§ V. — Varie penitenze, che si usano dare nei giuochi di conversazione a coloro che mancano alle regole o prescrizioni degli stessi giuochi.

1078. Avvertimenti sulle penitenze. — Le penitenze, che formano lo scopo dei giuochi di conversazione, per la soddisfazione che anche anticipatamente si prova pel diritto di ordinarle, fanno supporre in quelli che le subiscono il talento di eseguirle, ed esigono dall’altra parte in quelli che le ordinano delicatezza di spirito, ed anche sagacità, ed il giudizio opportuno per nulla prescrivere, che conveniente non sia alla conversazione nella quale si trova, al grado e al genere d’ingegno delle persone che la compongono, e alle circostanze in cui si trova questa conversazione.

Si mostrerebbe altrettanta inciviltà, durezza, ed anche pericolo di dare cattiva opinione del proprio carattere, nell’eseguire con rammarico e disgusto apparente un’ordinata penitenza, quanta mancanza di discernimento e di presenza di spirito nell’ordinare una penitenza difficile, e che richiedesse delle cognizioni a persone le quali non ne fossero capaci.

Qui di seguito daremo pertanto un’idea di alcune penitenze, adattate a varii gradi di sagacità, di spirito e di cognizione.

1079. L’abbracciamento del carcerato. — Si ordina alla persona che deve subire questa penitenza, di porsi di dietro a una seggiola, e di sporgere le mani o le braccia fuori da bastoni, per lo più assai stretti, che servono di ornamento alla spalliera della seggiola stessa, come farebbe dai cancelli o dalla ferriata di una prigione. In questa situazione le passano dinanzi tutti i suoi amici o amiche, ed ella così li deve abbracciare.

1080. Il pergolato d’Amore. — Fra tutte le peni-lenze, specialmente di semplice divertimento, niuna ve ne ha, a parer mio, che sia più piacevole e più elegante del Pergolato d’Amore.

La persona che deve far tal penitenza ne chiamerà un’altra di sesso diverso, e, posti entrambi uno in faccia all’altro, terrannosi per ambe le mani, le quali alzeranno appunto in guisa di pergolato. Prima però di prendere tal posizione, la persona che fa la penitenza deve aver baciata la mano a quella che ha chiamato: stando dunque nell’atteggiamento suddetto, l’ultima persona chiamata ne chiamerà un’altra, pure di sesso diverso, e questa nel passare di sotto al pergolato, mentre le braccia che Io formano si abbassano, verrà chiusa come da catena. Questo prigioniere non ricompra la sua libertà che col baciare la mano ad una delle persone che lo cingono, cioè a quella di sesso diverso. Essa allora passerà e si metterà accanto a quella del proprio sesso, e ne chiamerà un’altra di sesso diverso dal proprio: e questa pure pagherà il passaggio, e formerà pergolato con quella che l’ha chiamata, e poi chiamerà essa pure, e così fintanto che vi sono persone da formare tante coppie di uomo e donna. Poscia tutti alzeranno le braccia, la prima coppia venuta vi passerà di sotto tenendosi per le braccia, e appena uscita farà un giro di walzer; indi l’uomo accompagnerà la femmina a sedere, e cosi faranno le altre coppie una dietro l’altra.

1081. I sospiri. — Così si chiama una penitenza mediante la quale si ordina ad una persona di andarsi a collocare in un angolo della sala, e sospirare con forza: allora le si chiede: Per chi sospiri? Essa accennerà una persona di sesso differente dal suo, la quale deve alzarsi, e le si porrà davanti voltandole il tergo. Questa pure sospira e chiama un’altra persona dopo che le si sarà chiesto per chi sospira; l’ultimo accorre e fa lo stesso, finchè sieno chiamate tutte le persone della conversazione, alternativamente uomo e donna; e così tutta la compagnia sarà disposta sopra una linea a guisa di processione. Allora si ordina che tutte le persone in numero dispari, principiando da chi fa la penitenza, quali sono la prima, terza, quinta, ecc., si debbano voltare ad un cenno di un capo, cioè o dopo tre colpi di mano, o dopo tre voci, ecc., e per questa voltata si trovano uomini e donne in faccia, meno che quegli che ha fatta la penitenza, il quale per tal modo viene a trovarsi col viso nel cantone. Ogni cavaliere prende sotto il braccio la sua dama che si trova dirimpetto, e l’accompagna a sedere al suo posto, e quegli che si trova all’angolo deve restarvi finchè non si è data un’altra penitenza, alla esecuzione della quale egli non può prender parte.

