I

Ero a Parigi sul finire di una calda giornata di luglio, in mezzo alla folla cosmopolita ed eminentemente estiva dei Campi Elisi, osservando sbadatamente la fiumana animata che venendo su da Piazza della Concordia s’ingorgava, per così dire, sotto l’arco della Stella per poi diramarsi e turbinare, sparpagliandosi verso il bosco di Boulogne, per ingurgitarsi nei centomila cafés-chantants, le cui variopinte fiammelle cominciavano a scintillar tra le fronde degli alberi. Ad un tratto mi arrestai di botto, davanti ad un giovane barbuto, dallamise bianchissima, che facea veramente sognare (con quel caldo!) un bel fiocco di neve, dalla punta del cappello ai piedi.

— Toh! sei tu?

— Sono io. E tu?...

— E anch’io.... sono proprio io!

Queste furon le prime spontanee esclamazioni sfuggite dalla bocca mia e da quella del bruno e candido-vestito giovanotto che – come io aveva fatto davanti a lui – si era arrestato di botto vedendomi.

Dopo siffatto riconoscimento non ci rimaneva che gettarci reciprocamente l’un nelle braccia dell’altro, il che facemmo di tutto cuore.

— Dunque tu sei proprio il mio buon camerata Edoardo Carot?...

— In carne ed ossa, – gridò allegramente il mio amico, – e per soprappiù dottore, e sul serio, questa volta....

— L’hai dunque finalmente buscata la tua buona laurea!...

— Ah sì, – mormorò con un sospiro l’ottimo mio camerata di parecchi anni avanti.

Poichè il buon Edoardo, certo, rimpiangeva ancora que’ nostri beati giorni spensierati di studente, a Ginevra.

Giacchè io l’aveva conosciuto appunto colà, l’ottimo Edoardo, nella ridente e ospitale città dal cielo sempre azzurro e dal lago scintillante.... Io mi trovava allora nell’allegra città per approfondirmi nella conoscenza della lingua francese E per attingere alle sue più vive sorgenti il pétillant e grazioso linguaggio, ero divenuto un accanito frequentatore di quanti ritrovi più ciarlieri e.... spensierati poteva offrire a noi giovani stranieri scapati la brillante città.

L’eloquente sospiro del già camerata richiamò per un momento alla mia memoria una folla gaia e tumultuosa di ricordi e di rimembranze.

Ah! que’ giorni beati di spensieratezza!

L’ondata della folla varia e incalzante della sera parigina aumentava sempre più intorno a noi, rimasti fermi sul marciapiede. In alto, sopra l’arco della Stella, una grande fascia color di sangue smorto annunziava che il sole, stanco di aver illuminato per più di dodici ore il turbinoso microcosmo del cervello del mondo, s’era deciso di andarsene a riposare alquanto nell’altro emisfero; e le fiammelle dei vari cafés-chantants occhieggiavano, fra gli alberi, più vivide e numerose....

Qua e là gli accordi vellutati di un’orchestrina sepolta fra le cupole di verzura, riuscivano a soverchiare il ronzio della folla e invitavano i buoni borghesi, gli smilzi inglesi alti e binoccoluti e il circonspetto reiche Vater a godere le delizie di una bibita ghiacciata e lo spettacolo serotino del demi-monde riunito nei celebri ritrovi come il Jardin de Paris, Les Ambassadeurs, l’Alcazar d’Eté e altri simili; tutti scintillanti di lumi e di care donnine, tutti pittoreschi, tutti affollati, tutti.... estremamente parigini.

Mettemmo il braccio l’un sotto quello dell’altro e ci mescemmo alla folla.

— E tu che fai ora a Parigi? – esclamò ad un tratto il mio amico.

Lo guardai desolato.

— Mi annoio!

— Ah!

— Non mi credi dunque?

— Altro che! tanto più, che è appunto quello che da venti giorni, poichè è precisamente da venti giorni che sono qua, io sto coscienziosamente facendo!

— Ti annoi anche tu, dunque?

— Orribilmente.

— È desolante.

— Ma è proprio così!

Proseguimmo alquanto il cammino senza parlar oltre. Ad un tratto il mio amico ruppe il silenzio.

— Ho un’idea! – esclamò.

— Svèlala.

— Tu ignori ancora certamente la dolorosa perdita da me subita....

— Non so nulla! tu lo comprendi....

— Ah, quel mio caro zio!...

— Ricordo infatti d’un tuo ottimo zio che sovente solevi nominare.

— Quando mi trovava in acque critiche, vuoi dire? povero zio! proprio quello.

— Ebbene?

— È morto.

— Poveretto! m’imagino il tuo dolore, lo strazio....

— Calmati. Mi ha lasciato erede....

— Erede?

—Unico erede!

—T’invidio.

— Grazie. Ma tu ancora non sai una cosa....

— Ti ascolto.

— Tra i beni immobili che il mio buon zio ha pensato di lasciare al nipotino, v’è nientemeno che.... indovina.

