Verso la metà del giugno – un poco prima di come avea detto Silvia – i balconi della Villa degli Aldobrazzi apparvero spalancati.
I principi erano arrivati.
Piero si vide comparir Vico, a cavallo, in perfetto abito di cacciatore.
— Ben trovato, o gentiluomo campagnolo! – gridò egli a Piero, non appena lo scorse; e, saltato da cavallo, gli porse la mano.
I due amici di altri giorni si abbracciarono.
Piero un poco titubante, studiava Vico. A Roma molto si era dovuto parlare della disastrosa sua fine; lo scandalo sollevato dalla clamorosa sua cacciata dal reggimento dovea esser stato altissimo; la sua partenza clandestina, da colpevole, non salutato da nessun amico, avea dovuto servir d’alimento all’infinito a’ pettegolissimi commenti della elegantissimamente maligna società ch’ei praticava.
Che ne pensava ora Vico?
Ma l’Aldobrazzi, naturalissimamente, non manifestò alcun sentimento davanti a Piero, e apparve a lui semplicemente cordiale, come prima. A Piero, già fisicamente e moralmente rigenerato dalla serena tranquillità della vita campestre che da alcuni mesi conduceva, Vico apparve straordinariamente più abbattuto, straordinariamente più sciupato dalla elegantissima ed esauriente vita ch’ei solea condurre alla capitale.
Vico spiegò tranquillamente perchè quell’anno egli e la sua famiglia avean di qualche giorno anticipato la villeggiatura. La principessina Fiora era stata malata, e abbastanza gravemente: per affrettare la convalescenza il medico avea ordinato l’aria libera della campagna, il moto, la libertà: una lunga villeggiatura, insomma. Così si sarebbero trattenuti sino ad autunno avanzato.
— Saremo compagni di caccia a sazietà – disse Vico.
Quindi pregò Piero di voler far noto alla contessa madre e al conte che la sera stessa suo padre e la sorella sarebbero venuti a presentare i soliti dovuti omaggi di buoni vicini.
— Sono ormai parecchi anni che questo avviene – notò egli.
E la sera difatti gli Aldobrazzi vennero tutti al Castello. Fiora, la principessina, alta, bianca, più sfolgorante che mai nella gloria ardente de’ suoi capelli tizianeschi, baciò sulle gote Silvia. La recente malattia, da cui usciva un poco più esile nelle forme slanciate, aveva aggiunto un nuovo incanto alla personcina ardita, fine ed agile come uno stelo.
Piero, ammirandola, dovette convenire ch’ella s’era fatta veramente affascinante.
Ella stese la mano al vecchio amico di città, dicendo:
— Voi mi aiuterete a guarire. Il medico mi ha ordinato ginnastica e moto.
Piero s’inchinò:
— Ho portato con me la mia cavallina nuova, sapete? Fata, un puro sangue, un diavoletto che ci darà da pensare con le sue scappate... Voi, Piero, mi aiuterete a domarla.
Piero s’inchinò nuovamente alla bellissima amica, che mèmore della spietata corte che pochi mesi innanzi le avea fatto, teneva con compiacenza fisi su di lui gli splendidi occhi neri, celebri alla capitale.
Il principe padre s’intratteneva con grande dimestichezza con donna Albina. Era un bell’uomo fiero ed ardito, l’antitesi perfetta del degenere figliuolo, Vico, del quale poteva, a prima vista, sembrare un robusto fratello maggiore, non certo il padre.
Il triste rampollo, irreprensibile d’eleganza, era occupatissimo a complimentare Silvia che conosceva da bambina, com’egli volentieri avea già ricordato più volte al fratello.
Cominciaron cosi – le due famiglie unite – le gite, le cavalcate e le partite di caccia, in cui si mostrava appassionata infaticabile Fiora, la bella convalescente, che nella pienezza della campagna in fiore, andava ritrovando la gentile robustezza del giovanile corpo fiorente di giovinezza.
