V.

Calavan lente le ombre sul parco: e nel breve giardino che ricinge il castello Piero e Silvia s’indugiavan tra le aiuole e gli arbusti, lusingati dalla primaverile promessa che la brezza del tramonto recava dalle alte vette degli alberi che s’ingemmavano e dai prati della valle che si andavan vestendo di verde novello. Venivan gli ultimi bagliori ad infiammare di sangue le vetrate su in alto e a far rosee le acque delle vasche: e la violacea penombra che scendea sulle cose dava una grave e solenne dolcezza alla pace della mistica ora.

Silvia avea poggiato il braccio sopra quello di Pietro e taceva raccolta. E taceva anche Piero, vinto dal sottile mistero che salìa dalle ombre del parco. E guardava la sorella: molle nell’atto stanco, preso il purissimo volto dal lividore dell’aria grigia; triste tutta, anche lei, nell’ombra.

E la dolce persona giovanetta gli apparì ora in un aspetto mai veduto: era una dolente figura stanca, quasi sofferente nell’attesa di un fato avverso. Egli guardava la piccola mano stretta al suo braccio, mano gracile, mano da bimba, ancora, fatta solo pe’ fiori del parco. L’altra pendeva inerte, aperte le piccole dita nell’abbandono. Così tutta la lieve persona di lei posava sul suo braccio: ed egli sentiva dal cielo, con il grigio, scendere nella sua anima una infinita tristezza. E gli parve che un duolo secreto gravasse sulle loro anime ed ebbe come la previsione che qualcosa d’immensamente triste, d’immensamente doloroso fosse prossimo a cadere sulle loro teste. Era nell’aria fosca del parco una sciagura ignota: e pareva ne scendesse dalle nere volte degli alberi amici il solenne avviso.

Egli strinse involontariamente a sè la dolce sorella ed ella involontariamente si strinse a lui. Ancor essa, certamente, sentiva agitare nel cuore la misteriosa minaccia: ancor essa, come Piero, in quel momento soffriva, perchè a lui parve, nel guizzante barlume della luce morente, scorgerne il pallidissimo volto soffuso d’una tristezza mortale.

Intanto avean lasciato il giardino: s’eran inoltrati nel parco, sotto le fosche volte degli alberi susurranti nell’ombra. Avea strane cupezze il parco, nella sera: bizzarri fantasmi si profilavan qua e là ne le ombre; correan fra i tronchi strane parvenze umane, che facevan fremere di terrore Silvia. E solenne nella sera la gran voce del parco...

I due giovani si fermarono e ascoltarono taciti la voce amica e misteriosa.

Poi Silvia ruppe il silenzio:

— Domani – ella disse, sottovoce – domani noi andremo a pregare il Santo, Piero...

E si strinse al fratello.

Piero tacque un istante, poi disse:

— Sì, domani noi andremo a pregare il Santo, mia Silvia...

La cappella del Santo biancheggiava nel più folto del parco, nel suo fresco rifugio di mirti e di allori, che i secolari cipressi dominavano; e dovea dormire ben tranquillo il Santo nella sua bianchissima urna che il tempo non aveva saputo in alcun modo offuscare; così come non avea saputo affievolire, ancora, la memoria della sua Fede e della sua grande Pietà. Nella valle le generazioni si eran seguite tramandandosi l’un l’altra le leggende del Santo cavaliere infiammato di amore e di carità. Oh, l’antenato dei Sergio, il beato Eribaldo, che in un’epoca di sangue e di crudeltà avea empito la valle dei suoi miracoli di umiltà, non avrebbe potuto desiderare altro sonno più dolce tra il verde de’ suoi vecchi alberi e la mèmore tenerezza de’ nepoti delle anime che avevan goduto il refrigerio della sua vita e della sua parola. Vivea in ogni angolo del parco la memoria del nobile eremita, che dopo aver amministrato nel temuto castello ove i Sergio eran invincibili tanto pane di giustizia e tanto balsamo di carità, avea voluto morire in povertà in un antro del parco, solo protetto dai grandi suoi alberi amici. E la fede avea conservato e fatto sacro quell’antro. I nepoti del Santo avean raccolto là presso le sue ossa benedette: e la bianca cappella n’era sorta tutrice. La pensosa figura del nobile Santo, candidissima nel marmo e nella memoria, s’ergeva nella Cappella, in atto benedicente e correvano le anime in pena, da dieci leghe intorno, a chiedere al bianchissimo simulacro la pace e l’oblio.

