II.

Sognava Parigi, i boulevards, mi pareva di essere alle prese con un enorme bourgeois che armato d’uno spettacolosobouquet all’occhiello mi sbarrava la via, quando una voce robusta mi svegliò:

— Su, dormiglione!

E la voce continuò, sempre sullo stesso tono:

— Svegliati dunque.... e guarda!

Apersi gli occhi intontito.

Una vivida luce inondava lo scompartimento.

Il nostro treno attraversava in quel momento la più splendida zona terrestre che mente umana, abituata alle grigie ombre delle nostre grandi città, potesse mai sognare e sospirare.

Era una vallata, un’immensa vallata piena di luce allegra e diffusa: la luce chiara del mattino, ch’empiva di dolci riflessi smeraldini le colline che venivano dall’orizzonte digradando lievemente sino quasi ai nostri piedi, o, per meglio dire, sin sotto le ruote del nostro treno, animato sempre dalla sua furia divoratrice di spazio, senza pace nè posa.

Una brezza acuta e silvestre faceva sventolare le tendine sopra la mia testa, ed io ne beveva la fragranza sottile ed agreste.

Ad un tratto, davanti ai miei occhi, il fondo della vallata si aprì come uno scenario.

Mandai un grido di meraviglia....

Un’immensa fascia di luce bianca, candidissima in alto, toccava il cielo, di un azzurro intenso: e da quelle meravigliose vette di cristallo pareva spruzzare una viva luce diffusa, evanescente, mai veduta.

Erano le Alpi.

Il mio amico Edoardo guardava, come me rapito, la scena grandiosa, indimenticabile.

Il buon Jean Bonnin, fortunatamente per noi, in quel momento, stanco della sua diabolica parlantina durata tante ore di seguito, dormiva placidamente.

Il treno continuò a correre, in mezzo al sole e al verde per molte ore ancora, finchè si arrestò.

— Qui dobbiamo scendere, – disse Edoardo consultando l’orario.

Difatti era quello lo sconosciuto villaggio ove dovevamo smontare per intraprendere poi, sui muli o a piedi, secondo le nostre maggiori o minori forze alpinistiche, la lunga gita che doveva condurci a Turras.

Demmo un’occhiata a Jean Bonnin.

Egli dormiva sempre.

Una forte tentazione colse me e l’amico Edoardo. Ci scambiammo un’eloquente occhiata con un sorriso. Perchè non lasciarlo dormire in pace, il buon Jean Bonnin e liberarci in tal modo di lui?...

Ma al rumore che facemmo nel prendere le valigie, egli balzò in piedi perfettamente sveglio e si slanciò sopra la sua valigiona di bulgaro.

— Sognavo ch’eravamo arrivati, – gridò egli, – ed ecco il sogno che si cambia in realtà!...

Tutto era meraviglioso in lui e per lui!

Comprendemmo da quel momento che il destino ormai lo aveva legato alle nostre sorti. E ci rassegnammo ad averlo per compagno.

La stazioncina nella quale eravamo discesi, era una di quelle linde, silenziose e così poeticamente alpestri, che sono una caratteristica gentile della forte Savoia, aspra e fiera.

Ci fermammo un momento sopra il breve marciapiede a veder partire il lungo treno nero e sbuffante, che per quasi ventiquattro ore ci aveva trascinati nella pazza sua corsa sin là.

E il treno si mosse, ansò, sbuffò, quindi riprese la sua fuga, sparendo ben presto nel sole e nel verde della bellissima vallata alpina.

Allora attraversammo la saletta d’aspetto della stazioncina e fummo dall’altra parte, sulla piazzetta del villaggio.

L’ora fresca, la brezza leggera, l’odore silvestre che la profumava, le casette rustiche, i contadini vestiti de’ loro pittoreschi costumi, le vacche che si vedevano pascolare quietamente nei prati vicini, tutte queste cose eminentemente semplici e campestri, parlavan con uno strano e profondo fascino ai nostri occhi e alle nostre menti ancora calde e turbate dalla faragginosa vita della capitale.