1082. Andarsi ad esibire. — Quando si sarà obbligata la persona che fa la penitenza di andarsi ad esibire, il depositario dei pegni andrà all’orecchio di tutte le donne della conversazione, se chi fa la penitenza è un uomo, e se è una donna all’orecchio degli uomini; e ad una persona a suo piacere dirà: Voi siete la scelta. Allora, chi deve fare la penitenza si porterà da tutte le persone di sesso dal suo diverso, e dimanderà se lo vogliono per consorte: se indovina alla prima quella che gli è stata destinata, tanto meglio, verrà preso a braccetto ed accompagnato al suo posto; se al contrario sbaglia, gli verrà fatta una giravolta in faccia, e così burlato dovrà andare da un’altra, fin tanto che non avrà trovato quella ad esso destinata, ed in tal guisa si può trovare ad avere molti rifiuti e burle, se non indovina presto quella che è stata per esso scelta.

1083. Le ore. — Il depositario dei pegni prenderà una carta per segnarci sopra tutte le ore che verranno dette. Quegli dunque che è destinato deve andare a dimandare che ore sono, ad uno ad uno, a tutte le persone che compongono la conversazione. Bisogna che quelli che gli rispondono gli dicano il numero delle ore, ma che specifichino se sono di notte ovvero di giorno; ed il depositario ne prenderà ricordo sulla carta, separando le une dalle altre; alla fine ne tirerà la somma e la differenza che passa tra il numero delle ore di notte e quello delle ore di giorno, sarà contata in tante spalmate con un mestolo sulla mano di chi fa la penitenza. Il depositario deve dargliele, ed è in sua facoltà di accrescerne il numero, o di diminuirlo, ma non più di 12 tanto in un caso che nell’altro. Sta però in questo di conoscere il riguardo che merita la persona che riceve le spalmate, acciò non debbano dispiacere se non sono date con quella moderazione che esige la buona educazione e la delicatezza sociale.

1084. La compagnia casuale. — Quegli a cui si ordina una tale penitenza, deve prendere un mazzo di carte e cavarne i quattro re e le quattro regine. Poscia, tenendo separate le une dagli altri, prende le regine, e tenendole coperte, invita quattro dame a venirne a prendere una per ciascheduna, senza però vederle. Fa poscia lo stesso con quattro cavalieri riguardo ai re. Indi ordina che il re di cuori vada a prendere la sua, regina di cuori, e la conduca a fare un giro di walzer; il che eseguito, il cavaliere accompagna a sedere la dama, e chi fa la penitenza accompagna a sedere il cavaliere; e fa lo stesso per i re e le regine di fiori, di picche e di quadri.

1085. Il cavallo d’Aristotile. — Il cavaliere, il quale è condannato ad adempire questa penitenza, è obbligato di porsi carpone per terra, cioè appoggiando in terra le ginocchia e le mani, ed in questa posizione condurre attorno al circolo della conversazione una destinata dama seduta sul suo dorso.

Questa dama riceve una riverenza da tutti i cavalieri, ai quali passa dinanzi.

1086. L a seggiola incomoda. — Si prende una bottiglia vuota, si capovolge e si pone colla bocca in terra, ordinando al cavaliere, il quale deve fare questa penitenza, di andarvi a seder sopra. Poscia se gli dà un bastone lungo, affinchè dopo che ne abbia appoggiato un capo al ventre, debba incrocicchiarvi ambedue le gambe. In questa posizione se gli danno in mano due candele, una accesa e l’altra estinta, obbligandolo ad accendere anche questa.