— Non saprei.

— Un castello!

— Un castello?

— Ma sì, un vecchio maniero!

— Corbezzoli!

— Sicuro: un castello! in compenso però mi dicon sia mezzo diroccato.... una specie di nido di gufi insomma....

— Meglio.... più romantico....

— Un rudere delle barbarie medioevali....

— Un monumento storico prezioso, adunque.

— Non credo. Interessante certo.... pieno di leggende....

— Speriamo che non sia abitato dagli spiriti!

— Spero di no!

— E dove è posto questo, ormai tuo, maniero?

— Oh, se sapessi! Là, sulla vetta delle Alpi. A Turras! Hai tu mai sentito nominare tale paese?

— Mai.

— Neppur io.

— Ciò, ripeto, è molto romantico senza dubbio.

— È vero. Ma l’idea ora sortami in testa, dopo le tue malinconiche esclamazioni, è più romantica ancora.

— Tu vorresti?...

— Prendere il treno, noi due, e....

— Arrampicarci sulle Alpi alla conquista del vecchio maniero, già di tuo zio?

— Precisamente.

— L’idea non è disprezzabile.

— Che ne dici?

— A Parigi fa ora un caldo madagascariano!...

— E questa folla estiva è tanto odiosa!

— Ahimè la nostra Parigi invernale!...

— Essa non è, pel momento, che un sogno lontano!...

— Prendiamo il diretto per le Alpi.

—Ti sorride dunque l’idea?

— M’inebria!

— Allora è deciso.

— La neve, i ghiacciai! il divino candore, la profonda, misteriosa quiete della montagna! i burroni, la tormenta!...

— E il romantico castello dello zio!

— Dove troveresti ideale più adatto di tutto ciò, in questi giorni, a Parigi, con trenta gradi sopra lo zero?...

— È quanto mi sto chiedendo anch’io.

— Partenza per le Alpi, adunque!

— Alla scoperta del vecchio castello!

Fu così che, seduta stante, combinammo di fare le valigie, la sera stessa, e il domani col primo treno partire per la frontiera, diretti alla stazione più vicina al luogo dove si sarebbe poi cercato di guadagnare il selvaggio posto destinato a sottrarci per una quindicina o una ventina di giorni al calore intenso degli asfalti parigini e alla noia cosmopolita della folla estiva che li aveva invasi.

*

E il giorno dopo un treno diretto trasportava il vostro amico, che ora scrive per voi, e il buon dottor Edoardo, con la velocità di centoventi chilometri all’ora, verso i confini della Francia e le porte del mio bel paese, al quale non mi avvicinava senza una dolce commozione nel cuore.

Le prime ore di viaggio passarono abbastanza leste e piacevoli.

Eravamo noi due soli nello scompartimento di prima classe, e l’amico Edoardo mi aveva spiegata la metamorfosi psicologica per cui dallo scapato studente di Ginevra era uscito il serio dottor Edoardo Carot, un giovane scienziato moderno e innamorato sinceramente della scienza sua.

Poichè egli mi aveva parlato con entusiasmo de’ suoi ideali: e mentre parlava, grave e profondo, inspirato quasi, degli orizzonti sconosciuti ch’egli intravedeva nella scienza, signora e padrona dell’avvenire nostro, io con istupore cercava di ravvisare in lui lo spensierato nottambulo di Ginevra, e il mattacchione impenitente di tante nostre allegre scappate.

Egli aveva letto certi miei racconti nei quali io aveva cercato di mostrare come il vasto campo nuovo e fantastico, nella sua positiva realtà, che la Scienza offre a noi artisti moderni possa essere fonte d’inspirazione e di poesia, e stava dimostrandomi come le vane ombre di tanti sogni passati sian povere larve lontane al confronto delle idealità della nuova Scienza trionfante, della conquista luminosa della ragione moderna, del rinnovellato pensiero, dell’inspirazione e della poesia dell’Avvenire.

Ci eravamo riscaldati ambedue nei nostri discorsi e nei nostri sogni: e intanto senza accorgercene avevamo attraversati tre quarti buoni della Francia.

Fino a quel momento, come si è detto, eravamo rimasti soli nello scompartimento: fu alla stazione di Digione che un nuovo compagno venne ad unirsi a noi.

Era costui un ometto grassottello, sbarbato, irreprensibile nella sua mise grigio perla, dalla lente incastrata nell’occhio, armato di una immensa valigia di bulgaro, che impregnò subito tutto lo scompartimento del suo acuto odore; molto sudato, moltoobligeante in tutti i suoi atti, e, purtroppo, molto desideroso di attaccar conoscenza e di ciarlare....