Vi veniva spesso Silvia a portarvi fiori e a chiedere qualcosa al Santo. E vi trascorreva, talvolta, lunghe ore, sola. Come era bello quel cantuccio del parco! Come quieto, silente profondo. E come dolce vi giungeva la voce degli alberi amici!

Ma quel mattino Silvia non recava fiori al suo Santo. Era pallida e triste: turbata ancora de l’ignoto turbamento piombato su di lei la sera innanzi.

E pure il cielo, quel mattino, era tutto ridente. Sfolgorava in alto limpidissimo l’azzurro. Un mandorlo, tutto niveo, mettea poco lungo da lei, la trina candida de’ suoi fiori sullo sfondo intenso dei mirti. Sbocciavano persin, qua e là, le prime rose...

Silvia si arrestò un istante davanti alla Cappella. Essa non era sola, del tutto: le saltellava intorno Leo, il suo veltro. Era felice, l’intelligente bestiola, in quel momento: essa sentiva ben altrimenti che non la sua padrona, la gioia del soffio primaverile che il sole lietissimo sfolgorava d’ogni intorno. Saltellava, guizzava, fremendo di piacere nella pelle mobile e nervosa. Ma Silvia con un gesto se la chiamò vicino quieta e composta. Gli accarezzò l’aguzzo muso intelligente e la bestiola parve comprendere il comando della padrona, che voleva quiete, in quel momento e in quel quietissimo luogo.

E Silvia si sedette sui gradini del piccolo tempio. Attendeva Piero.

Passò una contadinella che scorta la contessina così modestamente seduta, quasi a terra, si fece vermiglia in volto, salutò confusa, si fece il segno della fede davanti al Santo e rientrò tra le fronde del parco.

Passò un forte contadino, un bifolco del Conte, che si tolse il cappello unendo in un solo devoto inchino il Santo antenato e la bella padroncina nepote. Ed anch’egli rientrò nel verde del parco e la quiete primaverile e luminosa ritornò signora del verde cantuccio.

Ma a un tratto Leo tese le vigili orecchie, guizzò in piedi, aguzzò il muso inquieto e d’un balzo scomparve fra le fronde.

Ed ecco Piero.

Era a cavallo: Mauro, l’unico salvato, de’ suoi tanto prediletti, sacrificati nella troppo recente rovina... Si fermò un istante, a mezzo ancora nascosto tra le fronde, per contemplar la sorella.

Era davvero graziosa.

Nel semplice abitino grigio ella parea giovanissima: una bimba. Le mandò un bacio, venne avanti e balzò a terra. Legò Mauro con le redini ad un arbusto e venne a lei. Ella gli sorrise, con un dito sulle labbra.

— Zitto – accennò – bisogna rispettare la quiete del Santo...

Piero ristette un momento, aspirando il dolcissimo silenzio pieno d’incanto e il misterioso profumo del bosco.

— Divino – disse alfine sottovoce.

— Qui visse trent’anni Eribaldo in penitenza – notò Silvia.

— Eribaldo era un poeta – mormorò Piero.

— Eribaldo fu un santo – disse Silvia convinta.

Entrarono nella Cappella.

Il Santo, candidissimo, le mani levate, sulle loro teste, in atto di benedire, parve salutarli, soffuso di luce.

— Inginocchiati, Piero – fece Silvia.

Piero s’inginocchiò.

Così stettero alquanto, nel silenzio profondo. Non si sentiva che il lene frascheggiar delle fronde e un lontano zirlio di uccelli sperduti nella foresta. Veniva anche, a tratti, l’olezzo della terra germogliante, delle erbe, delle fronde...

Silvia, genuflessa, pregava.

Poi si alzò e disse:

— Aspetta, vado a cogliergli dei fiori.

Tornò poco dopo con un gran ramo del mandorlo in fiore. Pose il niveo tralcio sulle braccia del Santo, sì che questi n’ebbe inghirlandata naturalmente la testa.

E la fanciulla si genuflesse nuovamente. Poi, con nuova voce accorata, che fe’ trasalir il fratello, mormorò nella sua preghiera:

— Benedicici, zio.

Così soleva ella chiamare il Santo, talvolta, con gentil anacronismo.

— Zio, benedici i tuoi nepoti infelici.

E la dolce voce accorata venne di nuovo a far fremere, come una rivelazione, sino al più fondo del cuore il fratello.

E il Santo, tutto candido nella sua aureola fiorita candidissima, le mani levate sulle due teste giovanili chine e supplicanti, li benedì.

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