I concetti formano una classe speciale di rappresentazioni, che si trova solo nello spirito dell'uomo, toto genere diversa dalle rappresentazioni intuitive esaminate finora. Perciò non possiamo mai raggiungere una conoscenza intuitiva, assolutamente evidente, del loro essere; ma soltanto una conoscenza astratta e discorsiva. Sarebbe quindi assurdo pretender che venissero provati con l'esperienza, in quanto s'intende per esperienza il mondo reale esterno, che è appunto rappresentazione intuitiva; o che fossero portati davanti agli occhi, o davanti alla fantasia, come oggetti d'intuizione. Essi si lasciano esclusivamente pensare, non intuire; e soltanto gli effetti che per mezzo di quelli l'uomo produce, sono materia di vera e propria esperienza. Tali sono la lingua, l'azione metodica e meditata, e la scienza; e dipoi tutto quanto nasce da queste. Evidentemente il discorso, come oggetto dell'esperienza interna, non è altro che un telegrafo molto perfezionato, il quale comunica segni convenzionali con rapidità massima e delicatissima precisione. Ma che cosa significano questi segni? Come vengono decifrati? Forse che noi, mentre un altro parla, traduciamo immediatamente il suo discorso in immagini della fantasia, le quali con la rapidità del lampo ci trasvolano innanzi e si muovono, si concatenano, si trasformano e si colorano a seconda delle fluenti parole e delle loro flessioni grammaticali? Quale tumulto sarebbe allora nel nostro capo all'atto d'ascoltare un discorso o di leggere un libro! Ma non accade punto così. Il senso del discorso viene compreso immediatamente, afferrato con precisione e determinatezza, senza che di regola si confondano i fantasmi. È la ragione che parla alla ragione, mantenendosi nel proprio dominio; e ciò che essa comunica o riceve, sono concetti astratti, rappresentazioni non intuitive, le quali, formate una volta per sempre e relativamente scarse di numero, comprendono, contengono e rappresentano nondimeno tutti gli innumerevoli oggetti del mondo reale. Solo con ciò si spiega che non mai un animale può parlare o comprendere, sebbene abbia comuni con noi gli strumenti del linguaggio ed anche le rappresentazioni intuitive; appunto perché le parole esprimono quella classe affatto speciale di rappresentazioni, di cui è correlato soggettivo la ragione, esse sono per l'animale prive di valore e di significato. Pertanto il linguaggio, come ogni altro fenomeno che noi ascriviamo alla ragione, e come tutto ciò che distingue l'uomo dall'animale, va spiegato mediante quest'una e semplice origine: i concetti – le rappresentazioni astratte, non intuitive; universali, non individuate nel tempo e nello spazio. Solo in alcuni casi passiamo dai concetti alla rappresentazione, formandoci fantasmi che sono intuitivi rappresentanti di concetti, ai quali tuttavia non sono mai adeguati. Questi sono stati particolarmente illustrati nella memoria sul principio della ragione, § 28, né voglio quindi ripetermi ora. Con ciò che è detto colà va confrontato quanto scrive Hume nel dodicesimo dei suoi Philosophical Essays, p. 244, e Herder nella Metacritica (libro d'altronde cattivo), Parte I, p. 274. L'idea platonica, che diventa possibile mediante l'unione di fantasia e ragione, forma l'argomento principale del terzo libro dell'opera presente.
