IV.

Queste sono, per sommi capi, le dottrine che si contengono nei libri politici di Niccolò Machiavelli; esaminiamole ora con calma, sine ira et studio. Nè a caso ho detto “con calma,„ perchè pare a me che esse esercitino sugli animi nostri, in pari tempo, un grande fascino e una grande repugnanza: e mentre il senso morale ne rimane offeso, la tragica verità di certe massime si palesa nel fatto pur troppo evidente. Della meravigliosa [196] penetrazione del Machiavelli e della sincerità spietata con cui egli espone le cose osservate e le dottrine che ne derivano siamo ad un tempo sopraffatti e scandalizzati; e ci domandiamo, con un certo sgomento, che giudizio debba farsi del carattere morale dell'opera, che giudizio del carattere morale dello scrittore.

Diciamo per prima cosa dell'opera. Bisogna, anzi tutto, porre in sodo che le dottrine del Machiavelli riguardano esclusivamente lo Stato come ente politico, e i reggitori degli Stati esclusivamente nella loro attività politica; e non pretendono di dare precetti di morale e regole di virtù. Ora, o Signori, se noi consideriamo la società, in mezzo alla quale il Machiavelli viveva, non mai più profondo d'allora ci apparisce il dissidio tra la ragione pubblica e la morale privata; non mai più profonda la corruzione; non mai più sicura e trionfante la violenza. Il Machiavelli ha veduto la profondità del male; e, senza riguardo nè pietà, ha posto nella piaga il coltello del notomista, l'ha dilacerata, l'ha messa a nudo, l'ha trattata col ferro rovente, e alla violenza eccessiva dei mali ha opposto la violenza eccessiva dei rimedî.

Forse c'è un errore grave nelle speculazioni del Machiavelli, e questo dipende dal metodo suo troppo rigido e sistematico, per cui dai proprî studî solitarî e dall'osservazione di un numero limitato di fatti trae spesso troppo generali conseguenze, di che lo rimproverò la mente pratica di Francesco Guicciardini. Forse anche contribuì al pessimismo delle sue dottrine lo stato dell'animo suo crucciato e invilito per le condizioni di vita in cui si trovava, e che sono meravigliosamente descritte in una lettera di lui del 10 dicembre 1513 al magnifico Francesco Vettori, oratore mediceo in Roma, della quale avrò occasione di riparlare tra poco. Ma che egli avesse “malvagio il pensiero„, come affermò nella Storia di Firenze il marchese Gino Capponi, mi pare [197] (con ogni riverenza) una troppo recisa ed esorbitante accusa. Malvagia piuttosto era la materia che aveva da trattare; e perchè la trattò col metodo storico, tenendo conto come egli dice, “della verità effettiva„ e non foggiandosi “repubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti„, non poteva fare che quella triste materia diventasse rosea, per contentare la voluttà sentimentale degli umanitarî e degli ottimisti.

Siamo giusti; il tanto odiato machiavellismo non è già il Machiavelli che l'abbia inventato. La parola dicono sia nata in Francia al tempo di Caterina de' Medici, per sospetto e per antipatia dell'influenza italiana; e ha fatto fortuna, tirata sempre al peggior senso, in disdoro del Machiavelli e dell'Italia; ma la cosa ha radici antichissime; ha germinazioni sempre rinascenti; e la storia di tutti i tempi e di tutti i paesi ci dimostra, che tra la ragione di stato e la morale privata la conciliazione, per quanto desiderabile, non è sempre possibile; anzi il dissidio, per quanto doloroso, è in parecchi casi inevitabile; e talvolta, diciamolo schietto, per la salute dello Stato, doveroso.

