Lettera VII.

La Consociazione e i tumulti annonari.

Forlì, 17 Gennajo 1875.

Mio caro Mario,

Abbiate meco pazienza, e consentite ch'io aggiunga alle mie precedenti lettere, dopo una sosta onde è in colpa la mia malferma salute più che la mia volontà, alcuni cenni sull'opera nostra dinanzi ai tumulti provocati dalle difficoltà annonarie della state scorsa, e all'agitarsi degl'internazionali fra que' disordini.

«E questo fia suggel ch'ogni uomo sganni»

Quegli uomini di Stato e que' loro avvedutissimi coadiutori, che da sì fatti tumulti, e dai proclami anonimi di non so quali apostoli dell'impossibile, e da oscure e impotenti macchinazioni, trassero argomento a manomettere tutte le libertà, ostentandosi salvatori della patria, che non chiedeva ad essi salvezza, certo mostrarono nell'eccesso del loro onesto zelo la povertà del loro giudizio sulla misura del pericolo e sulle vere disposizioni del paese. Ma. presumendo che da noi s'intendesse, nonchè a rinegare i nostri principii, a far capitale di que' moti e del concorso de' nostri avversarii per mutare da un giorno all'altro la faccia del paese, diedero indizio di supporci altrettanto stolti a seguire vani disegni, quanto essi apparivano veramente stolti a temerli, se pure i loro timori non erano simulati. E l'indegno supposto ci offese l'anima più delle loro manette. Lascio stare l'insana impertinenza di chi designò Garibaldi in procinto di recarsi a Napoli, sotto colore di salute, a capitanare la rivoluzione sociale. A noi, le idee e gli appelli dell'Internazionale in Italia parvero sempre vaniloquio di gente che sogna. Di tutti i progressi del genere umano, quelli che involgono trasformazione dell'organismo sociale sono i meno atti a ricevere il cimento delle cure improvvise e violente; e se la cura accenna, non a migliorare, ma a svellere i primi fondamenti della natura dell'uomo e della convivenza civile, la proprietà, la famiglia, la patria, la divina coscienza dell'Ideale, eterno Tempio dell'anima; insorgono contr'essa quelle universali riazioni, le quali, smarrendo dal canto loro il senso del reale e del giusto sotto il tormento dell'immaginato pericolo, prestano infelice materia ai sofismi de' falsi conservatori, e ai calcoli dei nemici della civiltà e delle libere istituzioni. Questo pericolo, per l'assoluta incompatibilità, da voi pure ottimamente additata, delle idee comuniste cogl'istituti e coll'indole delle genti italiane, è men grave fra noi che in altri paesi d'Europa; ma a me e agli amici miei era pur sempre chiaro, che, se ogni tentativo di subiti rivolgimenti sociali non avrebbe, per la sua poca realtà intrinseca, commosso sì fattamente gli animi da sospingerli a permanente riazione, avrebbe nondimeno, per la sua stessa natura, trovato ripugnanti ed ostili, non l'alta borghesia soltanto, ma le classi minori del ceto medio, e la parte più intelligente e industriosa de' nostri mezzadri. E noi, mescolando a tal moto la nostra bandiera, l'avremmo tradita e perduta per sempre: e avremmo, il che monta ancor più, tradita e disonorata la patria nostra, pittandola nelle pazze venture di que' popoli nostri vicini e parenti d'origine, che una trista vicenda di lotte intestine e il difetto di morale unità e di virtù edificatrice sembrano condannare alla dissoluzione della decadenza, se il genio dell'incivilimento moderno non li ricrea. E però, volgendo in que' travagli la voce alle Società di parte nostra, noi dicevamo ad esse: «Molti fra i nostri fratelli, che non hanno di che sostenere la vita se non col lavoro delle loro braccia, soffrono terribili angosce. Le cagioni che stremano le fonti dell'operosità produttiva e della prosperità sociale in ogni classe della nazione, s'aggravano ne' loro effetti più specialmente sopra di loro, e il grido di dolore, ch'esce dal seno delle loro famiglie, potrebbe condurli a disperati propositi. Essi potrebbero, illusi ripromettersi dalla violenza un mezzo di mutare in meglio le loro condizioni materiali, dandosi a credere che la nazione fosse per seguirli su quella via; o cercare ad ogni modo, stanchi di patire, un termine ai loro stenti in una lotta ineguale. Nel primo caso, sarebbero vittime di un grave errore; nel secondo, di una cieca disperazione ... Il loro sacrificio non produrrebbe frutto se non di maggiore miseria pei loro cari: il ricorso alla violenza per sanare le piaghe economiche dell'Italia non farebbe che allargarle ed inacerbirle; e i turbamenti della questione sociale fatta strumento di disordini e di sangue, renderebbero più difficile e men favorito dai più l'avanzamento della questione politica.»