Edoardo guardava filosoficamente silenzioso ed ammirato, io preso sinceramente e commosso da tanta pura poesia che parlava al mio cuore della cara patria vicina; il buon Jean Bonnin gridando: C’èst extremement beau celà! e rievocando confronti eterocliti che in quel momento nessuno di noi si curava di ascoltare.

Un buon alpigiano, al quale ci dirigemmo, ci condusse all’unico albergo del paese: una pulita locanda, abbastanza frequentata, come in seguito sapemmo, dai touristes e dagli alpinisti. Quivi trovammo di che confortarci e quindi, prese tutte le informazioni che ci occorrevano, noleggiammo le guide e le cavalcature pel gran viaggio a Turras, sede del famoso castello, nostra mèta e sospiro.

*

Erano le tre del mattino quando io ed Edoardo salivamo il primo gradino petroso che, incavato nella roccia viva, incominciava la lunga viottola alpina che dal villaggetto ci doveva condurre su per la montagna, sino al Castello di cui il caro Edoardo stava per prendere l’investitura.

Jean Bonnin mancava.

Avendo ritardato all’appello, noi lo avevamo lasciato all’albergo. Ci avrebbe raggiunti dopo, se lo credeva. Era quella, forse, una buona occasione per perderlo per istrada.

Il cielo, sopra la nostra testa, era limpido e stellato; e dalla immensa vallata che noi sentivamo senza vederla sotto di noi, piena tutta delle notturne brume, veniva l’acuta brezza alpina profumata che ci sferzava il viso.

Edoardo camminava di buon passo, solo e tutto preso dai suoi pensieri; io lo seguiva allegramente; ultime venivano le due guide co’ nostri bagagli.

Nessuno di noi parlava.

Ad un tratto ad oriente una fascia chiara, che rapidamente si fe’ più decisa e quindi si accese di un bel roseo-lilla delicatissimo, ci annunziò che il sole si degnava finalmente di venir ad illuminare la nostra alpestre passeggiata. In un momento il delicatissimo roseo-lilla si fe’ d’un bell’arancione tenue dapprima, poi vieppiù carico e pieno, finchè sfolgorò vivido e ardente, d’un bel colore di fiamma.... E un rapido incendio corse e si propagò di cirro in cirro, di vetta in vetta, finchè venne ad indorare le alte cinte della montagna che ci sovrastava.

E ad un tratto un vivido getto di fuoco, circonfuso di oro, apparì radioso dal fluttuante mare di luce che laggiù s’era acceso in pochi minuti.

Il sole!...

Guardai sotto di me.

La valle era ormai tutta luminosa. La luce d’oro del sole scendeva rapidamente giù per le chine, accendendo qua e là le casupole, i fitti degli alberi, i corsi d’acqua che scintillavano come cristalli; infine toccando trionfante il fondo, ove le ultime nebbie cilestrine fluttuavano indecise ancora, velando leggermente le cose.

Edoardo alto, immobile, eretto sopra una roccia a picco sulla valle chiara di luce, contemplava in silenzio lo spettacolo meraviglioso.

Ci rimettemmo in cammino.

Ad un tratto, ad uno svolto della viuzza, incassata sempre nella roccia viva, apparve all’orizzonte, nera sulla sfondo luminoso del cielo, una macchia bruna, sulla vetta di una montagna.

— Il Castello di Saint-Malin, – mormorò una delle guide.

Ci fermammo.

Io ed Edoardo ci scambiammo un’occhiata. Mi appressai alla guida che aveva parlato.

— Lo conoscete dunque bene voi questo castello di Saint-Malin?

— Oh! – rispose il brav’uomo, – vi porto ogni anno dai sei ai sette visitatori....

Edoardo che s’era avvicinato aveva sentito.

