VI.

Se non che, i tempi definitivamente chiusi non erano per ritornare; la civiltà, bene o male, pigliava altre vie; e alle repubbliche sfinite succedeva inevitabilmente il principato. All'instaurazione del quale, in Firenze, diede opera un altro sommo storico e politico, Francesco Guicciardini.

Anche a lui la diplomazia fu principio di educazione politica, ed ebbe più vasta, ed in più vasto ambiente [202] del Machiavelli, esperienza di governi. Non ancora trentenne fu spedito ambasciatore a Ferdinando il Cattolico, in Spagna; e presso quel principe, altrettanto perfido quanto fortunato, apprese tutti i raggiramenti della politica europea. Governò poi per la Chiesa, l'Emilia e la Romagna in tempi difficili, da' tempi di papa Leone X a Clemente VII; e tenne quei governi con fermezza e con abilità, e partecipò a negoziazioni gravissime, corrispondendo pienamente alla fiducia de' suoi padroni; ma nell'animo suo se ne ingenerò un grande disgusto, che egli espresse più volte in mordaci invettive contro il governo dei preti, dolendosi della necessità, che l'aveva costretto a servirli. Caduta la repubblica di Firenze (la cui fine egli aveva, con diritto acume, preveduta già da gran tempo), si adoperò ad instaurarvi, con forme temperate, il principato mediceo, cercando di conservare qualche forma di libertà e la preminenza degli ottimati. Primeggiò col duca Alessandro, i cui diritti difese fieramente contro i fuorusciti; e, dopo l'uccisione di questo, cooperò all'elezione di Cosimo, lusingandosi di tener in propria balìa l'inesperto giovine. Ma il figliuolo di Maria Salviati e di Giovanni delle Bande Nere (nel quale forse il Machiavelli avrebbe riconosciuta un'incarnazione del suo Principe), si liberò presto dai suoi tutori, e con senno e con fermezza, non disgiunta da crudeltà, pose solidamente le basi della monarchia medicea. Allora il Guicciardini si ritirò in campagna, dove attese alla grande e monumentale opera della Storia d'Italia.

Il Guicciardini, come scrittore politico, è meglio conosciuto, dacchè sono venute in luce le sue Opere inedite. Le Considerazioni sui Discorsi di Niccolò Machiavelli ci rivelano alcune differenze di giudizio tra lui e il Segretario fiorentino in cose politiche; differenze però più di metodo che di principio. I Discorsi politici analizzano e spiegano, con grande conoscenza degli uomini e [203] dei luoghi, alcuni tra i principali avvenimenti svoltisi sotto i suoi occhi, o ai quali egli partecipò. Nei Dialoghi del Reggimento di Firenze, e in altri opuscoli, svolge le sue idee intorno a quel governo misto, che parve a lui e ad altri il rimedio di tutti i mali. Infine i Ricordi politici e civili, che egli raccolse o riordinò nel suo ritiro dagli affari, sono una miniera preziosissima di osservazioni acute, su fatti speciali, di regole pratiche, di ricordi vivaci.

Della mente di Francesco Guicciardini, de' suoi metodi e del suo valore politico, del paragone che è da farsi tra lui e il Machiavelli, hanno discorso critici valentissimi, e tra i più recenti, il Benoist, il De-Sanctis, il Capponi, il Villari. Nè io, in verità, saprei dire più o meglio di loro; perciò vi contenterete, Signori, di pochi lineamenti generali.

Se si abbia rispetto alla potenza speculativa e al concetto sistematico di una scienza di Stato, non può disconoscersi che il Machiavelli tiene di gran lunga il primo luogo: se non che il Guicciardini è dei fatti pratici più preciso e più diritto osservatore. Aborre dalle teorie generali, ma nei casi particolari trova spesso la soluzione giusta. Anch'egli fa distinzione fra la ragione di Stato e la morale privata; alla religione non è certo più riverente di quello che sia il Machiavelli; anche egli ammette in politica la violenza, la frode, la simulazione; ma, spirito moderato, aborre da ogni eccesso, e si sente che in cuor suo desidera il bene. Ciò che manca al Guicciardini è l'idealità, l'entusiasmo, la fede in un principio superiore. Non ha un convincimento proprio, e non può infonderlo negli altri. Infine, uomo d'onestà indubitabile, è per altro scettico e profondamente sfiduciato; e in tutti i suoi scritti (come stupendamente osservò Adolfo Thiers) si sente “un tono di tristezza e di cruccio, come di un uomo stanco delle innumerevoli miserie che ha visto„.

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