Niccolò Machiavelli, questo grande colpevole, è messo in croce, perchè ha detto crudamente delle crudeli verità; ma almeno di tante accuse, che gli sono state fatte, non avrà meritata quella di ipocrisia; e di molte altre potrà essere giustificato, per le alte idealità, a cui è inspirata l'opera sua, che sono: la costituzione organica dello Stato al di sopra e all'infuori di ogni interesse individuale e partigiano; la visione dell'Italia unita e libera da ogni oppressione straniera; un sentimento profondo di giustizia sociale; un amore vivissimo alla patria e alla libertà. Io vi ricorderò, o Signori, il capitolo nono del Principe, dove esorta il principe a satisfare con [198] onestà piuttosto al popolo che ai grandi, “volendo questi opprimere, quello non essere oppresso„, e il capitolo decimosesto, che pone tra i vizi più perniciosi del Principe quello di “rubare i sudditi„ e di “gravare i popoli straordinariamente„. Ricorderò quel vigoroso capitolo del libro III dei Discorsi, nel quale è detto che “dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debba cadere alcuna considerazione nè di giusto, nè di ingiusto, nè di pietoso, nè di crudele, nè di laudabile, nè d'ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito, che li salvi la vita, e mantenghile la libertà„. Vi ricorderò infine la maravigliosa esortazione a liberare l'Italia dai barbari, che è in fondo del Principe; nella quale è tanta esuberanza di sentimento e di idealità, che l'animo del lettore si riconforta, e ne riceve un'onda calda di fede e d'entusiasmo, dopo avere percorso insieme coll'autore lo sconsolante cammino delle tristizie umane.

E ora diciamo dell'uomo; e lasciando stare l'uomo privato (che, a dir vero, non fu uno stinco di santo, almeno in quanto si riferisce a castità di costumi e a sentimenti religiosi), vediamo il cittadino, il pensatore. Cittadino servì lo Stato con fedeltà e con zelo, senza vantaggio alcuno, per sè; e lasciò il servizio col rammarico di non potere adoprare l'attività sua in pro della patria. Pensatore, serbò fede, in ogni condizione di vita, ai proprî ideali. E qui torna in campo la celebre lettera al Vettori, dianzi citata, la pressante raccomandazione che egli fa all'ambasciatore di impiegarlo coi Medici; la famosa frase: “se anche dovessero cominciare a farmi voltolare un sasso„; la proposta, per conciliarsi il favore mediceo, di dedicare al magnifico Giuliano il libro del Principe; e ne vien fuori la vecchia accusa (rimessa a nuovo con molto compiacimento dal signor Perrens) [199] che il Machiavelli voltasse faccia per suo interesse personale; e pur di guadagnare e di farsi innanzi, s'adattasse a servire la tirannide, dopo d'aver servita la libertà. Ho riferito senza attenuare; nè contro alla grave accusa arrecherò per difesa il profondo disdegno che egli doveva sentire di quella vita inutile o vile nella villa di San Casciano, tra uomini volgari, che gli empieva, come egli dice, “di muffa il cervello„, e gli convertiva spesso il riso in un “angoscioso pianto„. Ma vogliate invece considerare che, se egli adattavasi al nuovo governo mediceo, reso necessario dalle mutate condizioni esterne ed interne, voleva bensì che si fondasse sulla libertà e sul popolo; e quando, circa il 1515, per commissione di papa Leone X e del cardinale Giulio de' Medici (che fu poi Clemente VII) scrisse un Discorso sopra il riformare il governo di Firenze, si sforzò di conciliare la preponderanza dei Medici colle forme repubblicane, ed esortò i padroni viventi a restituire, alla morte loro, l'intera libertà al popolo. Utopie di pensatore idealista, ma che mostrano com'egli nel mutato ambiente politico non mutasse i suoi convincimenti.

Eppure in quella fugace restituzione di governo popolare, che avvenne nel 1527, il Machiavelli fu sospettato, e tenuto lontano dagli ufficî; e forse il crepacuore dell'ingrato abbandono affrettò la sua morte, che avvenne il 22 giugno di quell'anno. Giovambattista Busini, in una delle sue celebri lettere a Benedetto Varchi, fa del Machiavelli un ritratto assai malevolo; ma termina con dire che “egli amava la libertà e straordinarissimamente„. Queste parole del caldo e incorrotto repubblicano sono la più nobile testimonianza del carattere integro di Niccolò Machiavelli.

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