Egli comincio subito col salutarci amabilmente, quindi con il chiederci se aveva l’onore di compiere con noi il viaggio fino a.... dove noi eravamo diretti; quindi con offrirci degli ottimi avana, infine col farci noto il suo nome, cognome e... professione di viaggiatore impenitente en tourist, malato d’una sua strana malattia tutta speciale, che lo costringeva a correre di qua e di là pel mondo, cambiando sempre, in cerca sempre di nuovi orizzonti, dal mare alla montagna, dalla pianura ai ghiacciai, dai villaggi arrampicati sulle rocce più scoscese alle capitali più rumorose....

Instabilità morbosa – aveva egli concluso – l’ha definita il celebre dottor C.... di Bruxelles, che noi dovevamo certamente conoscere. Fortuna (aveva aggiunto modestamente) che la Provvidenza s’era compiaciuta dargli i mezzi per soddisfare la morbosa sua irrequietezza....

Edotti così sullo stato psichico-finanziario del nostro compagno di viaggio, egli ci aveva chiesto dove eravamo diretti.

— A Turras, – aveva risposto imprudentemente il mio amico Eduardo.

Al nome perfettamente sconosciuto, come si è detto, il buon Jean Bonnin era rimasto un istante sorpreso, a bocca aperta.

— Mai sentito! – aveva esclamato tra il sorpreso e il lieto.

Poi, come preso da una subita idea, raggiante in volto, come per l’impressione di un’intensa gioia improvvisa, aveva gridato:

— Vengo anch’io, o signori.

— Dove?

— A Turras.

— Ma come? – non avevano potuto a meno di esclamare.

— Sì, o signori, – aveva soggiunto lui, – debbo confessarvi ch’io aveva preso questo treno a Parigi, senza mèta fissa.... diretto alla frontiera italiana, che tante volte già, ahimè, ho valicato e così bene conosco tutta. Io aveva pensato che durante il viaggio un’occasione mi si sarebbe certamente presentata per istabilire la direzione definitiva che avrei dovuto in seguito prendere.... Signori, – concluse egli con forza, – l’occasione si è ora presentata!... due giovani simpatici, intelligenti e distinti, come lor signori, vanno a Turras, luogo che al mio orecchio suona perfettamente nuovo!... Io la prendo con entusiasmo! A me non resta che venir con loro a Turras!

Ci guardammo con un sorriso.

Poi l’amico Edoardo si permise di osservare:

— Ma questo Turras, che del resto anche noi non conosciamo neppure di vista, mi dicono sia un oscuro villaggetto arrampicato s’una cima di montagna, sopra una vetta sconosciuta delle Alpi.... un nido di gufi.... un luogo perfettamente selvaggio....

— Il suo nome è affatto dimenticato sulle carte geografiche, – incalzai io.

— Ma se questo è il mio ideale! – gridò Jean Bonnin battendo le mani. E ripetè: – Bene! benissimo! di meglio non avrei potuto mai sognare!

E gli occhi gli sfavillavano per la gioia.

Era veramente un bel tipo!

Pareva soddisfattissimo, il buon Jean Bonnin, di aver trovato finalmente la meta del suo viaggio.

Si fregava le mani, ci offrì nuovamente degli avana, si ristorò con del cognac che cavò da una fiaschettina cerchiellata d’oro e ci chiese il permesso di stringerci ripetutamente le mani.

Finimmo per rassegnarci ad averlo compagno di viaggio; tanto più che, tolta la sua tinta di bizzarra eccentricità, ci pareva un buon diavolo.

Ma pur troppo il buon Jean Bonnin era dotato di una loquacità spaventevole.

Egli parlava dei suoi viaggi, dei luoghi innumerevoli che aveva veduto, saltando da un villaggetto dell’Andalusia ad un cantiere di Ladnordschire, da una capanna svizzera ad un fiord norvegese.

Parlava serrato, spedito, accalcando aneddoti, avventure, impressioni, osservazioni, con una quasi direi rabbiosa furia di parole, quasi temesse di non arrivar in tempo ad esaurire quanto dovea far noto alle nostre povere orecchie già stanche ed affaticate da tante ore di treno.

Noi ascoltavamo in silenzio, sbalorditi, vinti ormai da un vago torpore....

Edoardo, più sveglio e paziente di me, interrompeva qualche volta la irrompente fiumana del buon Jean Bonnin con qualche sua breve osservazione.

Io, vinto, mio malgrado, dal frastuono monotono e cadenzato del treno fuggente nella notte, sopra il quale sorvolava bizzarramente la vocetta squillante del nostro loquace compagno di viaggio, sotto il chiarore alquanto opaco e velato, per l’umidità notturna, della lampadina elettrica posta in alto sopra la nostra testa, io sentiva scendermi pesante sul cervello un attonimento grave: un irresistibile torpore di sonno.

Il treno correva sempre, nella notte tenebrosa, il frastuono monotono e cadenzato mi cullava vieppiù, la vocetta squillante mi titillava l’orecchio stranamente, ma senza che la mia mente stanca potesse più percepirne il senso, e la luce blanda della lampadina invitava a chiudersi i miei poveri occhi....

E mi addormentai profondamente.

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