Ora, per quanto i concetti siano adunque fondamentalmente diversi dalle rappresentazioni intuitive, stanno tuttavia in un necessario rapporto con queste, senza di cui non esisterebbero; il qual rapporto costituisce quindi tutta la loro essenza ed esistenza. La riflessione è necessariamente imitazione, riproduzione dell'originario mondo intuitivo, per quanto imitazione di tutt'altro genere, in una materia del tutto eterogenea. Perciò i concetti si posson benissimo chiamare rappresentazioni di rappresentazioni. Il principio di ragione ha qui egualmente una forma particolare; e come la forma con cui esso domina in una classe di rappresentazioni costituisce ed esaurisce tutta l'essenza di questa classe in quanto è formata di rappresentazioni, – sì che, come abbiamo veduto, il tempo è in tutto e per tutto successione, e nient'altro, lo spazio in tutto e per tutto posizione, e nient'altro, la materia in tutto e per tutto causalità e nient'altro – così anche tutta l'essenza dei concetti, ossia della classe delle rappresentazioni astratte, consiste esclusivamente nella relazione che in essi esprime il principio di ragione. Ed essendo questa la relazione col principio di conoscenza, la rappresentazione astratta ha tutta la sua essenza unicamente, esclusivamente nel suo rapporto con un'altra rappresentazione, che è il suo principio di conoscenza. Ora questa può essere alla sua volta un concetto, o rappresentazione astratta, ed anch'essa può avere ancora un altrettale principio di conoscenza astratta. Ma non si continua così all'infinito: bensì alla fine la serie dei principi di conoscenza deve chiudersi con un concetto, che ha la sua base nella conoscenza intuitiva. Imperocché tutto il mondo della riflessione poggia sul mondo dell'intuizione come suo principio di conoscenza. Quindi la classe delle rappresentazioni astratte ha di fronte alle altre la seguente nota distintiva: che in queste il principio di ragione esige sempre soltanto un rapporto con un'altra rappresentazione della medesima classe, mentre nelle rappresentazioni astratte esige alla fine un rapporto con una rappresentazione di altra classe.
Quei concetti che, come si è detto or ora, non direttamente, bensì solo mediante l'intermediario di uno o anche più altri concetti si riferiscono alla conoscenza intuitiva, vengono chiamati di preferenza abstracta; e concreta viceversa quelli che hanno il loro fondamento immediato nel mondo intuitivo. Ma quest'ultima denominazione non conviene se non molto impropriamente ai concetti da lei indicati, perché ancor questi sono pur sempre abstracta, e non già rappresentazioni intuitive. Tali denominazioni sono venute solamente da una coscienza molto confusa del divario che si voleva così esprimere; ma con l'interpretazione qui indicata possono tuttavia sussistere. Esempi della prima maniera, ossia abstracta in senso eminente, sono concetti come «relazione, virtù, investigazione, inizio», etc. Esempi della seconda maniera, ossia impropriamente chiamati concreta, sono i concetti «uomo, pietra, cavallo», etc. Se non fosse un paragone troppo figurato e perciò tendente allo scherzo, si potrebbe con immagine calzante chiamare gli ultimi concetti il pianterreno, mentre i primi sarebbero invece i piani superiori dell'edifizio della riflessione .
Che un concetto comprenda molto sotto di sé, ossia che molte rappresentazioni intuitive o magari anche astratte stiano con lui nel rapporto del principio di conoscenza, cioè vengano pensate per suo mezzo, non è, come solitamente si ammette, proprietà essenziale di quel concetto, bensì solamente secondaria e derivata; la quale può addirittura non sempre trovarsi di fatto, per quanto ognora possibile. Codesta proprietà deriva da ciò, che il concetto è rappresentazione di una rappresentazione, ossia ha tutta la sua essenza esclusivamente nella sua relazione con un'altra rappresentazione; ma il concetto non è tale rappresentazione, ed anzi questa addirittura appartiene di solito a tutt'altra classe di rappresentazioni: avendo carattere intuitivo, può di conseguenza aver determinazioni di tempo, di spazio, ed altre. Può insomma aver molte relazioni, che nel concetto non vengono punto pensate: quindi più rappresentazioni, fra loro diverse in ciò che non è sostanziale, possono venir pensate con lo stesso concetto, ossia venir assunte sotto di questo. Ma questo valer per oggetti vari non è proprietà essenziale, bensì accidentale, del concetto. Si possono adunque dare concetti, coi quali vien pensato un solo oggetto reale, ma che sono tuttavia astratti ed universali, e non già rappresentazioni isolate ed intuitive. Tale è per esempio il concetto che si ha d'una città determinata, la quale ci è nota solo dalla geografia: sebbene con codesto concetto venga pensata quella sola città, sarebbero tuttavia possibili più città, pur differenti in alcune parti, alle quali tutte converrebbe il concetto medesimo. Non per essere astratto da più oggetti acquista universalità un concetto: bensì al contrario, essendo per esso, in quanto rappresentazione astratta della ragione, essenziale l'universalità, ossia la non-determinazione del singolo, possono diverse cose esser pensate per mezzo del medesimo concetto.