1087. I l ponte d’Amore. — Un cavaliere, che sia carpone in terra come si è detto pel Cavallo d’Aristotile, ed in mezzo al circolo della conversazione, riceve sopra il suo dorso un cavaliere e una dama, i quali vi si riposano a loro piacimento, e poscia bacia la mano alla dama.

1088. Accordar l’organo. — Si pongono in piedi sur una tavola cinque o sei uomini della conversazione, che figurano le canne d’un organo. L’accordatore pone le dita sulla tavola, come si pongono alla tastiera dell’organo, ed ogni canna fa una voce. Ma siccome molte di esse stuonano, l’accordatore ordina al cavaliere, il quale deve far la penitenza, di prendere or questa, or quella canna, trasportarla su di un’altra tavola; poscia dopo aver toccati un’altra volta i tasti, gli ordina o di trasportarne via delle altre, o di tornarne nell’organo di quelle già levate: e cosi finchè lo strumento gli sembri accordato.

1089. Giannino accendi la candela. — Si pone un pezzo di carta attortigliato con un capo sotto al corpetto per di dietro a un uomo, il quale tenga sollevati sotto le sue braccia i lembi dell’abito. Questi comincia a girare intorno alla conversazione, dondolando alquanto, e quegli che deve fare la penitenza gli andrà dietro con un lume, finchè abbia accesa la carta.

1090. La statua. — La persona che vorrà riscattare il suo pegno, si mette in mezzo al circolo, e prende la posizione che successivamente piace a ciascuno d’ordinarlo.

1091. Stare ai comandi. — Si chiama così la penitenza per la quale si sta ai comandi di alcuna persona, o anche dell’intera conversazione, e che perciò si è obbligati di fare tutto quello che viene ordinato o da alcune persone distinte, o da tutte indistintamente.

1092. Fare quello che non si ordina. — Per eseguire questa penitenza, si opera in senso contrario ai desiderii o agli ordini di ciascheduno. Così, quando ti verrà ordinato di porti a sedere, e tu resta in piedi. Bisogna che i comandi si succedano rapidamente.

1093. La farfalla ostinata. — Si fa ritirare la persona destinata a questa penitenza; e si prega una dama a regalare un capello de’ più lunghi della propria capigliatura. All’un capo di questo capello si attacca un piccolo pezzettino di carta, e l’altro capo si fissa in terra con una goccia di cera. Si descrive poscia un circolo bianco parimente in terra il cui centro sarà la goccia di cera, e il raggio sarà la lunghezza del capello, più un pollice. Si fa entrare poscia il penitente, e se gli ordina di far uscire dal circolo, mediante il soffio della sua bocca, quel pezzetto di carta, senza però introdurre mai nè le mani, nè la bocca, nè qualunque altra parte del corpo entro la circonferenza. È d’avvertirsi che la sala dovrà lasciarsi in una mezza ombra, ritirando a proposito i lumi superflui: laonde il capello rimarrà invisibile al penitente, e perciò, dopo ch’ei si sarà affannato per conseguire lo scopo, propostogli, ma inutilmente, bisognerà, per compassione, assolverlo e restituirgli il pegno.

1094. Il bacio all’ombra. — Si ordina al penitente di baciare la testa dell’ombra di alcuna persona sul muro. Un’altra persona, che avrà in mano il lume, quando quegli che fa la penitenza sta per baciar l’ombra muove il lume e cosi la fa fuggire. Dopo che il penitente ha così camminato qualche tempo, finalmente gli si lascia baciare, ma dopo che con una opportuna collocazione del lume si sia fatta andare in qualche luogo difficile per accostavisi, come sarebbe sopra qualche mobile, ecc.

1095. La fiera. — Sarà disposta tutta la conversazione in circolo, ed in piedi. Quegli che deve fare la penitenza principierà a dare un amplesso di amicizia alla persona che gli resta a destra, ed in seguito ad uno ad uno a tutte le persone della società; dietro di essa farà lo stesso la persona che vien seconda; dietro la seconda la terza, e così tutta la conversazione sarà in moto, avendo così tutti azione in tal penitenza. Se poi nel corso della serata venisse eseguita più volte, si può variare un poco rendendola meno monotona col sostituire all’abbracciamento un’altra cosa a piacere di chi fa fare la penitenza, come sarebbe il bacio della mano, o simili cose.