— Ahi! – esclamò.

Ci guardammo e sorridemmo.

Lo stesso pensiero aveva attraversata la nostra mente.

Peccato! Il nostro sogno di solitudine e di mistero si dileguava!

Noi che avevamo sognato di sorprendere un castellaccio ignoto, nido di gufi e di civette, mezzo in rovina, dirupato....

Sentivamo invece ch’era un luogo noto, meta di touristes, forse, e, perchè no dunque? centro di villeggianti alpini.

— È molto conosciuto dunque? – feci io per troncare, se proprio la cosa era come noi pensavamo, ogni nostra illusione.

— Oh! – fece la guida sorridendo, – è addirittura celebre!

— Ahime! – sospirò Edoardo contrariato.

— Cosa dice, signore? – chiese la guida stupita.

Edoardo appariva imbronciato.

— Niente, niente, – borbottò. E riprese: – ma ditemi un po’.... su che cosa dunque fonda tutta questa sua celebrità il nostro castellaccio di Saint-Malin?

La guida sorrise.

— Oh, su tante cose, signori!

— Sentiamo.

— La prima il luogo bellissimo, magnifico veramente. Figuratevi: sulla vetta d’una montagna che scende a precipizio nella valle. Vi si arriva per una viottola da lupi. Poi....

— Ebbene?

— Per le storie....

— Ah! vi sono anche delle storie, dunque?

— Oh, se ve ne sono!

— Comincia ad essere interessante, pare, questo tuo castellaccio di Saint-Malin, – mormorai vôlto ad Edoardo.

La guida che aveva udito la mia esclamazione, pronta come sono in genere tutti gli alpigiani, aveva subito compreso al volo.

— Ah! il signore è dunque....

— Che cosa?

— Colui che ha ereditato il Castello di Saint-Malin!

— Ereditato?

— Ma sì, perchè il buon signor Tommaso....

— I1 mio buon zio.

— Lo diceva dunque! – esclamò il buon alpigiano, – non mi era sbagliato.... Il buon signor Tommaso, il padrone di Saint-Malin, che vi veniva a passare uno o due mesi tutti gli anni, è morto da poco....

— Ed io ne sono l’erede.... e per conseguenza il padrone adesso di questo castellaccio pieno di storie.... e di visitatori. È proprio così, brav’uomo.

Le due guide lo guardarono a bocca aperta.

— Raccontateci, su, qualcosa sopra questo Saint-Malin, – dissi io, – ora che sapete per quale ragione c’interessiamo tanto ad esso....

— Volentieri, signore, – rispose la guida che aveva parlato sino allora. – Sappiate dunque che quel Castello ha una storia. Anzi molte storie!... Prima ch’esso fosse comprato dal vostro signor zio, ch’era un brav’uomo, bisogna dirlo, ma un po’... stravagante, con vostra licenza....

— Dite pure mezzo matto.... non me ne offendo, – mormorò Edoardo sorridendo.

— Prima dunque che il Castello fosse comprato dal vostro signor zio, dicevano i nostri vecchi ch’esso era abitato.... indovinate un po’ da chi?

— Me l’immagino! da qualche mago, qualche stregone, qualche folletto?

— Dal diavolo in persona.

— Niente meno!

— Così dicono. Anzi, a dirvela veramente com’è, pare che sia stato proprio il Diavolo a tirarlo su, quel castellaccio lì, tutto d’un pezzo, dagli abissi del suo regno, in una notte di tormenta.... Oh, se ne raccontano tante! Ma quello che proprio i nostri vecchi hanno veduto, con i loro occhi, in carne ed ossa, è l’antico padrone, quello prima del vostro signor zio, colui che tutti dicevano fosse proprio il diavolo in persona....

— E che tipo era costui?