Da quanto s'è detto risulta che ogni concetto, appunto perché è rappresentazione astratta, non intuitiva e quindi non in tutto determinata, ha quel che chiamiamo una estensione circolare o sfera, perfino nel caso che gli corrisponda un solo oggetto reale. Ora, noi troviamo costantemente che la sfera d'ogni concetto ha qualcosa di comune con quelle d'altri concetti: ossia, che in esso viene parzialmente pensato ciò che si pensa in quegli altri, e viceversa; sebbene, quando sono davvero concetti differenti, ciascuno o per lo meno uno dei due contenga qualcosa che l'altro non ha. In questo rapporto sta ogni soggetto col suo predicato. Riconoscere questo rapporto, dicesi giudicare. La rappresentazione di quelle sfere mediante figure geometriche è stata un pensiero felicissimo. L'ha avuto forse per primo Goffredo Plouquet, il quale si servì a tal fine di quadrati; il Lambert, sebbene venuto dopo, usò ancora semplici linee, che disponeva l'una sotto l'altra; l'Euler perfezionò la figurazione valendosi di cerchi. Su che cosa poggi in fondo questa sì precisa analogia fra i rapporti dei concetti e quelli delle figure geometriche, non so dire. Ma intanto è per la logica un'assai favorevole circostanza questa, che tutti i rapporti dei concetti, perfino secondo la loro possibilità, ossia a priori, si possano rappresentare intuitivamente per mezzo di tali figure, nel modo che segue:
1. Le sfere di due concetti sono identiche: per esempio il concetto della necessità e quello dell'effetto prodotto da una data causa; così quello di ruminantia e di bisulca (ruminanti e animali con l'unghia fessa); e similmente il concetto di vertebrati e d'animali a sangue rosso (al che sarebbe tuttavia qualcosa da opporre a proposito degli anellidi). Tutti codesti sono concetti equivalenti. Li rappresenta un unico circolo, il quale indica tanto l'uno quanto l'altro.
2. La sfera di un concetto chiude interamente in sé quella d'un altro:
3. Una sfera ne racchiude due o più, che si escludono e contemporaneamente riempiono la prima:
4. Due sfere includono ciascuna una parte dell'altra:
5. Due sfere sono comprese in una terza, senza riempirla:
Quest'ultimo caso vale per tutti i concetti, le cui sfere non hanno una comunione immediata: perché ve n'è sempre una terza, se pur sovente assai ampia, che li racchiude entrambi.