1096. Il sordo-muto. — Questa penitenza consiste nell’eseguire, senza parlare, gli ordini che ogni persona dà, parimente senza parlare, e con semplici cenni.

1097. La carta. — La persona obbligata ad esser carta, dimanda agli altri ad uno per uno: Che ne fareste di me, s’io fossi carta? Le risposte sono a grado di ciascheduno. Per esempio: Ne farei sopraccarta per lettere; ne farei un involto di dolci, ecc.

1098. I consigli. — La persona che fa la penitenza dovrà fare tutto il giro della società, e ad uno ad uno dimandare un consiglio, e questo vien dato o ad alta voce, ovvero piano all’orecchio.

1099. La berlina ad alta voce. — Si mette alla berlina la persona che deve fare la penitenza, ed ognuno ad alta voce gli dice il perchè si trova alla berlina, dandogli un motteggio, ovvero qualche frase pungente, ma sempre nei termini della buona decenza ed educazione.

1100. Se fossi una botte ove mi buchereste? — Quegli che fa la penitenza farà il giro della conversazione, e domandando a tutti ove lo bucherebbero se egli fosse una botte, riceverà da tutti ad uno ad uno le risposte.

1101. Lo scrittojo. — Questa penitenza si fa fare ad un uomo, il quale si metterà voltato un poco curvo, e le di lui spalle figureranno uno scrittojo: sarà uno destinato per far mostra di scrivere, con una bacchetta o cosa simile. Lo scritturale con la bacchetta fregherà moderatamente le spalle del paziente, e spesso inzupperà la penna nel calamajo, battendogli della bacchetta nel sedere: dopo sigillerà la lettera, e la penitenza sarà finita.

1102. Gli strafalcioni. — Chi fa la penitenza dovrà ripetere con prestezza alcuni de’ seguenti versi senza sbagliare:

I.° Sbozzachisci fior di pesco:

Fior di pesco sbozzachisci.

2.° Sopra la panca la capra campa:

Sotto la panca la capra crepa.

3.° Tre tozzi di pan secco in tre strette tasche stanno.

4.° Nel giardin del sor Andrea

Sor Simon coton cogliea;
Nel giardin del sor Simone
Sor Andrea cogliea cotone.
Stando sedendo — cotone cogliendo:
Stando boccone — cogliendo cotone.

11 03. Il Cavalier dalla trista figura. — Questa è una penitenza che si dà ad un uomo al quale si pone un candelliere in mano: mentre un altro della conversazione, munito di un fazzoletto bianco, lo conduce per la mano facendo tutto il giro della conversazione e baciando la mano a tutte le dame ad una ad una: ed ogni volta col fazzoletto asciugherà le labbra al suo compagno che fa la penitenza.

1104. I complimenti obbligati. — Questi complimenti si dirigono alla conversazione in generale, o ad una persona in particolare. Quegli, a cui viene ordinata una tal penitenza, ha la scelta di farla o in versi o in prosa. Questi complimenti debbono contenere una dilicata lode, e comparir galanti senza freddure o moine, e soprattutto senza affettazione.

Nulla è più facile d’un complimento in prosa. Quelli in versi hanno maggior merito; ma sì gli uni che gli altri debbono nascere dalla ispirazione del momento. e non possono esser fatti che sopra formole che mi sarebbe facile di citare.

Spesse volte si ordinano de’ complimenti senza E, senza A, o senza qualunque altra lettera che si voglia escludere. Altre volte invece si determinano le lettere colle quali debbono cominciare e finire.

Queste due maniere difficili anche in prosa, lo sono assai più in versi; ma il merito appunto consiste nel vincerne la difficoltà. Io non ne citerò che un esempio, cioè una felice risposta che fu data a una signorina, che voleva, diceva essa, essere amata senza M:

Amarvi senza M, rispose il cavaliere, è lo stesso che ordinar l’impossibile, e prescrivere di doversi limitare ad adorarvi.

