III.

L'esperienza acquistata in quattordici anni di attività politica nella mente riflessiva di Niccolò Machiavelli erasi ordinata in osservazioni ragionate; quando la reazione del 1512, riportando in Firenze i Medici, distrusse il governo del Soderini, e lui, Machiavelli, privò d'ogni ufficio. Ritiratosi allora in una sua villa presso San Casciano, datosi agli studî storici e letterari, a quegli studi, i quali, come scrisse Cicerone, “secundas res ornant, adversis perfugium et solatium praebent„, mise a profitto le osservazioni fatte, l'esperienza acquistata nelle cose di Stato, e, corroborandola collo studio comparativo dell'antiche istorie, ne compose quelle opere somme, che l'hanno fatto segno ora di ammirazione, ora di odio, e anche di vituperio, ma che hanno fatto il suo nome universale e immortale, e hanno meritato che sul sepolcro di lui in Santa Croce si scolpisse “Tanto nomini nullum par elogium!

Le opere politiche del Machiavelli, sono principalmente due: i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio e il Principe. Nei Discorsi si ragiona in tre libri, della formazione, dell'accrescimento e dell'ordinamento delle repubbliche; nel Principe, in ventisei capitoli, dei modi che ha da tenere un principe nuovo, o piuttosto un tiranno, a fondare uno Stato e a conservarselo. Le due opere (chi le consideri superficialmente) mostrano di avere un carattere diverso; perchè la prima tratta di repubbliche, e l'altra di principato; quella nella più gran parte riguarda una condizione di ordinata libertà; questa invece uno stato violento e transitorio, qual'è la fondazione di un principato nuovo in una società corrotta, e [193] per opera di un tiranno; infine i Discorsi sono come un commentario di storia antica, mentre il libro del Principe, proponendosi un fine non solo dottrinale, ma pratico ed immediato, trae quasi tutti gli esempî dalla storia contemporanea. Ma, se si studino un po' attentamente, si vedrà che le due opere nei principî generali e nel metodo si accordano; e di parecchie massime che sono nel Principe si trovano i germi, e più che i germi, nei Discorsi.

Permettetemi, Signori, di darvene un breve ragguaglio complessivo.

Nei Discorsi cinque capitoli sono dedicati alla religione, che il Machiavelli, pur considerandola come un fatto puramente umano, pone come fondamento principale e necessario della salute degli Stati “perchè (dice) dove è religione si presuppone ogni bene, dove ella manca, si presuppone il contrario„. E ha una fiera ed eloquente invettiva contro la Chiesa Romana, che muove dal principio che, “appunto per gli esempî rei di quella corte„ l'Italia avesse perduto ogni “divozione ed ogni religione, il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini„. Prosegue poi più fieramente l'invettiva, accusando il potere temporale della Chiesa d'essere d'ostacolo alla unità d'Italia, e d'averla ridotta a tanta debolezza “da essere stata preda, non solamente di barbari potenti, ma di qualunque l'assalta„. Di questa materia della religione è nel Principe appena qualche cenno fugace, laddove l'autore confessa la missione divina di Mosè, e dove dice che il Principe debba, se non essere, almeno parere religioso.

Degli ordini militari discorre con largo ed intimo studio nell'una e nell'altra opera. Ha parole roventi contro le milizie mercenarie ed ausiliarie, e raccomanda vivamente ai principi e alle repubbliche di avere armi proprie.

Per quanto attiene ai metodi di governo, nei Discorsi [194] è, forse più che nel Principe, conservato il rispetto a certi principî generali di moralità, che sono superiori a ogni contingenza politica: ma però sono sempre enunciazioni astratte, che non hanno alcuna influenza sulla determinazione dei modi più opportuni e più efficaci che occorrono per fondare e mantenere uno Stato.

Il Machiavelli più volte, nell'una e nell'altra opera, si chiarisce fautore convinto dello Stato popolare, e avverso ad ogni oligarchia di nobili ed ottimati; ma, anzi tutto, reputa necessario, per bene instaurare una repubblica o un principato ab imis fundamentis, la volontà e la mano ferrea d'un solo ordinatore, che abbia autorità pienissima; e scusa e difende Romolo d'aver ucciso il fratello Remo, e d'aver consentito alla morte del collega Tazio Sabino, perchè il fine che lo indusse a tali omicidî fu la salute dello Stato. Inoltre un principe nuovo ha da fare ogni cosa di nuovo, e perchè gli uomini si hanno “a vezzeggiare o a spegnere„ bisogna che si faccia amico il popolo, e tolga di mezzo gli emuli e i grandi senza pietà. Non si fonda uno Stato libero, se non si ammazzino i figliuoli di Bruto; non vive sicuro un principe nuovo, se si lascino vivere coloro che del principato furono spogliati. E, in sul principio, se occorre, bisogna anche usare crudeltà, ma usarle bene, in modo che si convertano in utilità dei sudditi; e farle subito, e tutte ad un tratto, “per non avere a ritornarci sopra ogni dì, e a star sempre col coltello in mano.„ Come medicina, veda poi il principe di guadagnarsi gli uomini col beneficarli, e i benefizî farli a poco a poco “acciocchè si assaporino meglio„. Degnissimo di lode è il principe buono; ma la bontà deve usare con prudenza e secondo necessità. Buono sì; ma non tanto da essere rovinato “infra tanti che non sono buoni„; nè da avere ritegno a fare, necessitato, cose malvagie, quando giovino a salvare lo Stato. Peraltro, le buone qualità, anche se non [195] si hanno è bene parere di averle, perchè l'universale giudica secondo le apparenze, e nelle azioni guarda al fine. Resta, per ultimo, che diciamo dell'osservare la fede data. La quale cosa è buona e lodevole; mentre la frode (salvo nel maneggiar la guerra) è in ogni altra azione detestabile. “Nondimeno (dice il Machiavelli) si vede per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi aver fatto gran cose, che della fede han tenuto poco conto, e che hanno saputo aggirare con astuzia i cervelli degli uomini ed alla fine hanno superati quelli che si sono fondati in sulla lealtà.„ E cita come maestro d'inganni papa Alessandro VI, che “non fece mai altro che ingannar uomini„; e pure gli inganni gli andarono sempre bene, “perchè conosceva bene questa parte del mondo.„ Certo se gli uomini fossero tutti buoni, la lealtà sarebbe un bene; ma, perchè son tristi, e di rado osservano la fede, un “signore prudente„ non può nè debbe osservarla agli altri “quando gli torni conto, e che sieno spente le cagioni che la fecero promettere„. Tutto sta che s'abbiano cagioni legittime a giustificare tale inosservanza, e che la cosa sia colorita bene, in modo da conservarsi la reputazione dell'universale.

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