A questi casi si potrebbero ricondurre tutte le combinazioni dei concetti, e se ne ricava l'intera dottrina dei giudizi; con la loro conversione, contrapposizione, reciprocazione, disgiunzione (quest'ultima conformemente alla terza figura). E così anche le proprietà dei giudizi, sulle quali Kant stabiliva le pretese categorie dell'intelletto; facendo nondimeno eccezione della forma ipotetica, che non è più una combinazione di puri concetti, bensì di giudizi, ed eccettuando inoltre la modalità: della quale, come d'ogni proprietà dei giudizi che serve di fondamento alle categorie, da conto distesamente l'appendice. Circa le possibili combinazioni di concetto sopraindicate, è solo da aggiungere che esse possono anche venir combinate variamente; per esempio la quarta figura con la seconda. Solo quando una sfera, la quale ne contiene un'altra in tutto o in parte, viene a sua volta contenuta tutta in una terza, le tre insieme rappresentano il sillogismo della prima figura, ossia quella combinazione di giudizi mediante la quale viene riconosciuto che un concetto, contenuto in tutto o in parte in un altro, è anche contenuto egualmente in un terzo concetto che contenga quest'altro: o anche rappresentano il caso opposto, la negazione; la cui espressione figurata può naturalmente consistere solo in due sfere congiunte, che non sono comprese in una terza. Quando molte sfere si comprendono l'una nell'altra in questa maniera, ne vengono lunghe catene di sillogismi. Questo schematismo dei concetti, il quale già in molti trattati è abbastanza bene esposto, può esser messo come fondamento alla dottrina dei giudizi, com'anche a tutta la sillogistica; dal che l'esposizione d'entrambe sarà resa assai facile e semplice. Imperocché tutte le regole di quelle ne vengono approfondite, dedotte e spiegate secondo la loro origine. Ma il sovraccaricar di queste regole la memoria non è necessario; perché la logica non ha pratica utilità, ma solo importanza teorica per la filosofia. Poiché sebbene si dica che la logica si comporta riguardo al pensiero raziocinativo come il basso fondamentale riguardo alla musica, o anche, se vogliamo esser meno precisi, come l'etica riguardo alla virtù, o l'estetica all'arte; tuttavia bisogna riflettere che nessuno è divenuto artista per lo studio dell'estetica, né un nobile carattere s'è formato con lo studio dell'etica; che da gran tempo prima del Rameau fu composta musica corretta e bella, e che inoltre non c'è bisogno di sentirsi padroni del basso fondamentale per accorgersi delle disarmonie: similmente non occorre saper la logica per non lasciarsi trarre in inganni da sofismi. Si deve tuttavia convenire che, se non per l'apprezzamento, il basso fondamentale è di grande utilità per la pratica della composizione musicale: e perfino l'estetica o addirittura l'etica possono, sebbene in misura assai minore, esser nella pratica di qualche utilità – per quanto sia un'utilità più che altro negativa – sì che non può esser loro negato ogni valore pratico. Ma della logica non può dirsi nemmeno questo. Essa non è se non la consapevolezza in abstracto di ciò che ognuno sa in concreto. Quindi, come non se n'ha bisogno per respingere un falso ragionamento, così non si ricorre alle sue regole per farne uno giusto; e finanche il più addottrinato dei logici le lascia affatto da canto nell'atto del suo effettivo pensare. Questo si spiega con l'osservazione che segue. Ogni scienza consiste in un sistema di verità, leggi e regole generali, e quindi astratte, relative a un qualche genere d'oggetti. Ciascun nuovo caso particolare, che venga a capitare fra questi, viene di volta in volta determinato secondo quella nozione generale, che vale una volta per tutte; perché questa applicazione della regola generale è infinitamente più facile che non l'investigare da capo, per sé, ogni sopravveniente caso isolato; essendo che la general conoscenza astratta, una volta raggiunta, ci è ognora più agevole che l'investigazione empirica del caso singolo. Ma con la logica accade il contrario. Essa è la consapevolezza generale del modo di procedere della ragione, raggiunta mediante la diretta osservazione della ragione stessa, e l'astrazione da ogni contenuto. Ma un tal modo di procedere è per la ragione necessario ed essenziale: in nessun caso ella se ne può rimuovere, non appena sia abbandonata a se stessa. È adunque più facile e