1105. Il paragone. — Un paragone deve esser fatto in maniera da offrire una somiglianza e una differenza. Paragonando una signorina a una rosa, la somiglianza è nella freschezza, e la differenza nella durata; perchè la rosa sparisce il giorno che è sbocciata. Così, presso a colei che ama, se uno si paragona al lauro, egli dovrà far rimarcare, che somigliante a quest’albero, il quale è verde in tutte le stagioni, egualmente egli è animato in tutti gl’istanti dai più sinceri sentimenti; ma che se quello si ardesse, si lamenterebbe crepitando, mentre egli, differente da quello, arde senza lamentarsi.

1106. Le rime obbligate. — Questa penitenza consiste nel formare estemporaneamente tanti versi, quante parole rimate insieme sono state date. Quelli che ordinano una tal penitenza scelgono sempre le parole le più stravaganti e le più opposte, perchè riesca più difficile il formare un senso concatenato e ragionevole.

Il felice successo eccita degli applausi. Ma il caso contrario produce quasi sempre un silenzio tanto disobbligante quanto la satira stessa; ma pure si restituisce il pegno, e il penitente si consola colla speranza di meglio riuscire nel compire un’altra penitenza.

Sarebbe altrettanto inutile il dare dei modelli di rime obbligate, quanto lo abbiamo stimato altrove pei complimenti: giacchè anche queste perderebbero tutto il loro merito, se non fossero che il prodotto della memoria, o se si riconoscessero de’ versi già stampati, o imitati da quelli già sparsi nel mondo letterario.

Non ne citerò adunque che uno, come un esempio felice della maniera colla quale fu adempita questa penitenza.

Toccava ad una dama a ordinare. Essa perciò disse al cavaliere che doveva fare la penitenza: « Mi è stato raccontato che voi avete due amanti: vero o falso che ciò sia, ora io non lo voglio cercare. Bramo soltanto che mi facciate un madrigale su la situazione in cui si deve trovare un cuore che abbia da dividere fra due oggetti gli affetti suoi: le rime che per questo componimento io desidero che adopriate sono le seguenti:

Irene
pene
vaga
piaga
foco
poco
ardori
cori.

Dopo che il cavaliere ebbe pensato qualche minuto, prese il pezzo di carta, ove stavano scritte le rime, e recitò sopra di esse a mente questo

MADRIGALE

Per la vezzosa Irene

Vive il mio core in pene;

E per Clori la vaga

Porto nel sen la piaga.

Per doppio acceso foco

Un petto solo è poco.

Se vuoi ch’io viva, Amor, tempra gli ardori,

O per soffrirli almen dammi due cori.

1107. La sciarada. — La sciarada consiste nel dividere una parola composta nelle due, o più sue componenti, le quali dovranno avere un significato proprio, quali sarebbero Pappa-gallo, Raso-io, Mai-ale, ecc., e nel dire una proprietà di ciascuna di queste componenti, ed una proprietà, di tutta intera la parola: perchè da queste si possa poi indovinare quale sia la parola medesima.

Si darà adunque la parola per fare una sciarada. E perchè abbia a riuscire più piacevole bisogna porla in versi, dopo aver ricevuta la parola piano, onde la conversazione possa avere il piacere d’indovinarla.

Questa pure è una specie di penitenza, nella quale non si può far uso della memoria, mentre bisogna soltanto creare.

Pure qui ne daremo un esempio colla parola Palla-dio.

SCIARADA

Il mio primo è una sferica figura;

Il secondo dall’uom non si misura:

Se il tutto vuoi saper come si noma,

Chiedilo ai fasti dell’antica Roma.

1108. Impiegar tre cose nominate. — Quando una dama dimanda: Sapreste impiegare, per fare a me un piacere, tre cose che io vi indicherò.

Dopo aver risposto: Sì; e aver dimandato il nome di queste tre cose, se essa dicesse:

Una caldaja }
Una spada che ne fareste?
Una trappola

Non v’ha dubbio che questa dama avrebbe scelto queste tre cose, tanto ridicolosamente diverse, coll’intenzione soltanto di imbarazzare il penitente.