— Oh! un vecchione dalla gran barba bianca, alto e maestoso, un gigante! Non parlava mai con nessuno. Sempre solitario e pensieroso.... Non faceva, bisogna dirlo, male a nessuno, anzi era buono con i pochi poveri che avevano il fegato di arrischiarsi fin lassù, da lui.... Li faceva partir sempre contenti; ma tant’è, pochi avevamo l’animo forte di esporsi a quel rischio, di perder l’anima, forse....

— Si vede proprio, – esclamò Edoardo che pareva prender molto interesse alla storiella, – si vede proprio ch’era il buon Diavolo della favola, che invecchiando s’è fatto eremita!

— Sarà.... – borbottò la guida.

E riprese a dire:

— Ma dove il vecchione si manifestava proprio Diavolo era in questo.... che lo vedevano sempre arrampicato, solo, sulle rocce più scoscese, più terribili, su quelle punte ove nessuno di noi, che pure siamo del mestiere, ha mai osato mettere piede! E ce ne sono, sapete, in quei dintorni!

— E che faceva lassù?

— Mah! nessuno l’ha mai potuto scoprire. Stava lassù delle ore.... guardandosi intorno con que’ suoi neri occhi spiritati d’aquilotto…. che la notte, lo dicevano i vostri nonni che l’hanno veduto, mandavano luce!

— Diamine!

— Proprio così. Dicono che la notte guardando in su, verso il Castello, si vedevano luccicare due lumi....

— Gli occhi di quel buon vecchione di Diavolo?

— Pare.

— Eh! non c’è male. Tutto ciò, non si può negare, è abbastanza interessante.... – Che ne dici? – mormorò Edoardo volto a me. – E non ti sembra meriti la pena d’aver ereditato tale meraviglia di castello?

— Un giorno.... – proseguì la guida. – un giorno il vecchione sparì. Morto? Nessuno ne seppe mai nulla. Nel Castello non fu più trovato. Fu cercato da per tutto, rovistato, messo sossopra ogni angolo: nulla. Il vecchione era scomparso! Per un po’ di tempo il Castello rimase disabitato e senza padrone. Poi il Comune, visto che nessuno si presentava per reclamarlo, lo mise in vendita per conto suo. Ma per molti anni, si capisce, nessuno volle saperne di spendere i suoi denari in quelle quattro pietre del Diavolo. Finalmente si presentò un giorno il vostro signor zio: lo visitò minutamente da cima a fondo.... e lo comperò.

— Che caro zio! mi diventa più interessante di quanto credeva....

— Il vostro signor zio, – disse l’altra guida, che fino allora non aveva parlato, – fece anzi un’importante scoperta.

— Ah sì?

— Voi saprete che veniva a passarvi uno o due mesi d’estate, tutti gli anni. Una volta dunque fece una strana scoperta. Su in una camera, dietro la tappezzeria che l’aveva nascosta sino a quel giorno, era una specie di nicchia. Egli apre, smuove, fruga. Sotto quella nicchia si apre un buco, un pozzo, bujo e senza fine. Vostro zio vi fece calar giù delle funi, delle secchie.... Niente. il fondo non s’è arrivati a toccarlo mai. Se si butta una pietra potete star dei giorni ad aspettarne il tonfo, non lo sentirete mai. Il che prova, dicono tutti, che quel pozzo....

— Va a comunicar direttamente con l’Inferno, – dissi io, ridendo.

— Senza dubbio. – appoggiò Edoardo.

— E certamente, – ripresi. – il vecchio Diavolo sarà ritornato nel suo regno tenebroso per quel condotto lì....

— Egli è stato previdente, – notò il mio amico, – giacchè il buon Diavolo s’era lasciata una via aperta pel ritorno, terminata la sua villeggiatura sopra questa ingrata terra!...

— Ed ora è sempre visibile questa nicchia col relativo pozzo.... infernale?... – domandai.

— Sicuramente. Anzi....

— Ebbene – chiese Edoardo.