Anche Piero era andato man mano ritrovando, nella pace del suo gran Parco, la serenità perduta nella triste vita degli ultimi avvenimenti: sì che quella vita, ora, pareva a lui già molto lontana. I suoi nervi irrequieti s’andavan quietando, la calma riposatrice subentrava all’orgasmo morboso di tutto il suo essere eccitato. Tutto il suo fisico, adunque, andava subendo l’influenza rigeneratrice della grande calma che lo circondava. La sua forte giovinezza si ravvivava, gli occhi non apparivan più abbattuti e stanchi, il malsano pallore del volto era scomparso, come il cervello si liberava dalle sue tristi nubi e riviveva di nuova vita. Tutto il suo essere si rinnovava: la vecchia carne malata scompariva e ad essa subentrava una novella carne sana e forte della forza de’ suoi giovani anni, rinvigorita dall’alito puro e ardente della campagna in fiore. Si dissipavan come grige nebbie di un triste sogno i miasmi deleteri della vita affannosa della città viziosa: nuove idee, più serene e più forti, sorgevano come luminosi vapori all’alba del giorno rinascente.
Piero si era dato quindi, fin de’ primi giorni ch’era al castello, ad una grande attività fisica. Faceva grandi gite sui colli vicini, solo, a cavallo talvolta, spesso anche a piedi.
Qualche volta si faceva accompagnare in queste solitarie passeggiate da Leone, il figlio del vecchio custode del parco. Leone era un ben strano ragazzo, taciturno e quasi selvaggio, pieno di misteriosa venerazione e di rispetto per il giovane suo padrone.
Egli era nato nel parco ed era cresciuto nel parco: il parco era stato il suo maestro, i vecchi alberi e le monche statue di pietra grigia i suoi compagni di giuoco; i lunghi viali misteriosi, le vasche piene di musco verde, i cespugli inesplorati il suo mondo, la bianca cappella del Santo la sua Fede, un po’ paurosa. E qualcosa della ruvidità del vecchio parco era anche in lui: basso, tarchiato, egli era un fascio di nervi color terra. Il volto appariva troppo robusto per un adolescente. Di bello avea gli occhi: occhio splendente di animale cresciuto libero sugli alberi e nelle macchie impenetrate. Del resto era rozzo, parlava pochissimo, quasi nulla, e balbettava suoni gutturali, quasi incomprensibili: non avea pensieri nella testa, non sapeva nulla e non comprendeva nulla. Inarrivabile in sugli alberi, de’ quali raggiungeva le più alte cime, accanito nemico degli uccelli, delle talpe e dei leprotti, egli era svogliatissimo giardiniere, quasi incapace di tenere la vanga in mano, inetto a mondare un arbusto, a raddrizzare con cura un gambo di alberello con tendenze infermiccie. Il padre suo non sapeva che fare di quel degenere figliuolo di una intera generazione di giardinieri provetti, che camminava di pari passo con la nobile generazione dei Sergio, venerati padroni: e le tarchiate spalle di Leone conoscevano per bene la particolar considerazione che delle sue attitudini a correr per il parco senza far nulla aveva il vecchio padre. In quei giorni di paterna correzione il ragazzotto spariva nelle macchie a consolarsi forse delle troppo sensibili manifestazioni paterne con i suoi vecchi alberi e a sfogare la sua collera sulla povera fauna innocente del parco.
Piero però conduceva volentieri con sè Leone, primo perchè sommamente taciturno, poi perchè lo aveva preso sotto la sua protezione e pensava di farne un giorno un valletto eccezionale, quando avesse disimparato del tutto a parlare.
Così se lo conduceva dietro, guardia fedelissima, nelle sue lunghissime peregrinazioni sui colli, spesso infruttuose per il cacciatore distratto, ma che gli davan sonni sommamente benefici, al suo ritorno in Castello.
Ma ora, naturalmente, con la venuta degli Aldobrazzi, la vita al Castello s’era fatta più variata e rumorosa.
E Piero, talvolta, finiva per rimpiangere vagamente la bella quiete de’ primi suoi giorni al Castello: que’ primi giorni così calmi e tranquilli, quando accompagnava la sorella a portar fiori al Santo, e passeggiavan soli pel Parco e il bosco, che si svegliavan al primo soffio della primavera.
Ora Silvia, invece, era quasi sempre assediata da Vico: e questo noiava molto Piero.