Pure se le potrebbe rispondere: «Io vorrei porre la caldaja piena d’acqua sopra il fuoco, affinchè ritornando stanca dal passeggio poteste servirvene per farvi un bagno ai piedi. Colla trappola imprigionerei quel sorcio, che volesse venire a disturbare di notte il vostro riposo, ed interrompere quegli aurei sogni, nei quali forse Amore ha compassione anche di me. E colla spada sosterrei ostinatamente verso tutti e contro tutti, che voi siete tanto maliziosa, quanto bella.»

Da quest’esempio si può rilevare che non v’ha difficoltà, che non si renda superabile con alquanto di sagacità e di fantasia.

1109. Le iniziali. — Questa penitenza consiste nello scrivere una quantità di parole, che abbiano un senso seguitato, cominciando ogni parola da lettere prescritte da alcuno.

1.° Esempio.

Se una dama dicesse: «Io scriverò delle lettere a mio piacimento; ognuna di esse sarà il principio di una parola, e l’unione di queste parole formerà un complimento per me » e supponendo che essa abbia scritto :

i, m, d, e, d, a, m, i, v, r,

bisognerà disporre le lettere in una colonna per eseguire la cosa, così:

i il
m mio
d destino
e è
d di
a adorarvi
m malgrado
i i
v vostri
r rigori.

2.° Esempio.

Un cavaliere, potrebbe ordinar di fare un cattivo complimento sopra le medesime lettere, che hanno servito a far il primo complimento, vale a dire sopra le lettere:

i, m, d, e, d, a, m, i, v, r,

ed ecco come l’altro lo eseguirebbe:

i il
m mio
d diletto
e è
d di
a abborrirvi
m mentre
i io
v vi
r rimiro.

3.° Esempio.

Onde ricuperare il pegno, un cavaliere ebbe la doppia incombenza di fare colla stessa parola due acrostici in prosa, l’uno obbligante l’altro disobbligante.

«Voi mi promettete, disse una signora, d’amarmi eternamente, ed io vi do per penitenza di dirmi perchè mi amate, servendovi della parola eternamente per le iniziali e dirmi anche perchè mi odiereste, servendovi delle stesse lettere.»

Vi amo perchè siete Vi odierei se foste
Educata Egoista
Tenera Taciturna
Elegante Empia
Ragionevole Romanzesca
Naturale Negligente
Affabile Arrogante
Misericordiosa Maliziosa
Erudita Equivoca
Nobile Nera
Tollerante Testarda
Eloquente. Esecrabile.

Poscia lo stesso cavaliere seguitò: «Cielo ti ringrazio, che è terminata questa tormentosa seconda parte dell’acrostico epigramma; ed un’altra volta, o signora, che mi mettiate al cimento di soffrir la pena di supporre in voi delle qualità sì brutte, non so s’io non sceglierò piuttosto di rinunziare al pegno.»

1110. Il racconto senza l’ R . — Si suppone che quegli il quale deve fare questa penitenza, abbia quel difetto di lingua per cui non si può pronunziare la lettera r, e perciò gli si ordina di raccontare una qualche novelletta, in cui non debba mai entrare questa lettera.

Ecco in qual maniera un cavaliere fece questo racconto, il quale fu molto gradito dalla conversazione, e che vi narrerò.

LA FESTA DI CASTEL DEL MONTE.

Novella.