più sicuro in ogni caso speciale lasciarla procedere conformemente alla sua natura, che non metterle innanzi, in forma di legge esteriore, venuta dal di fuori, una teoria tratta appunto da quel suo procedere. È più facile: perché, se in tutte le altre scienze la regola generale ci è più comoda che l'investigazione del singolo caso da solo o in se medesimo, invece nell'uso della ragione il suo natural modo di comportarsi in un dato caso ci vien più spontaneo sempre che non la regola generale tratta da quello: poi che l'elemento pensante in noi è per l'appunto la ragione stessa. Ed è più sicuro: perché molto più agevolmente può capitare un errore in quel sapere astratto o nella sua applicazione, che non possa subentrare un processo della ragione, il quale ripugni alla sua essenza, alla sua natura. Da ciò proviene il fatto singolare, che se di regola nelle altre scienze si prova la verità del caso particolare con la regola, nella logica all'opposto la regola viene sempre sperimentata nel caso singolo: ed anche il logico più esercitato, accorgendosi che in un singolo caso viene a concludere differentemente dal modo imposto da una regola, cercherà sempre l'errore nella regola, prima che nella deduzione da lui fatta. Voler fare uso pratico della logica, sarebbe dunque un voler derivare, con indicibile pena, da regole generali, ciò di cui noi siamo immediatamente consci, con la massima sicurezza, caso per caso: sarebbe come un voler prender consiglio nei propri movimenti dalla meccanica, e nella digestione dalla fisiologia. E chi apprende la logica per fini pratici somiglia a colui che voglia insegnare a un castoro la costruzione del suo nido. Sebbene la logica sia adunque senza pratica utilità, deve nondimeno venir conservata, perché ha importanza filosofica, come speciale conoscenza dell'organismo e attività della ragione. Nella sua qualità di disciplina chiusa, esistente di per sé, in sé compiuta, perfetta, e affatto sicura, è in diritto di essere trattata scientificamente, da sola, e senza dipender da tutte le altre scienze, venendo anche insegnata nelle università: ma non acquista il suo effettivo valore se non nel complesso dell'intera filosofia, nell'esame della conoscenza, e precisamente della conoscenza razionale o astratta. Perciò la sua esposizione non dovrebbe aver tanto la forma di una scienza rivolta alla pratica, né contener soltanto nude regole pel giusto modo di formular giudizi, sillogismi e così via; bensì esser piuttosto indirizzata a meglio riconoscer l'essenza della ragione e del concetto, ed ampiamente esaminare il principio di ragione della conoscenza. Imperocché la logica è una semplice parafrasi di questo, e precisamente per il solo caso, in cui il principio che dà verità ai giudizi, non sia empirico o metafisico, ma logico o metalogico. Accanto al principio di ragione della conoscenza, sono quindi da porre le tre rimanenti leggi fondamentali del pensiero, ossia giudizi di verità metalogica, a quello così strettamente affini; e su questa base si forma a poco a poco l'intera tecnica della ragione. L'essenza del pensare vero e proprio, ossia del giudizio e del sillogismo, va spiegata con le combinazioni delle sfere dei concetti, conformemente allo schema geometrico, nel modo sopra accennato; e da questo, per costruzione, vanno derivate tutte le regole del giudizio e del sillogismo. In un sol modo si può far uso pratico della logica: quando nel disputare si dimostrano all'avversario non tanto le sue conclusioni veramente errate, quanto quelle intenzionalmente false, chiamandole col loro nome tecnico di paralogismi e sofismi. Ma per codesto rigetto dell'indirizzo pratico e per la messa in rilievo della connessione che ha la logica con l'intera filosofia, come un capitolo di questa, non dovrebbe quella divenir tuttavia più trascurata che oggi non sia; poi che al giorno d'oggi deve aver studiato filosofia speculativa ciascuno il quale non voglia rimanere incolto in ciò che più importa, e confuso nella massa ignorante ed opaca. Imperocché questo secolo decimonono è un secolo filosofico; con la qual cosa non si deve tanto intendere che esso possegga una filosofia o che la filosofia vi domini, quanto piuttosto che per la filosofia il secolo è maturo, e appunto perciò ne ha bisogno assoluto. Questo è un segno di cultura molto elevata, anzi addirittura un punto fermo sulla scala della civiltà .