E ai nostri voti corrispose il contegno de' nostri operai. Quel tumultuare della povera gente ne' tristi mesi che precedono la mietitura - quando, in attesa della nuova raccolta, le provviste dell'annata vanno stremandosi ne' derelitti abituri e il lavoro scarseggia - era effetto spontaneo di necessità reali acerbissime, raggravate, in mezzo al generale malessere, dal caro de viveri. E nondimeno le domande dei tumultuanti - singolare indizio dell'istinto pratico delle plebi italiane! - non eccedevano la possibilità di que' provvedimenti di civile beneficenza e d'opere pubbliche, coi quali i nostri municipii sogliono alleviare, ne' tempi difficili, le sofferenze del popolo minuto. E dove a quelle domande precorse o tenne dietro sollecito il beneficio, i tumulti quetarono: dove i risentimenti popolari contro vere o supposte cupidigie di speculatori, sospettati di procacciar vantaggio dal pubblico male, trascorsero ad atti minacciosi, e la fame consigliossi colla malvagità a dar di piglio nella roba altrui, bastò la parola onesta e severa de' magistrati municipali e dei cittadini più benvoluti a ricondurre i tumultuanti ai modi civili. Del che fu esempio notevole, fra gli altri, quello di Forlì, dove il disordine, comechè venuto a termini più gravi che altrove, fu nondimeno agevolmente sedato con mezzi morali, mercè un nobile accordo di umani ufficii fra Municipio e cittadini di ogni classe, intesi insieme ad alleggerire le pene de' più bisognosi, sia con lavori di pubblica utilità, sia col provvedimento delle cucine economiche, sia colla temporanea somministrazione delle farine a basso prezzo nelle cucine stesse ai soli necessitosi, salva la libertà generale del mercato, improntandole, con poca perdita del Comune, ai magazzini delle sussistenze militari. Nella quale concordia di umane e patrie carità partecipò di gran cuore la nostra Società Operaja di mutuo soccorso, sciolta di poi, come vi dissi in altra mia, quale congrega di faziosi. E cosa incredibile, ma vera! parecchi de' più riputati operai appartenenti al suo Consiglio, che avevano fatto parte della Commissione dispensatrice delle farine - benemerita del paese per esemplare diligenza e probità, e deputata spontaneamente a quell'incarico dai magistrati del Comune - furono, ne' dì del terrore officiale, -fatti arrestare come rei di attentato alla libertà dei traffici ; ed uno de' motivi addotti nel decreto del prefetto di Forlì per lo scioglimento della Società di Mutuo Soccorso, fu questo appunto che « taluni fra coloro che vi si trovano iscritti presero parte alle agitazioni in discorso, senza rimanersi dallo assumere ed esercitare facoltà contrarie alla legge, erigendosi in Comitato o Commissione intralciante l'azione regolare dei Poteri Costituiti » . Cosa altrettanto non vera, quanto fu arbitrario lo scioglimento della Società, e che, convertendo in delitto politico un ufficio di cittadina beneficenza esercitato da probi uomini, che la Giunta municipale aveva autorizzati a quell'opera sotto la sua responsabilità, mostra che tristi umori travolgano, nelle regioni ufficiali, ogni rettitudine di giudizio sulle cose del paese, e da che impure fonti la sapienza de' nostri reggitori attinga informazioni e indirizzo ad amministrare province assai meno incivili del metodo di governo che le travaglia. E, come a Forlì, così altrove in Romagna, gli amici nostri affrontando, fra scioperi e assembramenti minacciosi, le passioni de' nuovi Ciompi, cooperarono coi magistrati municipali a que' rimedii che, nel fran gente, erano suggeriti dalla ragione e dalla umanità. Il fatto è notorio e riconosciuto, negli atti del Processo intentato contro di noi, dalle deposizioni stesse delle polizie, massime da quelle della Questura di Bologna. Ma il falso concetto che i governi fondati sul privilegio e sull'accentramento de' poteri si formano del principio di autorità, e le apprensioni partigiane suscitate dalla buona prova fatta, in que' pubblici cimenti, da Municipii e da privati cittadini nel reggimento di sè medesimi, pervertivano ne' nostri rettori e in taluni fra i maggiorenti che li consigliavano, ogni senso del vero e del giusto. Pareva ad essi grande jattura della riputazione dello Stato, che a semplici municipali, e peggio a repubblicani, fossa succeduto di ristabilire buon ordine e la pace nelle nostre città senza il presidio della forza, accrescendo credito alla parte loro, e defraudando, coll'importuno e temerario loro intervento, i governanti della occasione e del merito grande di fare un po' di repressione, e mostrarsi forti.

D'onde, se io non m'inganno - ed ingannarmi avrei caro, onde poter credere migliori di quel che non paiano i nostri persecutori - quella sottile orditura di riazioncelle, che riuscirono da ultimo alla magnanima impresa di Villa Ruffi, e ai famigerati Decreti, che fulminarono le società popolari di parte nostra, falsandone il carattere, e mescolandole cogli internazionali in sospetti di mene e d'intendimenti, dai quali i loro principii, i loro statuti e la loro condotta le chiarivano affatto aliene. Ma di ciò, a non dilungarmi di troppo, in altra mia, a conclusione del tristissimo tema.

Vostro

A. Saffi.

Share on Twitter Share on Facebook