«Siamo finalmente al dì della festa! » esclamavano tutti in giubbilo i semplici abitanti di Castel del Monte. Infatti gli scoppii di cento fucili, e il suono delle campane, avevano già annunziato, avanti che spuntasse l’alba, la letizia e il gaudio di questa festa. La mattina passò nelle funzioni ed uffizii divini; poscia il tempio si chiuse, e a mezzodì stavano già tutti i buoni castellani a tavola, imbandita di cibi e di bevande le più squisite. Finiti i banchetti, essi sono già di nuovo nella piazza, uomini, donne, fanciulli e fanciulle più lieti assai della mattina. Molti si stanno sotto un olmo antico quanto il suolo in cui è piantato; questi fanno un giuoco, quelli cantano, là si balla, e qua si suona; tutta la gioventù, specialmente, stava abbandonata alla gioja, finchè il sole fosse caduto. In un luogo un’innocente oca, sospesa e penzoloni in mezzo a una tesa fune, aspettava che un alto villanzone, il quale camminava in cima ad un piano inclinato, se le scagliasse addosso, e lo staccasse dal collo la testa: più in là una vasta bilancia indicava a due amanti qual d’essi fosse il più lieve: si vedeva una folla d’uomini colle cassette al collo, che mettevano in vista quanto avevan di più bello, ed esibivano all’amante i doni che dovea alla sua Ninfa. Ma ciò che fissava in un modo speciale la moltitudine, si fu una macchina ottica, che un cantambanco aveva esposta, acciò la folla a lui andasse, ed affinchè il suo balsamo acquistasse più voga. A quest’oggetto egli facea che di molto si attendesse, innanzi che si accostasse il cupido occhio ad uno dei due buchi tondi, pei quali l’attonito villano contemplava le città, i monti, i fiumi, l’oceano, i bastimenti, i soldati, e le battaglie, che l’eloquente cantambanco, indicava con enfasi ad alta voce. Affinchè quest’ambulante spettacolo acquistasse più fama, vi aveva spiegata dinanzi una spaziosa tenda, e sotto questa si collocavano quelli che, a due alla volta, venivano ammessi al desiato passatempo e alle magnifiche scene che conteneva.

Lubino e Nina si amavano da lungo tempo; ma una vivissima questione, suscitata nelle due famiglie, gli aveva allontanati e divisi. La fanciulla non si moveva, che non avesse continuamente addosso l’occhio di Gianna, che le aveva data la vita; e al giovinetto, Nolfo, vecchio di sua casa, aveva fatto minaccioso divieto che non vedesse mai più Nina. Ma adesso ambedue sono alla festa, benchè ciascheduno in mezzo alla sua famiglia. Nina vedendo l’ottica, divenne impaziente d’un tal passatempo, come sovente accade in quelle, segnatamente, del suo sesso. Una tal vaghezza le venne appagata: debol compenso della continua soggezione in cui veniva tenuta. Essa adunque camminò sotto la tenda, ed ivi accostò l’occhio al piccol buco del Mondo nuovo. Ma Lubino, che non ostante i suoi divieti avea fino a quel punto alimentata in petto qualche lusinga di lei, stava in ogni tempo e luogo coll’occhio teso: egli s’abbattè nel Mondo nuovo, e gettando tosto un’occhiata in fondo alla tela, si avvide di un piccol piede, dal quale conobbe immantinente che colà stava la sua amante. Nina, di tutte le fanciulle del villaggio, aveva la gamba più delicata, e Lubino ben lo sapeva. Appena ei l’ebbe veduta, se ne fuggì da quelli che lo accompagnavano, i quali in quel punto stavano tutti attenti ed occupati nel giudizio di un colpo di palla. Egli passa la folla, giunge al cantambanco, e gli chiede subito un posto. «Ci vuole un soldo» gli dice il cantambanco: «Se mi vi ammettete immantinente, ve ne do due» e dopo alcune simili sollecitazioni, egli finalmente passa vicino alla sua buona amica. Solo il Nume degli amanti sa quello che si disse in tal momento l’affettuosa coppia; solo questo Nume conosce la passione che scambievolmente si manifestò, e i dolci pegni che se ne diede. Essi non vedevano, nè sentivano più nulla di quanto andava spiegando il cantambanco. Nessuno d’essi vide come la bella selvaggia nel tempo che stava cacciando fu veduta dal figlio del Sultano, che se ne invaghì e la sposò: come la bella Maddalena se ne fuggì con Gismondo di Catalogna, suo valente campione: come questo, e come quello, finchè lo spettacolo finì: e bisognò che il cantambanco gli avvisasse fin cinque volte, che non v’aveva più nulla, senza di che gli ascoltanti non se ne andavano mai più. I congiunti di Nina e di Lubino gli stavano da qualche tempo aspettando con impazienza, quando la fanciulla si incamminò ai suoi cogli occhi bassi; e il giovanotto s’avviò a quelli di sua famiglia con una gioja ineffabile. A caso stavano e questi e quelli uniti: onde avendo insieme veduti i giovanotti, quasi s’accese una nuova lite. Ma Nina si gettò in ginocchio dinanzi ai suoi congiunti nel modo il più semplice e il più appassionato, ed avendo fatto lo stesso dal lato suo anche Lubino, ambedue tenendosi a mano supplicavano caldamente che si conciliasse una volta l’antica animosità, e che fosse benedetta l’unione di essi. Questa scena chiamò del popolo; ognuno fu commosso dalla costanza e dall’innocenza di una sì bella passione. Alcuno con bel modo volse in piacevolezza questo avvenimento, e si supplicò caldamente da tutti, acciò si esaudisse il voto dei due amanti. Non fu molto ostinata l’insistenza dei capi delle due famiglie; successe la più commovente scena di comune conciliazione, e in mezzo ad essa la felice unione dei due sposi. L’amabile coppia volle che il cantambanco avesse un bel dono pel suo magnifico Mondo nuovo. Ma la buona Gianna, che aveva di più due figliuole, vietò ad esse caldamente quella tenda.