— Anzi, è appunto per vedere questa strana cosa che si arrampicano lassù ogni anno tanti viaggiatori....

— Bene, bene, – mormorò il padrone Edoardo, – ora, però, tutto ciò avrà fine, poichè io....

E il buon Edoardo assunse a queste parole un’aria tragica.

— Perchè io, – finì egli con aria cupa, – intendo continuar ciò che il primo padrone soleva fare!...

Ed il caro amico si guardò intorno, cercando di dare un’espressione diabolica ai suoi occhi.

— Gesummaria! – gridarono un po’ sul serio e un po’ ridendo le due guide.

Però dal modo come lo guardavano, mi sorse il dubbio che cercassero di scoprire in lui le traccie di parentela che sospettavano col vecchio Diavolo del quale veniva a prendere il posto.

— Oh, ma ci sono ben altre storie ancora, – riprese la buona guida che tante utili informazioni ci aveva già date, – ma le sapranno lassù, non dubitino! Tanto più che c’è ancora un’altra cosa che tutti i viaggiatori che arrivan là non mancano mai di andare a vedere.... Ed è un gran camerone pieno di libracci, di cartacce ammuffite, di certi scartafacci da stregoni che fanno venir la pelle d’oca a guardarli....

— La Biblioteca, forse, – osservai ad Edoardo.

— Sono i documenti del Diavolo, – fece la guida convinta, con un vago senso di superstizioso terrore nella voce.

Intanto la nera massa di Saint-Malin s’era fatta gigante, davanti a noi, e il paesello accucciato ai piedi della collina ove esso troneggiava, era a pochi chilometri ormai da noi.

Anche la strada s’era fatta meno disagevole.

Perciò rinforzammo il passo allegramente, giù per la viuzza tutta in discesa, verso il paesello.

*

Per figurarsi il paesello di Turras dove arrivammo in sul far della sera, mentre il sole moriva laggiù all’orizzonte e grandi chiazze di sangue ardevano tutto all’intorno le irte vette alpine, bisogna pensare ad un mucchio di quelle rustiche casette che fanno parte dei presepi di cartoncino, che i grandi magazzini del Printemps di Parigi spediscono a migliaia pel continente.

Ai piedi del tranquillo e romito villaggio scorreva un rivo limpido e sussurrante, che pareva cantare, nel suo corso balzellante, con la sua canzoncina d’ogni ora, la grande pace e la grande semplicità di quelle colline verdi e di quelle casine di neve a un sol piano.

In alto, sulla vetta ripida del colle che lo dominava, sorgeva il castello di Saint-Malin, ruvido e bruno.

Edoardo lo guardò a lungo, dalla piazzetta quieta, che la croce alta, librata nell’azzurro, della piccola chiesa empieva di una cara austerità di fede, che mi facea pensare, mio malgrado, alle gravi lotte religiose combattute nei secoli passati da quei buoni alpigiani per i loro altari.

Siccome il sole era rapidamente disceso dietro la grigia cerchia di vette all’orizzonte e la notte era venuta con le sue ombre a far dormire il paesello, noi decidemmo di pernottare nell’unica piccola locanda del luogo, e rimandare quindi al mattino dopo la scalata al «maniero».

Perciò la prima nostra cura fu di ordinare la più sontuosa cenetta che ci fu possibile all’osteria della locanda, per assicurarci un pasciuto riposo per la notte.

La cenetta ci fu imbandita giù nel rustico tinello. Il quadro era degno d’una scena di pennello fiammingo.

Dalle assi del soffitto che il fumo – da secoli – aveva annerite, pendeva sulla bianca tovaglia di grossa tela del nostro disco, una fumigante lampada ad olio, messa quella sera, lusso inusitato e straordinario, a quattro becchi, quindi a quattro lucignoli olezzanti.

