello pensava, guardandolo, che quel giovane colosso era forse, tra i Sergio, il felice.

Ma egli non sapeva che i servi della casa solevan dire, fra di loro, che donna Albina, stanca di generare dei Sergio, aveva voluto alfine farsi un figliuolo veramente suo, del suo sangue e della sua razza... e che v’era riuscita, al di là delle sue speranze.

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