Per quanto poca utilità pratica possa avere la logica, non si può tuttavia negare che essa fu inventata per un fine pratico. Io mi spiego la sua origine nel modo che segue. Quando fra gli eleatici, megarici e sofisti il gusto del disputare si fu sempre più sviluppato, arrivando fin presso alla mania, la confusione in cui quasi ogni disputa cadeva dovè far loro presto sentire la necessità di un procedimento metodico: e, come introduzione a questo, era da cercare una dialettica scientifica. La prima cosa da osservare era che le due parti contendenti dovevano sempre essere d'accordo sopra un principio qualunque, a cui eran da ricondurre i punti controversi nell'atto del disputare. L'inizio del procedimento metodico è consistito nel fatto, che questi principi da tutti ammessi vennero formalmente dichiarati tali, e posti a capo dell'investigazione. Ma tali principi concernevano dapprima soltanto il lato materiale di questa. Presto si comprese che, pur nella maniera di rifarsi dalla verità universalmente riconosciuta, e tentar di derivarne le proprie affermazioni, si seguivano certe forme e leggi, intorno alle quali anche senza precedente intesa non mai si dissentiva; dal che apparve, che quelle dovevano essere il procedimento proprio ed essenziale della ragione, ossia il lato formale dell'investigazione. Ora, sebbene questo non fosse esposto al dubbio e al disaccordo, un cervello sistematico fino alla pedanteria venne nondimeno a pensare, che farebbe un bel vedere, e sarebbe il compimento della dialettica metodica, se codesto lato formale d'ogni disputa, codesto sempre regolare procedimento della ragione medesima venisse anch'esso formulato in principi astratti; i quali, appunto, al modo di quei principi universalmente riconosciuti, che concernono il lato materiale dell'investigazione, si ponessero a capo di questa, come un canone fisso del disputare, al quale si dovesse ognora volger l'occhio e riferirsi. Nel mentre in tal modo si voleva coscientemente riconoscer per legge, e formalmente dichiarare, quello che fino allora s'era seguito in virtù di tacito accordo o praticato come per istinto, si trovarono a poco a poco espressioni più o meno perfette per i principi logici, come il principio di contraddizione, di ragion sufficiente, del terzo escluso, il dictum de omni et nullo, e poi le speciali regole della sillogistica, come per esempio ex meris particularibus aut negativis nihil sequitur, a rationato ad rationem non valet consequentia, etc. Ma come di ciò si venisse a capo solo lentamente e con molta fatica, e come tutto fosse rimasto assai imperfetto prima di Aristotele, vediamo in parte dal modo impacciato e prolisso con cui vengono portate alla luce le verità logiche in alcuni dialoghi platonici; e ancor meglio da ciò che ci riferisce Sesto Empirico sulle contese dei megarici intorno alle più facili e semplici leggi logiche, ed alla faticosa maniera con cui le chiarivano (Sext. Emp. adv. Math. 1. 8, p. 112 sgg.). Aristotele raccolse, ordinò, corresse quanto aveva trovato innanzi a sé, e lo portò ad una perfezione incomparabilmente più alta. Se si considera in questo modo come il cammino della cultura greca aveva preparato e provocato il lavoro di Aristotele, si sarà poco disposti a prestar fede alla testimonianza di scrittori persiani comunicataci da Jones, il quale vi dà molto peso: che cioè Callistene abbia trovata presso gl'Indiani una logica bell'e fatta, e l'abbia inviata a suo zio Aristotele («Asiatic Researches», vol. IV, p. 163). Si comprende facilmente, che nel triste medioevo la logica aristotelica sia stata oltremodo bene accetta allo spirito degli scolastici, avido di contese e, nella mancanza d'ogni conoscenza positiva, nutrito soltanto di formule e parole; e da quello cupidamente ghermita, malgrado la mutilazione araba, e tosto elevata a centro di tutto il sapere. Decaduta poi dalla sua gloria, si è nondimeno conservata fino al nostro tempo nella rinomanza d'una scienza indipendente, pratica, ed utilissima; finanche a' nostri giorni la filosofia kantiana, la quale propriamente tolse dalla logica la propria base, ha fatto nascer daccapo un nuovo interesse per lei; interesse ch'ella d'altronde merita sotto questo rispetto, ossia come mezzo per conoscere l'essenza della ragione.