1111. La Venere. — Questa penitenza consiste nel prendere, ad imitazione di Zeusi, celebre pittore dell’antica Grecia, le perfezioni di molte belle donne, per comporne una, che sia paragonabile a Venere.

Per eseguire l’immaginazione si può però ordinare una Venere morale, come una Venere fisica. La prima si compone delle qualità del cuore e dello spirito di ciascuna dama della conversazione; l’altra delle loro bellezze visibili, quali sono il portamento, la carnagione, gli occhi, i capelli, il sorriso, la voce, la bocca, ecc.

Un giovine al quale si era ordinata questa penitenza, trasportato da un eccesso di ammirazione per la persona che egli amava, avendo dimenticato che per compor la sua Venere dovea dipingere le bellezze caratteristiche d’ogni dama della conversazione, riferì tutto a una sola nelle seguenti strofette :

Onde scolpir la Venere,

Che non si vide ancora,
I tuoi capei d’aurora,
Corinna, io sceglierò;

Poscia i tuoi occhi vividi,

Il naso, i labbri, il viso,
L’amabil tuo sorriso,
L’angelico parlar;

Quel sen, che amor sempre anima,

Quel nobil portamento;
Poi cento Zeusi e cento
Sfido a una Dea simil.

Tutte le dame stavano per reclamare contro l’infrazione de’ patti della penitenza, quando una di esse alzando la voce disse: Signore, compiacetevi di ascoltarmi un momento; forse dopo sarete contente d’aver meco usata questa cortesia.

Essa si pose quindi a cantare quest’arietta con una grazia, una maestria e un’espressione, che lasciavano assai scorgere a qual significato essa la cantasse.

Nice è fatta per piacere:

Chi la mira, e non l’adora?
Non comparve al mondo ancora
Una simile beltà.

Quando al prato, al bosco, al monte

Nice va colle altre belle,
È una luna fra le stelle,
Anzi è un sole in mezzo al ciel.

Nice sola abbaglia, incanta,

E rapisce sola i cuori;
L’altre Ninfe i loro amori
Son costrette abbandonar.

Il giovine, il quale avea esclusivamente cantata la sua Venere, capì perfettamente questa lezione, e chiese in grazia il permesso di giustificarsi. Egli infatti lo fece, dicendo che avrebbe temuto di commettere un’inciviltà maggiore prendendo da ogni dama questa o quella bellezza dominante, mentre così sarebbe indirettamente venuto a dire, che quelle cui non prendeva a modello erano mediocri o inferiori; laddove egli trovava tutte le dame tanto seducenti, che alcuna non ve n’era, la quale non avesse potuto servire da sè sola per modello a Zeusi, come quella che egli avea cantato.

Questa difesa, come che speciosa, trovò grazia presso le dame; ma pure decretarono che questa penitenza per l’avvenire sarebbe stata cancellata dal catalogo di quelle che esse avrebbero ordinato.

FINE

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