Un’enorme giarra di vino occupava il posto d’onore; due stuzzicanti capponcini arrostiti formavano la parte punitiva del quadretto fiammingo, circondati da montanine fette di lardo e da aromatici pezzi di pane nero montanaro che aguzzava l’appetito con il solo suo aspetto.

Il mio caro Edoardo non riusciva a nascondere, assiso al promettente rustico desco, una certa aria di castellano soddisfatto.

Da parte mia, io, in quell’istante non era animato che da una sola, unica, ardente brama: abbandonarmi senza ritegno alcuno alla distruzione di que’ capponcini color d’oro vecchio, di quel vinetto agreste, di quel lardo e di quel bruno pane da montanari.

Ed ero scusabile!...

Tante ore di ascensione avevano prodotto nel mio giovane e sano stomaco un tale profondo abisso che, in quel momento, avrei ingoiato senza rimorsi tutto il castello ereditato dal mio amico, se fosse stato di marzapane, comprese, ben inteso, tutte le leggende meravigliose che nascondeva nelle sue vecchie pietre....

Ci slanciammo quindi all’attacco della cena con un entusiasmo e un ardore degni dei nostri giovani spiriti e del nostro formidabile appetito, reso sempre più aguzzo dalle sottili brezze dell’alpe che ne circondava.

E se facemmo onore alla rustica imbandigione!...

Eravamo sul più bello del nostro convito quando ci colpì un inedito clamore che veniva avanzandosi nella piazzetta.

Vedemmo parecchi dei buoni alpigiani ch’eran con noi nell’osteria uscire per vedere che cosa mai turbava, a quell’ora per solito così quieta e solenne nel paese, il silenzio della notte....

Il mistero ci fu bentosto svelato.

Jean Bonnin!

Lo smarrito nostro compagno di viaggio entrò nell’osteria, ansante, trafelato....

Egli si gettò a sedere davanti al nostro desco, stendendoci le mani con aria strana e desolata.

— Amici, – egli gorgogliava – amici!... muoio... muoio.... non ne posso più.... aiuto!

Io lo guardava stupefatto: e cominciava a spaventarmi.

— Ma, infine, che cosa vi è accaduto?... – gridò Edoardo, di me più calmo.

— Dio!... non comprendete? Ah!... – e ci guardò con occhio straziante.

— Muoio.... muoio.... di.... di.... – gorgogliò ancora.

— Dite su, una buona volta! – gridò ancora Edoardo impazientito.

— Muoio.... di fame! – urlò il povero Jean Bonnin, e afferrato il mio pane se lo cacciò avidamente in bocca.

Non potemmo trattenerci dallo scoppiare in una grande risata.

— Figuratevi, amici, – continuava a borbottare il buon Jean Bonnin fra un boccone e l’altro, – quella orribile strada!... Ah!...

Giacchè il disgraziato per arrivar prima aveva presa una scorciatoia!

Per saziare l’orrenda fame del nostro infelice compagno di viaggio furon fatti arrostire in fretta e furia altri due capponcini fragranti.

Ma l’oste dovette trar giù dalle nere assi prosciutti e lardi e salami e certe aromaticissime formaggine di montagna, che Jean Bonnin divorava intere, con gli occhi lagrimosi per la voluttà....

A tanto esempio il nostro stomaco si risvegliò....

E ricominciammo!

Il vinetto agreste riprese a correre a torrenti, il pane si sprofondò a montagne negli abissi sempre pronti a riceverlo.

Poi Jean Bonnin, saziato, dette la stura ad un altro torrente ben più formidabile della sua fame di pria: quello scaricantesi dalla sua lingua!

Egli prese a parlare, a narrarci le varie peripezie del suo viaggio su per i fianchi della montagna.

Tutti i suoi triboli furon sofferti nuovamente da noi, per opera della sua diabolica loquela.

Egli parlava ancora, parlava sempre.... E noi muti, cadenti dal sonno, perfettamente inebetiti, la testa abbandonata sul desco.... russavamo deliziosamente.

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