Se alle giuste e severe conclusioni si perviene osservando con cura il rapporto delle sfere concettuali, e sol quando una sfera è precisamente contenuta in un'altra, e questa a sua volta è tutta contenuta in una terza, si riconosce anche la prima come contenuta appieno nella terza; l'arte della persuasione, invece, poggia sul fatto, che i rapporti delle sfere concettuali sono sottoposti a una considerazione appena superficiale, e si determinano in modo unilaterale, a seconda delle nostre intenzioni. Ciò accade soprattutto quando – mentre la sfera di un concetto preso in esame è solo parzialmente compresa in un'altra, ed il resto è compreso invece in una sfera affatto diversa – la si fa passare come tutta compresa nella prima, o tutta nella seconda, come conviene a chi parla. Se, per esempio, si discorre di passione, questa si può far entrare a piacere nel concetto della maggior forza e del più poderoso agente che sia al mondo, oppure nel concetto dell'irragionevolezza; e questo, a sua volta, nel concetto dell'impotenza, della debolezza. Questo sistema potrebbe esser continuato e applicato ad ogni concetto, sul quale cada il discorso. Quasi sempre nella sfera di un concetto s'incrociano più sfere, ciascuna delle quali contiene nel proprio dominio una parte del dominio del primo concetto, ma abbraccia inoltre anche altro dominio: e di queste ultime sfere concettuali si mette in evidenza solo quella, sotto di cui si vuole assumere il primo concetto; lasciando le altre inosservate, o tenendole nascoste. Su questo artifizio poggiano precisamente tutte le insidie della persuasione, tutti i più sottili sofismi: poiché i sofismi logici, come il mentiens, velatus, cornutus, etc. sono evidentemente troppo grossolani per l'impiego effettivo. Non constandomi che finora l'essenza d'ogni sofisticazione e persuasione sia stata ricondotta a quest'ultimo principio della sua possibilità, e additata nella particolare natura dei concetti, ossia nel modo di conoscenza della ragione; voglio, or che il mio discorso m'ha condotto a questo punto, chiarire la cosa – per quanto essa sia di facile comprensione – mediante uno schema esposto nella tavola qui annessa [v. pp. 90-1].
Il quale schema intende mostrare come variamente s'intreccino le sfere concettuali, offrendo campo all'arbitrio di passar da ogni concetto a questo o a quell'altro. Soltanto, non vorrei che dalla tavola si fosse falsamente indotti ad attribuire a questa piccola dilucidazione incidentale maggiore importanza di quella che per sua natura le compete. Come esempio, ho scelto il concetto del viaggiare. La sua sfera s'interseca col campo di altre quattro, in ciascuna delle quali può
passare a volontà chi parli col proposito di persuadere; queste, alla lor volta, s'intersecano con altre sfere, e talune di esse contemporaneamente con due o più, tra le quali colui che parla sceglie arbitrariamente la propria via, sempre come se ve ne fosse una sola – e così alla fine perviene – a seconda del suo proposito, o al Bene o al Male. Ma nel procedere da sfera a sfera si deve sempre andar dal centro (ossia da un dato concetto fondamentale) verso la periferia, e non camminare all'indietro. Questa sofistica può assumere la forma del discorso filato o anche quella del rigido sillogismo, secondo consiglia il lato debole dell'ascoltatore. In fondo, la più parte delle dimostrazioni scientifiche e specialmente filosofiche non sono fatte molto diversamente. Altrimenti, come sarebbe possibile che tante cose, in tempi diversi, non solo siano state erroneamente accettate (perché l'errore in se stesso ha un'altra origine), ma dimostrate e provate, e nondimeno più tardi riconosciute falsissime; per esempio la filosofia di Leibnitz e di Wolff, l'astronomia tolemaica, la chimica di Stahl, la dottrina dei colori di Newton, etc., etc.?
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