Nel saloncino dei Sergio.
Si attendeva il temporale. Ad una mattinata afosa, bruciante era seguito un meriggio cupo, livido e minaccioso. Gli Aldobrazzi sorpresi nel parco s’eran rifugiati in castello.
Fiora, davanti al balconcino aperto, alta, diritta, anelante quasi nella nervosa figura eretta, fiutava la tempesta imminente. Ella aspirava con acre voluttà l’intenso effluvio della tempesta che si avvicinava. Il parco immoto, di sotto, come lei attendeva. Non una foglia moveva, nell’attesa silenziosa, non un fremito scoteva la verde massa inerte. Una volata spaurita di rondini si alzò ad un tratto dalla verde massa e andò a tuffarsi più lontano, in un nero antro di ombra, nel nero fogliame. Fremeva in alto, su nelle nubi, un brontolio sordo e un fulmineo balenare di guizzi ardenti.
A un tratto ella chiamò:
— Venite, Piero, venite qua, venite anche voi.
E al giovane che taceva, a lei vicino, indicò il parco immoto come pietrificato nell’attesa.
— La sentite, Piero, voi, nell’aria immota questo fremito di battaglia vicina... così deve essere l’ebbrezza che per voi uomini fa bella la guerra.
E aspirò intensamente, con voluttà.
Piero guardò quel volto bellissimo, quasi contratto, in quel punto, dall’acre voluttà che l’inebbriava; gli occhi scintillanti, di acciaio, le narici anelanti, la bocca, la meravigliosa bocca sanguigna, socchiusa: quasi per bere tutta la intensa voluttà ch’era nell’aria satura degli effluvi della tempesta.
Ella si volse a lui, rapida:
— Ricordate, Piero, quella sera, a Roma... un anno fa...
— Al ballo del console inglese – fece Piero.
— Ricordate?
— Nella serra delle rose bianche...
— Ricordate? fummo soli, un attimo. E voi mi baciaste, brutalmente... ricordate?
— Oh sì – fece Piero, guardando all’orizzonte, al di là delle ultime vette dei grandi alberi, su cui più fitti balenavan i lampi.
— Piero, non ho più dimenticato quel vostro bacio.
Un’improvvisa, violenta folata scompigliò i capelli di Fiora, sbattè le imposte, gettò un turbine di polvere e di pagliuzze sul volto dei due. Nel rapido scompiglio Fiora, la testa vicina, sì da sfiorarla, a quella di Piero, mormorò qualcosa sul volto del giovane, qualcosa che questi non afferrò che confusamente.
— Per carità. Fiora, ti bagnerai... – pregò dietro di loro la dolce voce di Silvia.
La tempesta scoppiava. L’acqua si riversò fragorosa. Gli arbusti del parco si scontorsero frenetici sotto lo schiaffo violento dell’acqua mista a grandine. Guizzavano i lampi nel fitto velo ondeggiante che copriva ogni cosa. La gragnuola fischiava, gemeva, gridava mentre il vento ne sparpagliava i chicchi adamantini furiosamente intorno, con uno stridore strano di risata pazza. Poi man mano il folle stridìo della grandine s’affievolì, tacque del tutto, e l’acqua continuò a cadere, fitta, con voce più sommessa ed eguale.
All’acre odore della tempesta seguì l’olezzo fresco e refrigerante dell’immensa verdura ravvivata dalla pioggia, il soave umidore della terra bagnata. Fiora, sempre al balcone, bevette a lungo l’aria refrigerante, poi andò a sedersi in un angolo del saloncino, silenziosa. Silvia le si andò a mettere accanto.
Piero, ancora in piedi presso il balcone, contemplò le due fanciulle. Così diverse c così ammirabilmente belle e perfette! L’ardente testa di Fiora parea completare l’infinita dolcezza della bruna sagoma della testina di Silvia: il caldo pallore d’avorio della principessina armonizzava con il tenue candore di sensitiva della sorella. Fiora teneva perduti i nerissimi occhi fuori del balconcino, nella massa del parco cupamente verde sotto il bacio dell’acqua. Silvia posava lo sguardo pieno di pensiero sul tenue velo d’acqua che come una garza ondeggiante sfumava i contorni lontani delle cose e delle nubi...
— Che ne dici delle nostre rispettive suore? – mormorò Vico all’orecchio di Piero. – Non formano esse un bel quadretto? Non si direbbero fatte per posare insieme?
Piero assentì, distratto. Infatti stava appunto pensando che le due bellezze, così diverse, eran fatte per completarsi a vicenda.
In quel punto la voce di donna Albina ruppe il silenzio del saloncino.
— Bisogna rompere l’incanto... bisogna allontanare la musoneria del temporale! Principe, uno dei vostri couplets... uno di quelli famosi di Firenze, ricordate?
Donna Albina rievocava altri giorni, altre feste, altri canti, certo molto sollazzevoli e grati alla loro memoria, perchè tanto lei che il principe si misero a ridere, al ricordo.
Anche don Paolo, dalla sua poltrona, sorrise lievemente, per condiscendenza verso le risa volgaruccie dei due.
Il principe si sedette al piano e accompagnandosi da sè, spesso stonando maledettamente gli accordi, intonò:
c’est Mimi ou Marion que...
Donna Albina gioiva tutta alla mèmore canzoncina liberuccia e molto volgare che si spandea trionfante, ne’ terribili accordi del cantante-pianista, pel salottino. Don Paolo sorridea per cortesia alle più solenni stonature del principe. Piero guardava fuori, nel parco. Ben più nobile musica ivi faceva il vento tra le fronde agitate e la pioggia tittillante sulle frasche.
Fiora dal suo cantuccio, sdegnata dalla volgarissima musica del padre, corrugò un momento la fronte, poi scosse lievemente le spalle e tutto portò lo sguardo su Piero, intensamente.
Silvia vide quello sguardo e lievissimamente impallidì.